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Marcello Pamio

Il nome può ingannare perché suona morbido e sofficioso, in realtà il “cloud” è una vera e propria fortezza. A dirlo è Brad Smith Presidente di Microsoft.
Il termine “cloud” in italiano significa letteralmente “nuvola” ed è uno spazio di archiviazione personale che risulta essere accessibile in qualsiasi momento e luogo attraverso una connessione a internet.
Il cloud storage e cloud computing sono il servizio e l'utilizzo della conservazione e sincronizzazione di tutti i nostri dati, file e documenti nella nuvola, con il vantaggio di poterli visionare, scaricare, modificare, senza il bisogno di un hard disk esterno o penna USB.

Servizio permesso da un insieme di computer o server che possono anche essere sparsi nel mondo, in grado di sfruttare al massimo le possibilità offerte dalla rete e la capacità dei calcolatori.
Ma ogni cosa utile nasconde sempre il suo rovescio...
E' possibile avere uno spazio pressoché illimitato presso i server di alcuni gestori come Dropbox, Amazon Cloud Drive, Google Drive, Microsoft One Drive, Mega, iCloud.

Questi sono i più diffusi data center del mondo, anche se i Big Three sono Google, Microsoft e Amazon. Milioni di metri quadri di impianti, controllati climaticamente da colossali generatori elettrici, batterie e accumulatori, con porte e recinzioni a prova di proiettile e muri a prova di bomba. Sono più simili a basi militari supersegrete che a strutture informatiche. Forse perché siamo nel “tempio dell’epoca dell’informazione e la pietra angolare delle nostre vite digitali”? Così viene descritto il tempio da Brad Smith, presidente e general counsel di Microsoft e Carol Ann Browne nel loro libro: “Strumenti e armi: la promessa e il pericolo dell'era digitale”.
Stiamo parlando di migliaia di potentissime macchine connesse alla velocità più elevata possibile a internet

La nuvola è sempre più grande
Il mondo continua a generare volumi massicci di dati digitali: nel 2018 ne sono stati creati 33 Zettabyte e tale boom di dati è destinato a proseguire senza soste!
La previsione è che nel 2035 la quantità totale mondiale arriverà a 2.100 zettabyte.
Chi conserverà mai tutti questi dati? Ovviamente i cloud!
La scala dell'unità di misura dei bit è la seguente: Kilobyte, Megabyte, Gigabyte, Terabyte, Petabyte, Exabyte, Zettabyte e Yottabyte.

Tanto per capirci 1 Zettabyte corrisponde a 1 trilione di Gigabyte, cioè mille miliardi di Gigabyte (1000.000.000.000 Gb.
I 33 zettabyte raggiunti a fine 2018 equivalgono allo spazio contenuto in 660 miliardi di dvd Blu-Ray o a 330 milioni dei maggiori hard drive oggi esistenti.
Come potete immaginare stiamo parlando di una nuvola immensa...

Sicurezza e privacy dove le mettiamo?
Tutti questi dati sono fisicamente dentro il computer di qualcun altro, quindi come possono i clienti stare tranquilli? Ovviamente la risposta è semplice: non si può stare tranquilli.
Anche se i venditori di cloud storage, per ovvi motivi, si impegnano a preservare l’integrità dei file, può sempre succedere qualcosa ai server...
Questi colossi incubano nelle viscere dei super serve attività di ogni tipo, anche quelle di un potenziale concorrente. L'esempio di Netflix è illuminante, dato che la sua piattaforma video usa i servizi di Amazon Web Services, il quale ha il suo servizio di streaming video, Prime Video, dichiaratamente concorrente di Netflix...

Se un giorno Amazon decidesse che per Netflix non c’è più posto, per cui se vuole continuare a usare i suoi servizi dovrà pagare molto di più?
E se un giorno in piena emergenza globale i CEO dei Big Three ricevessero dall'alto l'ordine di cancellare nei loro server tutti i dati e i video contenenti certe informazioni o certe parole?
La cosa certa è che chi controllerà la nuvola in internet controllerà il web e quindi l'intero mondo!


