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- Nazismo in Tibet
Un’altra
puntata del Great Game
di Carlo Bertani – 26 marzo 2008
Winston Spencer Churchill
In
questi giorni, come tanti, ho scorso gli articoli sul Tibet ed ho
guardato i filmati su Youtube: della TV mi fido sempre meno. Ho un certo
riserbo a parlare del Tibet, giacché vivo quasi una sorta di
“conflitto d’interesse”: sono buddista da circa vent’anni.
A prima vista, sarebbe semplice chiudere la vicenda esortando tutti a
sostenere le sacrosante libertà dei tibetani, ma sarebbero parole al
vento.
Riflettiamo che, durante la recente visita in Italia di S.S. il XIV
Dalai Lama – Tenzin Ghiatzo – l’unico uomo “politico” – per
così dire – che ebbe il coraggio di parlare con lui fu Beppe Grillo.
Se qualcun altro lo ha ricevuto e non ne sono a conoscenza me ne scuso,
ma è acclarato che nessuno dei leader politici e delle figure
istituzionali ha osato parlare con questa persona, che rappresenta
soltanto le istanze di un governo in esilio.
Dispiace
ascoltare voci che, in qualche modo, avallano la conquista cinese oppure
accusano i tibetani di chissà quali nequizie per la spedizione
“geografica” che i nazisti fecero in Tibet nel 1939. Sono
affermazioni di chi conosce poco la storia tibetana, di là delle
cronache della David-Neel e di qualche orientalista: in realtà, abbiamo
iniziato a conoscere il vero Tibet solo dopo la diaspora, dai profughi
che si sono insediati in Europa e negli USA.
Iniziamo con il raccontare che i primi a violare i sacri confini della
terra dei Lama furono i britannici, nel 1904, al comando di Francis
Younghusband, i quali non ebbero difficoltà – durante la loro
avanzata, nei pressi di Phari, a Chumi
Shengo[1]
– ad accettare la resa di un contingente tibetano armato con fucili ad
acciarino. Appena i tibetani s’arresero e furono ben visibili, i
britannici scaricarono loro addosso nastri e nastri di mitragliatrice,
compiendo un massacro. British honour.
Perché
gli inglesi e quella data? Se riflettiamo un attimo sulle date, ci
rendiamo conto che era lo stesso anno nel quale l’ammiraglio russo
Rozhedestvensky cercava di raggiungere il Giappone con la flotta del
Baltico, dopo gli esiti rovinosi della battaglia dello Shantung, nella
quale i giapponesi avevano distrutto la flotta russa del Pacifico, di
base a Port Arthur. L’anno dopo, ci sarebbe stato l’epilogo a
Tsushima. Dunque, un momento di debolezza per
Gli altri protagonisti del Great
Game nell’Asia Centrale, dunque, erano alle corde:
Quando Younghusband entrò in Lhasa, non fu considerato proprio un
visitatore amichevole, anche se i tibetani – vista la potenza
britannica – fecero di necessità virtù.
La
ragione della fretta inglese nel porre una sorta di “prelazione” sul
regno tibetano era dovuta all’intraprendenza dell’altro competitore
del Great Game d’inizio
secolo, ossia
Gli inglesi lasciarono quasi subito il Tibet, formulando una soluzione
furbesca: riconobbero il diritto di protettorato della Cina sul Tibet,
una questione controversa, che affonda le sue radici dai tempi di Gengis
Khan. Perché lo fecero?
Probabilmente per complicare le cose ai russi, giacché conoscevano bene
le condizioni disastrose nelle quali versava il morente Impero Cinese.
Come si potrà facilmente capire, la complessità di quelle vicende
richiederebbe ben altre analisi, che prendessero in considerazione tutte
le velleità delle potenze dell’epoca, ma un articolo rimane pur
sempre un articolo, e non un libro.
