Marcello Pamio
Il filoso, giurista e storico francese Charles-Louis de Secondat, noto solo come Montesquieu (1689-1755) è considerato il padre della teoria politica della separazione dei poteri.
Egli ha descritto la famosa tripartizione dei poteri: legislativo (fa le leggi), esecutivo (le mette in pratica) e giudiziario (che in teoria avrebbe il compito di farle rispettare). Questi poteri in una “democrazia” dovrebbero essere ovviamente separati e indipendenti gli uni dagli altri, ma sappiamo bene che nella realtà non è proprio così.
Qualche secolo dopo Montesquieu si sono materializzati altri due poteri: il «Quarto Potere», quello della carta stampata, e il «Quinto Potere», quello dei mezzi di comunicazione di massa (radio, televisione e oggi internet e dispositivi digitali).
Questi ultimi rappresentano lo strumento di controllo sociale e manipolazione della pubblica opinione, e coloro che li gestiscono hanno un responsabilità enorme.
Ultimamente si è aggiunto anche il «Sesto Potere», che va sotto il nome di «Big Data».
Il termine «Big Data» è stato usato per la prima volta nel 2014 e rappresenta il più occulto e paradossalmente il più subdolo e persuasivo degli altri cinque. Letteralmente significa «grandi dati», e rappresenta l’insieme delle tecnologie di analisi di enormi quantitativi di informazioni e la capacità di estrapolare, mettendo in relazione questi dati, eventuali legami e/o prevedere andamenti futuri.
Potrà sembrare fantascienza, ma qualsiasi cosa noi facciamo nella nostra vita, nella nostra quotidianità produce dati….
Nella vita virtuale, basta una ricerca su Google, un acquisto al supermercato, postare delle foto sui social, registrare un messaggio vocale, scrivere un tweet o un post, ecc.
Nella vita reale avviene la medesima cosa: quando si entra in una metropolitana l’obliteratrice traccia il nostro passaggio, come pure quando si passa per un casello autostradale o si acquista con carta di credito...
Questo enorme flusso di dati non va perduto, ma viene catturato da Big Data.
Le stime degli esperti fanno impallidire: nel 2000 tale mole di dati viaggiava a circa 1,5 miliardi di Gigabyte, mentre nel 2012 era di 650.000 petabytes.[1]
«Dall’alba della civiltà fino al 2003 l’umanità ha generato 5 exabytes (5 miliardi di gigabytes) di dati, mentre ora ne produciamo 5 exabytes ogni 2 giorni con un ritmo accelerato che raddoppia ogni 40 mesi»[2] Tali sconvolgenti previsioni però sono sbagliate in ribasso perché nel 2013 avevamo già prodotto ben 4.400 exabytes.[3]
Tutti questi dati vengono raccolti, analizzati e monetizzati: coloro che sono in grado di gestirli e interpretarli hanno un potere unico al mondo.
Data Mining
Con «Data Mining» s’intende l’insieme delle tecniche e metodologie che servono per l’estrazione di informazioni utili derivate da grandi quantità di dati. Avere infatti montagne di hard disk zeppi di fantamiliardi di informazioni non serve a nulla se non si è poi in grado di trasdurli nel concreto.
Queste tecniche sono quasi tutte automatizzate, grazie a specifici software e algoritmi. Al momento attuale vengono utilizzate reti neurali, alberi decisionali, clustering e analisi delle associazioni.
Le finalità del Data Mining possono venire applicate nei vari campi: economico, scientifico, marketing, industriale, statistico, ecc.
L’operazione parte da informazioni «criptiche», senza ordine apparente in un database e arriva a una conoscenza sfruttabile per vari fini, principalmente quello di tipo economico.
Ecco un banale esempio di utilizzo del Data Mining.
Il cliente che chiede un prestito a un istituto di credito compra abitualmente feltrini adesivi per i piedi dei mobili?