Dottor Alfred Spitzer, «Solitudine Digitale»

Dall’inizio di questo secolo gli stati del mondo occidentale “civilizzato” raccolgono i dati personali dei loro cittadini in proporzioni mai conosciute finora. Una delle fonti fondamentali di questi dati siamo noi stessi! Siamo noi che forniamo i dati, sia con il pieno consenso, sia del tutto inavvertitamente: che siano le nostre email e le nostre telefonate ad essere lette o ascoltate, le nostre abitudini d’acquisto a essere registrate (per mezzo delle tessere fedeltà), i nostri movimenti (non solo) nei luoghi pubblici a essere monitorati per mezzo di telecamere, dei nostri smartphone o del software della nostra auto, o che siano i nostri sentimenti e stati d’animo essere non solo registrati e analizzati, ma ormai anche manipolati per mezzo di Facebook o Twitter, non fa differenza.

Prima ci preoccupavamo di ciò che sapevano sul nostro conto l’Agenzia delle Entrate o la Motorizzazione Civile. Oggi vengono raccolti, memorizzati e analizzati i dati sul nostro conto da numerose aziende e dallo Stato, in proporzioni tali che la furia catalogatrice della Stasi sembra a confronto un semplice “caffè tra signore”.
Non c’è da meravigliarsi se ormai il termine Big Data ha assunto un retrogusto sgradevole.
Il motivo che si adduce per giustificare tale furia catalogatrice è l’aumento degli attacchi terroristici: per evitarli, l’intera società deve reagire con una maggior vigilanza al fine di garantire la sicurezza interna.

Big Data e Deep Learning
Non è solo la raccolta dei dati personali ad aver conosciuto una crescita esponenziale, ma anche la possibilità di una loro analisi. E’ stato solo con lo sviluppo dei più moderni programmi di elaborazione dati che si è reso possibile interpretare i dati che uno smartphone fornisce con tutti i suoi sensori (sensori per i gesti, i movimenti, la velocità, la temperatura, l’umidità eccetera), con il microfono, le videocamere e il sistema di navigazione satellitare.
Perché solo quando l’enorme massa di dati in entrata può essere anche automaticamente analizzata si ha una reale possibilità di spiare gli uomini sulla Terra.
Non c’è da meravigliarsi quindi se quasi in contemporanea all’arrivo dello smartphone siano stati fatti i necessari progressi nell’ambito dell’elaborazione dati. Tali progressi sono conosciuti con il nome di Big Data e Deep Learning.

Il concetto di Big Data è ambiguo e i suoi contorni non solo sono sfocati, ma anche in continuo mutamento. In ogni caso si tratta di quantità di dati talmente esorbitanti che non è possibile avere una visione di insieme senza l’aiuto di strumenti meccanici e per i quali non bastano più nemmeno i consueti processi di elaborazione dati digitale.
Si dice che la quantità di dati disponibili prodotti in tutto il mondo, raddoppia ogni due o tre anni, ma si dimentica che questo dipende non da ultimo dal fatto che ci sono sempre più macchine fotografiche che scattano in continuazione foto, con una definizione sempre maggiore, che la nostra comunicazione – mail, telefonate, messaggi ecc. - viene osservata e memorizzata sempre meglio, e che i sensori più disparati forniscono in maniera del tutto automatica dati per qualsiasi cosa (a partire dal meteo fino alle nostre pulsazioni), mentre prima ci limitavamo ad assistere i fenomeni naturali senza registrarli. Con Big Data s’intende senz’altro anche questo aspetto del nostro mondo tecnologizzato.

Big Data si riferisce comunque soprattutto alle possibilità di salvataggio e interpretazione dei dati in giganteschi centri dati che sorgono nelle vicinanze di corsi dei fiumi e/o di centrali elettriche, perché calcolatori e sistemi di immagazzinamento dati sviluppano un fabbisogno energetico molto elevato, non da ultimo per il raffreddamento.


Le banche dati contengono così tante informazioni che estrarre quelle rilevanti somiglia davvero all’estrazione di metalli in una miniera. Per questo la ricerca all’interno di grandi quantità di dati viene chiamata Data Mining.
Le possibili conseguenze di tutto ciò le ha scoperte a proprie spese una quindicenne americana incinta...