Sarebbe
dunque lungo ricordare la complessità del Great
Game nell’Asia Centrale d’inizio secolo: sottolineiamo solo che
gli attori erano tre – britannici, russi e cinesi – e che
A margine, possiamo notare come la situazione tibetana del 1900 fosse
straordinariamente simile a quella dell’odierno Afghanistan: una terra
non molto importante per le ricchezze naturali, quanto per la sua
posizione geo-strategica. Difatti, sono decenni che ci si scanna nelle
pietraie afgane, per un territorio che – di per sé – vale poco o
nulla.
L’ultimo “sussulto” del Great
Game fu però cinese: nel 1910, le truppe manciù cinesi entrarono
in Lhasa ed il XIII Dalai Lama dovette fuggire in India. Durò poco: lo
scoppio della guerra civile in Cina condusse alla ritirata, nel 1912.
Per rendere più agibile la collocazione degli eventi, ricordiamo che
l’ultima (e molto discussa) imperatrice cinese, Ci
Xi, morì nel 1908, lasciando come erede un bambino, Pu Yi, la storia
del quale è narrata nel film “L’ultimo imperatore” di B.
Bertolucci.
Le
guerre mondiali del ‘900 portarono – paradossalmente – tranquillità
sull’Himalaya: inglesi, cinesi e russi erano occupati a scannarsi, in
patria e per il mondo, e nessuno si ricordava del Tibet.
Nessuno, a parte i tedeschi (nazisti), che inviarono una spedizione nel
paese nel periodo 1938-39 (come la parallela missione in Amazzonia, alla
ricerca di segreti esoterici): in quale Tibet giunsero il dott. Ernst
Schäfer, biologo e zoologo (ed ufficiale delle SS), e gli altri
componenti della spedizione?
Il XIII Dalai Lama – Thubten Ghiatzo – era morto nel 1933 e, nel
1934, la reggenza era stata assunta dall’abate del monastero di Reting,
Reting Rimpoche. L’attuale Dalai Lama (il XIV) – Tenzin Ghiatzo –
nacque nel 1935 e fu ufficialmente riconosciuto come sua precedente
incarnazione nel 1940 (1939 secondo altre fonti).
I
tedeschi giunsero quindi in un momento delicato, come tutte le reggenze,
e furono ben accolti dal reggente, che fece loro dono di parecchie,
antiche scritture buddiste. La spedizione terminò nel 1939 e, il 4
Agosto del 1939, l’aereo che li riportava in patria atterrò
all’aeroporto di Berlino.
Una seconda spedizione partì nel 1939, ma fu interrotta dagli eventi
bellici: Heinrich Harrer (alpinista, prima appartenente alle SA e poi
alle SS) e Peter Aufschnaiter (agronomo),
partiti per scalare il Nanga Parbat[4],
furono internati dagli inglesi poiché di nazionalità austro-tedesca,
ma riuscirono a fuggire ed a raggiungere Lhasa nel 1946. Rimasero
parecchi anni nella capitale, dove Aufschnaiter lavorò come agronomo,
cartografo e per la sistemazione di canali ed impianti idroelettrici.
Harrer divenne amico dell’allora giovane Dalai Lama, e le sue vicende
sono raccontate nel famoso libro Sette
anni nel Tibet (poi divenuto un non esaltante film).
Questi
sono gli unici e documentati contatti fra
La figura del reggente – Reting Rimpoche – fu invece discussa, al
punto che la condotta non proprio “monacale” dell’abate lo
costrinse a dare le dimissioni nel 1944. Nel 1946, volle riprendersi il
potere, ma fu fermato ed imprigionato nelle carceri del Potala, dove morì
(qualche fonte afferma avvelenato, ma non ci sono certezze). La vicenda
di Reting Rimpoche è però tutta interna al Tibet ed ai suoi equilibri,
e nulla ha a che vedere con i nazisti.
Heinrich Harrer e Peter
Aufschnaiter rimasero in Tibet fino al 1951, quando il
giovane Dalai Lama (dichiarato maggiorenne a sedici anni per
l’invasione cinese) fuggì ai confini del paese, verso l’India, per
poi tornare a Lhasa e cercare un accordo con i cinesi. I due tedeschi,
invece, tornarono in patria.