Se lo fa, le sue chance di ricevere il prestito aumentano. Il nesso, piuttosto curioso ma vero, è stato messo in luce proprio applicando strategie di Data Mining, che hanno evidenziato come chi compra feltrini tendenzialmente è un ottimo pagatore.[4]
Si tratta solo di un esempio ma dimostra come Big Data è in grado di sondare gli aspetti più intimi. Come fanno infatti a sapere che chi compra feltrini per i mobili è più affidabile di chi non li compra? Dall’altra parte come potranno essere usate queste informazioni dalle società di credito quando arriva in filiale un cliente che non ha mai comprato feltrini?
Tenuto conto che tali dati interessano la globalità dell’essere umano, per cui anche in ambito medico, come si comporteranno le assicurazioni e/o le banche, sapendo che Mario Rossi ha chiesto un mutuo o una polizza sulla vita, ma dal database risulta essere una persona geneticamente predisposta al cancro, o al morbo di Parkinson o all’Alzheimer?
Ricerca Motivazionale
La «Ricerca Motivazionale» rappresenta il fulcro centrale delle lobbies: cosa c’è infatti di più importante che capire le vere motivazioni che stanno alla base dei comportamenti di acquisto dei consumatori? Tale “Ricerca” avviene dai primi decenni del secolo scorso, ma oggi con l’evoluzione della tecnologia, i risultati sono futuristici.
Analizzando i dati delle carte fedeltà e incrociandoli con quelli delle carte di credito, è possibile scoprire delle cose inquietanti su ognuno di noi.
I «programmi fedeltà» esistono solo per persuaderci a comprare di più. Ogni volta che usiamo tali carte, viene aggiunta al nostro archivio digitale l’indicazione di quello che abbiamo comprato, le quantità, l’ora, il giorno e il prezzo. Quando usiamo le carte di credito, l’azienda archivia la cifra e la tipologia merceologica: ad ogni transazione è assegnato un codice di quattro cifre che indica la tipologia di acquisto.
Dove vanno a finire questi dati, ora è facile immaginarlo…
Big Data & Big Pharma
Ecco come Big Pharma utilizza il Data Mining.
Le lobbies chimico-farmaceutiche spendono ogni anno miliardi in Ricerca e Sviluppo (R&D), ma ne spendono molti di più in marketing spudorato: comparaggio (corruzione), pubblicità di medicinali, e mandando negli studi medici i loro fedelissimi rappresentanti.
Questi per promuovere le loro molecole, oltre alle classiche informazioni sui farmaci e ai campioni gratuiti hanno un altro potente strumento: i report sulla storia prescrittiva del medico.
Le industrie cosa fanno? Comprano questi report da ditte specializzate (PDI, «Prescription Drug Intermediary»), che a loro volta acquisiscono i dati di prescrizione dei singoli medici dalle farmacie, collegandoli poi alle informazioni sui medici che comprano dall’AMA, «American Medical Association».[5]
Con questi sono in grado di sapere se il medico è un grande prescrittore oppure no; se adotta subito le novità consigliate e/o omaggiate; riescono ad avere maggiori strumenti per convincerlo a prescrivere il farmaco più costoso, e infine possono contrattare i propri compensi.
E’ un caso che l’industria farmaceutica rappresenta il primo consumatore dei dati di prescrizione?
Sono dati per loro fondamentali.
In Italia teoricamente questo non potrebbe avvenire perché vige il divieto alle farmacie di fornire dati, ma i dubbi rimangono sempre moltissimi, anche perché dove vanno a finire i dati dei farmaci acquistati (con o senza ricetta medica) quando il lettore del codice a barre della cassa scansiona prima i medicinali e poi il codice fiscale con la scusa di “detrarli”? Nel codice fiscale c’è il nome e cognome della persona e nella ricetta quello del medico prescrittore…
Si possono o no incrociare questi dati e avere un quadro generale della persona e del medico?
La privacy non esiste
La “privacy” esiste? No, serve solo a prendere in giro il popolo-gregge dando l’illusione che vi sia il rispetto della vita personale, ma questo rispetto non è mai esistito.
Non è certo una novità sapere che molte aziende vendono e altrettante aziende acquistano i dati personali di milioni di persone.