L’incredibile storia della ragazza incinta
La ragazza non aveva ancora informato i genitori della sua gravidanza, quando ricevette posta da un supermercato locale: pubblicità di vestiti pre-maman, fasciatoi e molti, molti visi di bebè...
Il padre, che non aveva trovato affatto divertente la cosa si recò furibondo al supermercato chiedendo di parlare con il manager: «Mia figlia ha trovato questo nella cassetta postale (...)  va ancora a scuola e voi le ha mandate coupon per vestiti da bebè e culle? Volete che mia figlia rimanga incinta
Il manager si scusò e anche dopo qualche giorno telefonò di persona per scusarsi nuovamente. Ma la voce del padre adesso suonava affranta: «ho fatto una chiacchierata a quattrocchi con mia figlia.  Ho scoperto che a casa nostra succedevano cose di cui non sapevo nulla. Partorirà ad agosto. Sono io che devo scusarmi con lei».
Cos’era accaduto?

Nei supermercati degli Stati Uniti esistono da molto tempo coupon, sconti e carte socio che hanno essenzialmente la funzione di raccogliere informazioni sul cliente: età, sesso, stato di famiglia, figli, domicilio, guadagno; le carte di credito utilizzate, le pagine web consultate sono note ai negozi tanto quanto le preferenze tra le marmellate, il caffè o i fazzoletti di carta, oppure le particolarità della dieta (vegetariana, vegana, intollerante al lattosio o al glutine, ecc.).
Se le informazioni possedute dai supermercati non sono per loro sufficienti, ne comprano altre: «sull’appartenenza etnica, sulle precedenti occupazioni, sulle riviste lette, se si è stati inadempienti o se si è separati, in che anno si è comprato casa, che scuola si è frequentata o che università, di cosa si parla o si scrive online, quali sono le posizioni politiche, ecc.»

La catena di supermercati Target, la seconda più grande negli USA, è tra le prime che provano a scoprire per mezzo del Data Mining quali delle proprie clienti siano in stato di gravidanza.
Per far ciò si confrontano gli acquisti di migliaia di donne che si sa essere incinte, con gli acquisti delle donne non incinte. Da tale confronto risulta che le donne in stato di gravidanza, a partire circa dall’inizio del loro quarto mese, comprano prodotti per la pelle senza l’aggiunta di profumi e, nei primi 5 mesi di gravidanza, acquistano integratori alimentari come calcio, magnesio e zinco.
«Sono molte le clienti che comprano saponi e ovatta, ma quando la cliente inizia all’improvviso a comprare molti saponi inodori, confezione extralarge di ovatta, lozioni per il bucato a mano e strofinacci, è probabilmente vicina alla data del parto».
In questo modo, sulla base di circa 25 prodotti acquistati da una donna, è possibile non soltanto assegnare un punteggio di previsione della gravidanza, ma anche calcolare una finestra relativamente ristretta sul giorno della nascita.

Su questa base è possibile raggiungere i clienti con pubblicità molto mirate e tanto più efficaci se si pensa che la gravidanza e la nascita di un figlio sono sempre fasi di cambiamenti radicali, in cui si definiscono alcune vecchie abitudini.
Così è successo quello che doveva succedere...
Dopo che l’incidente della ragazza quindicenne è stato reso pubblico sul «New York Times»[1], ci si è resi conto che la strategia adottata non era affatto una buona strategia di marketing. Eppure chi crede che il supermercato abbia abbandonato il suo calcolo delle previsioni di gravidanza si sbaglia.
Adesso lo fa soltanto in maniera più subdola, stampando un tosaerba accanto al pannolino sul coupon, in modo che la cosa dia meno nell’occhio: la cliente crede che tutti ricevano lo stesso coupon e considera la pubblicità dei pannolini un caso…

 

Alfred Spitzer, medico psichiatra è stato visiting professor a Harvard e attualmente dirige la Clinica psichiatrica e il Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm.
Autore di numerosi saggi tra cui «Demenza Digitale»

Note

[1] «How company learn your secrets», «New York Times», 16 febbraio 2016, https://www.nytimes.com/2012/02/19/magazine/shopping-habits.html