Cos’era successo, nel frattempo?
La
fine del processo rivoluzionario in Cina, aveva riaperto i giochi: russi
ed inglesi erano poco interessati al Tibet – i primi affaccendati con
la nuova Guerra Fredda, i secondi che cercavano di salvare il salvabile
dell’Impero – e
Sulle ragioni dell’intervento cinese, ci sono varie ipotesi. Di natura
geostrategica nei confronti dell’India, oppure per una sorta di
“frattura” nelle relazioni con l’URSS (durante la cosiddetta fase
della “destalinizzazione”) che s’evidenziò alla fine degli anni
’50: forse, la principale ragione fu la pura e semplice conquista
territoriale.
Il Tibet non era certo uno stato florido, ma i cinesi del dopoguerra
erano praticamente alla fame: alcuni monaci tibetani, imprigionati,
raccontarono che il cibo, per i prigionieri, era quasi “simbolico”.
Nemmeno le guardie, però, avevano di che scialare: addirittura, però,
gli stessi cinesi Han affamati s’avvicinavano ai “campi di
rieducazione” in cerca di cibo. La carestia, in quegli anni, in Cina
era quasi la regola e non l’eccezione.
Era
quindi una situazione poco comprensibile per noi occidentali, quando il
“ricco” è colui che detiene un semplice sacco di cereali.
Le razzie nei monasteri condussero ad accumulare oro e preziosi, ma
anche il legname ed altri prodotti naturali furono depredati e spediti
in Cina: il solito copione di una guerra di conquista, questa volta
operato dal più straccione degli imperialisti che si possa immaginare.
Qual era la situazione interna del Tibet, in quegli anni?
La società tibetana era feudale fino al midollo, con un rilevante
potere ecclesiale che aveva voce in capitolo su quasi tutto, anche se le
cariche pubbliche erano “sdoppiate”, ovvero in ogni amministrazione
c’era un pari grado, civile ed ecclesiastico.
Siccome,
spesso, i grandi abati dei monasteri provenivano da importanti famiglie
aristocratiche, il potere si “saldava” nelle mani del “primo e
secondo stato” quasi in ogni luogo. La grande nobiltà, generalmente,
preferiva dimorare a Lhasa, mentre i nobili in sottordine accettavano di
fare i governatori (bon-po)
nelle aree più lontane: a ben vedere, nulla di diverso dalla struttura
russa, cinese o d’alcuni stati dell’Italia pre-risorgimentale.
Le condizioni economiche della popolazione erano naturalmente improntate
ad una generale povertà, resa meno evidente rispetto ad altri luoghi
dalla specificità dell’ambiente ecologico tibetano: grazie
all’altitudine, la ridotta carica batterica nell’aria consentiva di
conservare i cereali, in apposite torri, per quasi un secolo, mentre la
carne seccata e salata rimaneva intatta per un anno intero.
Per
questa ragione, è giusto affermare che nel Tibet (almeno, negli ultimi
due secoli) non c’erano state gravi carestie, ma è altrettanto vero
che la disparità di ricchezza fra la nobiltà e la popolazione rurale
era enorme.
Uno dei cardini dell’ordinamento
tibetano era l’ereditarietà dei debiti, sia nei confronti dei
privati, sia con lo Stato, e questa era la vera “maledizione” dei
contadini tibetani, sempre in ritardo con pagamenti e rimesse. Fu la
prima riforma che introdusse, appena riconosciuto come capo di Stato,
l’attuale Dalai Lama, nel 1951: cancellò l’ereditarietà dei
debiti.
Il clero non viveva nel lusso, ma i monaci in Tibet erano decine, forse
centinaia di migliaia, e questo era un aggravio che pesava tutto sulla
popolazione rurale, priva di qualsiasi protezione sociale da parte dello
Stato.