Chi gestisce questi dati non solo è in grado di costruire un profilo accuratissimo di ciascun individuo, ma anche di interferire molto seriamente nelle sue scelte.
Ne vediamo solo la puntina dell’iceberg quando visitando delle pagine web, subito dopo su Amazon, Google o altri siti appaiono magicamente delle pubblicità coerenti con quello che abbiamo visionato qualche istante prima. Su Amazon dei sofisticatissimi algoritmi dirigono le scelte consigliandoci addirittura i titoli di libri su argomenti che sanno ci interessano; Facebook per esempio ci suggerisce alcune precise amicizie; Booking invece ci suggerisce delle mete per noi ambite da sempre.
Come fanno? Hanno la sfera di cristallo o più semplicemente la responsabilità è solo nostra perché lasciamo in giro pezzetti di noi stessi?
“Like” e “Tweet”: il profilo psicometrico
Secondo alcuni analisti bastano pochissimi «like», i «mi piace», o qualche «tweet» per fare previsioni sul futuro comportamento di una persona.
Like e tweet rientrano nella categoria dei «rivelatori di preferenza».
Quello che non tutti sanno è che incrociando i dati è possibile arrivare a individuare gusti e caratteristiche molto più intimi e personali, che apparentemente sono disgiunti da quelli espressi con il singolo like.
La conclusione è preoccupante perché è possibile tracciare un identikit molto accurato di ogni individuo semplicemente da qualche dato lasciato nel cyberspazio: etnia, gusti alimentari, orientamento sessuale, opinioni politiche, e non solo possono essere predetti.
Pensate che con soli 70 like riescono a creare un «profilo psicometrico» che permetterebbe ai gestori di Big Data di conoscere quella persona meglio dei propri amici. Con 150 like l’analista è in grado di conoscerci meglio della nostra famiglia e con 300 like meglio del nostro partner…
La vita umana oramai è stata delegata e regalata nelle mani di spietati individui che per soldi e potere interferiscono con le nostre scelte, anche quelle più intime.
Cosa fare
Possiamo in qualche maniera tutelarci? Rinunciare ad internet non ha molto senso, almeno nella nostra società, ma almeno imparare ad usarlo correttamente per quello che è: uno strumento!
Oggi però questo strumento non viene usato dalle persone, sono le persone che vengono usate da esso.
Il mezzo è diventato il fine ultimo, e questo è assai pericoloso.
Disseminiamo l’etere ogni giorno di dati personali: acquistiamo in negozio con la carta di credito, compiliamo la scheda per la tessera fedeltà, andiamo in giro col telepass, ecc. ma quello che di noi perdiamo nel web e le tracce che lasciamo del nostro passaggio, non hanno paragoni. Ogni sito che visitiamo, video che guardiamo, articolo che leggiamo, banner che clicchiamo, oggetto che compriamo con paypal o carta di credito, per non parlare dei like o dei twitter sono tutti dati che vanno a riempire non solo Big Data, ma una cartella sempre più grande, che sopra ha l’etichetta col nostro nome e cognome...
Ora che sappiamo qualcosina in più di come funziona il Sistema, possiamo girare la testa dall’altra parte e continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto; possiamo altrimenti decidere di usare il web (cellulare compreso, visto che lo smartphone non è più un telefono ma un computer tascabile perennemente connesso) con maggior consapevolezza e intelligenza di prima, o infine isolarci dal mondo tornando all’epoca della pietra, comunicando col piccione viaggiatore, nella speranza che qualche drone non lo intercetti...
[1] «Il Sesto Potere fagocita i nostri dati e li può utilizzare per controllarci», Giuseppe Arbia, «Il Giornale», 15 settembre 2018
[2] Eric Schmidt, nel 2010 era amministratore delegato di Google
[3] «Il Sesto Potere fagocita i nostri dati e li può utilizzare per controllarci», Giuseppe Arbia, «Il Giornale», 15 settembre 2018
[4] «Data Mining», http://www.intelligenzaartificiale.it/data-mining/
[5] «Limitazioni all'uso dei dati di prescrizione per la promozione dei farmaci negli USA», www.nograzie.eu