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Respinta
la causa contro le ditte produttrici del diserbante usato in Vietnam
dagli Usa
Agente
Orange, tutti assolti
Carlo
Maria Miele – tratto da “Il Manifesto” 12 marzo 2005
La
guerra del Vietnam non è finita. Almeno per quel milione di persone che
nel paese asiatico soffrono ancora oggi per le conseguenze di quasi
dieci anni di bombardamenti chimici americani. Malattie e orrende
malformazioni sono diffuse in tutto il paese, e i «villaggi della pace»
(i centri nati proprio per curare le vittime della guerra) sono tuttora
affollati da bambini nati senza occhi né braccia, o privi di organi
interni. Ma per questi ultimi la speranza di ottenere giustizia diventa
adesso più remota. Giovedì il giudice federale di New York Jack
Weinstein ha respinto l'azione legale avviata dalle vittime del
famigerato agente chimico Orange (così chiamato dal colore dei bidoni
che lo contenevano) contro le trenta industrie che lo produssero nel
corso degli anni `70, tra cui la Monsanto e la Dow Chemical. Una
decisione che potrebbe mettere fine alla vicenda e contro cui ieri hanno
duramente protestato le vittime vietnamite, che chiedono un risarcimento
economico e il risanamento delle vaste aree devastate.
La sola speranza, adesso, è ricorrere in appello.
Le prove portate dall'accusa sarebbero, infatti, insufficienti. Dalla
fine della guerra a oggi le persone contaminate sono quattro milioni.
Per curarle esistono attualmente in Vietnam dodici «villaggi della pace»
e circa cinquecento cliniche. Per rafforzare la propria istanza,
l'accusa ha citato il caso delle industrie tedesche che, durante la
seconda guerra mondiale, produssero i gas utilizzati dai nazisti nei
campi di sterminio e che, successivamente, furono condannate per «crimini
di guerra». Le multinazionali imputate per il caso Orange, però - si
legge nella sentenza - non avrebbero violato nessuna legge statunitense
o internazionale. «Il fatto che le malattie siano state contratte da
persone esposte agli spray - ha fatto sapere il giudice - non
rappresenta una prova sufficiente».
A
gioire per il pronunciamento di ieri è anche la Casa bianca che ottiene
l'ennesima affermazione del principio di impunità per le azioni
compiute dal suo esercito. Dopo essere state chiamate in causa, infatti,
la Monsanto e le altre aziende chimiche coinvolte avevano tirato subito
in ballo il governo degli Stati uniti, ritenuto il vero responsabile
dell'utilizzo «improprio» del diserbante e dei danni conseguenti. In
risposta, già a gennaio il dipartimento di Giustizia americano chiese
al giudice federale di rigettare l'azione legale: aprire i tribunali
alle istanze avanzate da ex nemici - si leggeva in una nota diffusa
allora - può rappresentare una seria minaccia al potere presidenziale
di «muovere guerra».
Restano
così senza risposta gli appelli di chi ha scontato sulla propria pelle
le conseguenze della guerra americana. Riferendosi a quanto accaduto nel
suo paese oltre trenta anni fa, il vicepresidente dell'Associazione
delle vittime dell'agente Orange (Vava), Nguyen Trong Nahn, aveva
parlato di utilizzo di «armi di distruzione di massa». La storia di
quegli anni è nota: nel `62 il presidente John F. Kennedy autorizzò
l'utilizzo di agenti chimici in Vietnam per togliere nascondigli e cibo
al nemico comunista. Da allora e per quasi dieci anni gli Usa
riversarono sul paese asiatico circa 90 milioni di litri di diserbante
alla diossina, devastando campi coltivati e un quinto delle sue foreste.
Con la fine della guerra finirono anche le piogge di Orange, ma le
scorie della sostanza tossica rimasero nei pozzi e nel suolo,
continuando a colpire chiunque venisse a contatto con acqua e cibo
contaminato. Nel 1980 nell'ex Saigon fu creata una commissione per
studiare il fenomeno. Allora si parlò di un chiaro legame tra
l'esposizione alle sostanze chimiche utilizzate durante la guerra e le
malattie diffuse nel paese (tumori, malattie della pelle e al sistema
nervoso, complicazioni respiratorie, anomalie nei nuovi nati). Alle
stesse conclusioni sono poi arrivate diverse commissioni d'indagine
indipendenti. Finora, però, da parte statunitense non è arrivata
nessuna risposta concreta. Durante il suo viaggio nel sudest asiatico
nel 2000, l'allora presidente Clinton parlò di un necessario «riconoscimento
delle responsabilità». Ma da allora Washington non è andata oltre il
finanziamento di congressi e ricerche scientifiche