Sulla
supposta protervia degli ecclesiastici, non abbiamo molte fonti
attendibili: possiamo soltanto immaginare che ci fossero i più svariati
comportamenti, secondo il feudatario – civile od ecclesiale – che
governava quella regione. Il Tibet abolì la pena di morte già nel XIX
secolo (poiché in contrasto con il dettato buddista), ma mantenne –
come qualsiasi società feudale – le pene corporali. Insomma, nei
giudizi che possiamo formulare, dobbiamo ricordare che parliamo di una
nazione medievale proiettata nel XX secolo.
Ciò che – a mio avviso – molti commentatori non hanno compreso, è
che eravamo di fronte ad una società feudale come le nostre del
XVII-XVIII secolo, catapultata – grazie all’isolazionismo cercato
fino all’inverosimile, ed alle due guerre mondiali che avevano posto
in seria difficoltà gli eventuali colonialisti – nella seconda metà
del XX secolo.
Nel 1951 – potremmo quasi affermare – un mondo che aveva appena
attraversato mezzo secolo terrificante, e che aveva tratto da quelle
esperienze (in positivo ed in negativo) una nuova impostazione sociale,
si trovò improvvisamente di fronte un paese vasto come mezza Europa,
popolato da 6-8 milioni d’abitanti (le cifre sono approssimative, e
comprendono l’intero Tibet, Amdo e Kham inclusi) che vivevano secondo
tradizioni ancestrali.
L’impatto, fu tremendo.
E’
mia opinione che, se non ci fossero stati gli imperialisti cinesi, quel
mondo sarebbe franato ugualmente: falce e martello o Coca-Cola, il Tibet
medievale era condannato.
Se ne resero conto, a posteriori, anche parecchi Lama tibetani giunti in
Occidente, i quali ammisero d’essersi illusi di poter continuare a
vivere nel loro “nido samsarico[5]”,
come se il resto del pianeta non li riguardasse.
Nel Tibet esistevano già prima dell’invasione cinese cellule
comuniste, simpatizzanti per
Nel decennio 1950-1960 ci fu il tentativo, da parte cinese, di cooptare
il giovane Dalai Lama e l’altrettanto giovane Panchen Lama al marxismo
leninismo, con viaggi in Cina e nomine – soltanto simboliche –
nell’organigramma cinese. Intanto, in Tibet avvenivano tragedie.
Nel
1959 – e qui ci sono opinioni discordi su chi fomentò o diresse i
disordini – il Dalai Lama fuggì da Lhasa per raggiungere l’India:
recentemente, due scrittori statunitensi hanno raccontato che la fuga fu
organizzata dalla CIA, ma non possiamo affermarlo con certezza. Se si
crede agli americani, si crede loro sempre, anche quando sbatacchiano
fialette di presunto antrace all’ONU, non solo quando fa comodo.
E’ invece accertato che gli USA eseguirono lanci d’armi[6]
(solo di fabbricazione inglese, e molto vecchie, per non inimicarsi
troppo
Addestrarono piccoli gruppi di tibetani alla guerriglia, ma non
appoggiarono mai con forza la causa tibetana: perché?
Nel
1951, quando avvenne la prima occupazione, gli USA erano impegnati in
Corea e non se la sentivano d’aprire un altro fronte. Soprattutto,
temevano un eventuale fronte contro
L’appoggio aereo fu probabilmente scartato per le esperienze della
Seconda Guerra Mondiale, quando in Cina combattevano le famose “Tigri
Volanti” di Charlie Chennault: il problema era rifornirli partendo
dall’India.
Gli americani scoprirono quanto fosse difficile sorvolare l’Himalaya,
perché le cime svettano oltre i
L’ultima
ragione che non portò Washington ad un evidente appoggio alla causa
tibetana fu la stessa che condusse a sospendere i rifornimenti alla
guerriglia: la politica sorretta da George Bush (padre), quando era
ambasciatore a Pechino, era quella di creare legami in chiave
antisovietica. In quegli anni, Cina ed URSS giunsero addirittura a
confrontarsi militarmente sui fiumi Amur ed Ussuri – per questioni di
confini – e tutto ciò mandava in brodo di giuggiole Washington. E
Taiwan? Quando mai gli USA accettarono che l’isola si dichiarasse
completamente indipendente dalla grande Cina? Una indipendenza de facto poteva anche passare, mentre quella de iure avrebbe condotto a fratture con Pechino: il Tibet, a ben
vedere, valeva ancora di meno.
Di
conseguenza, gli USA hanno usato più che sorretto la causa tibetana, ed
anche gli ultimi avvenimenti sembrano confermarlo.
Liberi da ogni ingerenza esterna (incubo della politica cinese, dai
tempi della parziale occupazione europea d’inizio ‘900) i cinesi si
dedicarono alla “modernizzazione” del Tibet.
I cinesi non compresero – abituati ai grandi numeri – che la società
tibetana era un microcosmo assai fragile: la richiesta di 2.000
tonnellate d’orzo per sfamare le truppe d’occupazione e gli animali
al loro seguito – fatta da un generale cinese al governo tibetano nei
primi anni – provocò quasi ilarità: non c’era, nell’intero
paese, un simile quantitativo di granaglie!
Abituati
al frumento, i cinesi non gradivano l’orzo: collettivizzarono le terre
ed imposero la coltivazione del grano, al posto del tradizionale orzo.
Il frumento, in Tibet, cresce soltanto nella bassa valle del
Brahamaputra – nei pressi di Shigatse – mentre nel resto del paese
l’altitudine non consente che l’orzo, le patate e poco altro.
I cinesi “liberatori”, grazie a questa bella invenzione, inflissero
ai tibetani la più grave carestia che gli abitanti ricordassero a
memoria d’uomo. Obbligarono anche ad adottare, in tutto il Paese,
l’ora di Pechino: chi difende l’operato cinese contro i “Lama
nazisti”, queste cose dovrebbe raccontarle.
Sull’altro
piatto della bilancia, i cinesi hanno modernizzato il Paese costruendo
strade, ferrovie, aeroporti, ecc, ma hanno trasferito decine di milioni
di cinesi Han in terre, per loro, poco ospitali: i cinesi Han sono una
popolazione di pianura, abituata ai grandi fiumi e che mal s’adatta a
vivere a
La situazione odierna vede alcune decine di milioni di cinesi Han
(intorno ai 40 milioni) convivere con circa 6,5 milioni di tibetani e
con una minoranza musulmana (da secoli presente in Tibet), chiamati Hui.
Devo confessare che i filmati della recente rivolta mi hanno lasciato
alquanto perplesso, per la violenza con la quale sono stati portati
avanti – indubbiamente – dalla minoranza tibetana, poco avvezza a
questi scenari di guerriglia urbana. Sembrava quasi d’osservare Gaza o
Beirut.
Riflettiamo
che lo stesso Dalai Lama – più volte – ha affermato che
l’indipendenza del Tibet dalla Cina non è più in agenda: quello che
chiede è il rispetto delle tradizioni e del credo buddista. Il quale
– nonostante si siano fatti vivi i soliti “avvoltoi della storia”,
che non esitano ad imputare sommosse o guerre per altre ragioni alla
religione – non ha mai fomentato guerre nel mondo. Di certo,
cristiani, musulmani ed ebrei hanno ben altro su cui meditare.
Inutile qui ricordare che la minoranza Tamil dello Shri Lanka è sì
buddista, ma le ragioni della contrapposizione sono politiche, e non
c’entrano niente con il buddismo. Come se la ragione delle guerre in
Medio Oriente fossero l’Islam o l’Ebraismo! Cerchiamo dalle parti
del petrolio, che è meglio.
Quei
manifestanti di Lhasa mi hanno colpito perché erano straordinariamente
violenti, organizzati, efficaci nei loro attacchi di guerriglia urbana.
Qualcosa che stride con il carattere dei tibetani.
Ho il sospetto che – ancora una volta – non fosse in agenda la
libertà del Tibet, ma qualcos’altro. Forse l’enorme debito che gli
USA stanno accumulando nei confronti della Cina? O i dollari che i
cinesi cercano subito di rivendere, perché è come essere pagati con
monete di ghiaccio, che si sciolgono con il trascorrere del tempo? Una
rivolta con un copione “globalizzato”, che sembra avere il giusto
marchio per essere sbattuto sui principali media planetari. Dopo i tanti
fallimenti delle due presidenze Bush, un po’ di Tibet in rivolta può
risollevare le quotazioni di Washington. La speranza, nello Studio
Ovale, è l’ultima a morire.
La rivolta di Lhasa non condurrà a nulla di buono per i tibetani, tanto
che lo stesso Dalai Lama ha subito lanciato un appello per la fine delle
violenze da entrambe le parti.
Chi,
oggi, può pensare d’infastidire
Solo qualche sprovveduto nostrano va in piazza a gridare libertà per il
Tibet: facile farlo a Roma, un po’ più arduo farlo a Lhasa, dove ti
prendi le fucilate cinesi.
Qualcuno, ancora più fesso, non s’è accorto di compiere una
discriminazione senza remore: difendiamo strenuamente la libertà dei
palestinesi e dei curdi, e che i tibetani vadano a farsi fottere. Di
questo passo, potremo dissertare se i curdi sono “buoni” quando
combattono i turchi e “cattivi” quando appoggiano gli USA in Iraq.
Oppure giocarci ai dadi chi dovrà ammazzare l’altro in Kosovo, serbi
od albanesi: è un vicolo cieco, che si chiama nazionalismo.
Il
vero internazionalismo passa sopra a razze e religioni, nel nome della
comune appartenenza alla razza umana. Non declina le rime delle alleanze
fra le borghesie finanziarie, perché sono quelle stesse borghesie –
arabe, europee, russe, ecc – che recitano i versi della guerra per
raggiungere i loro scopi di dominio sul proletariato: cinese e tibetano,
inglese ed irlandese, armeno e turco, basco e spagnolo.
Chi si sente profondamente internazionalista, inorridisce nel vedere le
sofferenze di questo o di quel popolo “tirate per la giacchetta” per
miseri scopi di bottega: nella guerra del 1982, con chi ci si doveva
schierare, con gli imperialisti britannici o con i fascisti argentini?
Non provo e non trovo contraddizioni fra il pensiero marxista e molti
assiomi delle principali religioni: scopro invece terribili compromessi
e macchinazioni – fra sedicenti idealisti, dottrinari e dottrinali –
per cercare d’essere domani il nuovo padrone, al posto di quello che
oggi ci schiaccia. Ora, nessun cane abbaia tanto perché gli sia
cambiata la catena.
E,
fra un padrone americano ed uno cinese, forse sceglierei ancora quello
made in USA: se non altro, perché è senz’altro più fesso, ed avrei
qualche speranza di batterlo.
Carlo
Bertani articoli@carlobertani.it
www.carlobertani.it
http://carlobertani.blogspot.com/
[1]
Chumi Shengo, in tibetano, significa sorgenti termali. Patrick French – Oltre le porte della città proibita – Sperling & Kupfer -
2000.
[2]
Patrick French, op. cit.
[3]
Ho cercato di riassumere qualche aspetto di quegli importantissimi
avvenimenti nel mio libro “Europa
Svegliati” – Malatempora – 2003.
[4]
Heinrich Harrer era un valente alpinista, ed aveva fatto parte della
cordata che aveva scalato per la prima volta la parete Nord dell’Eiger.
[5]
Il Samsara, nella
filosofia buddista, rappresenta i sei regni della rinascita (Inferi,
Spiriti, Animali, Uomini, Semidei, Dei) che gli esseri percorrono
infinite volte, prima di giungere alla condizione di Liberato (Arhat)
od Illuminato (Buddha).
[6]
Tenzin Ghiatzo – La
libertà nell’esilio – Sperling & Kupfer - 1998