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Siriani sotto tiro
I prossimi potrebbero essere loro o
gli iraniani.
Ma alla fine toccherà alla Cina
di
Giulietto Chiesa, dalla rivista "Avvenimenti" nr. 15 del 18
aprile 2003
La
domanda che molti si pongono, adesso, è fin dove si spingerà l'Impero dopo
aver celebrato questa terza vittoria.
Terza perché io metto nel conto le ultime tre guerre: Jugoslavia, Afghanistan,
Iraq. Identiche nelle modalità di preparazione mediatica, identiche
nell'elencazione di falsi motivi, di pretesti, costruiti in anticipo e
moltiplicati e ingigantiti attraverso i media mondiali. Identiche nella
creazione di tre figure diaboliche, emblematiche, simboliche, da additare
all'esecrazione planetaria: Milosevic, bin Laden, Saddam. Identiche nella loro
collocazione all'interno di un unico progetto strategico
"rivoluzionario".
I candidati più in voga sono Siria e Iran. Stando alla quantità di articoli e
analisi emergente dai giornali americani - e che riflette senza dubbio il
lavorio sotterraneo dei servizi segreti, nell'incessante preparazione
psicologica al prossimo conflitto - direi che Teheran è più vicina al centro
del mirino di Bush e compagnia di quanto non lo sia Damasco. A meno che non si
scopra che Saddam Hussein e i suoi compagni di fuga abbiano trovato rifugio
proprio in Siria. In tal caso questa previsione dovrebbe essere modificata.
Ma sul fatto che tutti i segnali indichino una marcia tutt'altro che conclusa
non vi sono dubbi. Si narra che subito dopo il durissimo avvertimento, lanciato
da Donald Rumsfeld contro Siria e Iraq, uno dei più vicini aiutanti di Bush,
forse preoccupato, si sia precipitato nello Studio Ovale per riferire al
presidente la frase appena pronunciata dal suo ministro della difesa. Proprio
mentre gli americani stavano entrando a Baghdad, il numero tre ufficiale di
Washington annunciava al mondo lo spettro di una estensione della guerra. Era
saggio comportarsi in questo modo?
Noi non conosciamo il nome e il cognome di questo consigliere di Bush, ma è
stato riferito che il presidente Bush, all'udire la rivelazione, "fece un
leggero sorriso" e poi disse una sola parola, "good", prima di
ritornare a immergersi nelle sue carte.
Cos'abbiano in mente, in dettaglio, è per ora impossibile sapere. Certo è che
l'assalto contro Saddam Hussein è stato inteso dal team washingtoniano come un
avvertimento, come una guerra ad azione dimostrativa, come un esperimento di
disarmo forzato da imporre non solo a uno stato, ma a tutta una serie di stati
che potessero osare sfidare la potenza degli Stati Uniti.
E' evidente che, nelle prime battute postbelliche, Bush e i suoi misureranno gli
effetti prodotti sull'intero medio oriente, e quelli più lontani, dello
sconquasso creato in tutte le altre aree del pianeta, alleati, amici,
simpatizzanti e nemici inclusi. Ma è altrettanto evidente che la guerra
irachena è stata lanciata nel quadro di una più vasta strategia militare i cui
contorni erano e sono variabili, ma non si fermano ai confini dell'Iraq.
Dopo l'onda d'urto militare tutti i paesi della regione stanno aspettando con
terrore la seconda onda d'urto, politica e diplomatica, che si attuerà con vari
livelli di pressioni, blandizie e minacce. Come ha detto efficacemente
Condoleeza Rice, "non tutti i casi devono essere affrontati con gli stessi
metodi". Espressione che sa di avvertimento e che è stata sicuramente
letta con attenzione in tutte le capitali arabe. Bisognerà quindi aspettare un
certo periodo di tempo prima che questa azione variegata si dispieghi e produca
i suoi effetti. Essenziale è che tutti sappiano che per loro sono pronti
diversi "rimedi", da calibrare a seconda delle posizioni che
prenderanno.
Ma una serie di conseguenze sono fin d'ora calcolabili. Per esercitare al
massimo grado questo tipo di pressioni gli Stati Uniti dovranno "tenere
l'area". Dovranno tenerla in funzione attiva, per costringere tutti
i regimi che si affacciano sui confini iracheni a rimanere sul chi vive.
Dovranno tenerla sotto stretto diretto controllo, anche in funzione passiva,
cioè difenderla, perché non possono non sapere che le violentissime reazioni
ostili al loro intervento contro l'Iraq, in tutto il mondo arabo, non tarderanno
a farsi sentire. Il presidio militare della regione è dunque inevitabile. Cioè
non è ragionevole attendersi un rapido ritiro delle truppe americane dal
territorio iracheno. Certo si tratterà di un impegno finanziario elevatissimo,
che avrà conseguenze anche sullo stato dell'economia americana. Non sembra
comunque questa una preoccupazione decisiva. L'America profonda è in larga
maggioranza con Bush e potrà essere chiamata a fare sacrifici senza troppa
difficoltà, nel breve periodo s'intende, e purché la recessione non diventi
rovinosa.
In ogni caso la situazione non lascia altre possibilità a Bush. Certo non
quella di condividere spese e controllo militare con alleati come Francia e
Germania, che non solo si sono dimostrati ostili, ma che continuano ad esserlo.
Affidare loro funzioni anche soltanto di polizia sarebbe oltremodo scomodo per i
piani di un completo controllo politico dell'Iraq da parte degli Stati Uniti.
Altri alleati, più docili, come Italia e Spagna, potrebbero dunque essere
chiamati a svolgere funzioni di presidio militare del territorio iracheno. Ma
per l'Italia (per Berlusconi, cioè) si tratterebbe di una richiesta molto
gravosa, dato che lo stato dell'opinione pubblica italiana, in parte
preponderante contraria alla guerra e niente affatto sicura che essa sia da
considerarsi terminata. In entrambi i casi si tratterebbe comunque di soluzioni
di ripiego poiché al Pentagono non si ha molta fiducia nelle capacità di
combattimento di italiani e spagnoli. Altre soluzioni, sempre di ripiego, e
piene di incognite, concernono i paesi nuovi arrivati dell'Europa, come Polonia,
Bulgaria, Romania, Ungheria e Repubblica Ceca, che potrebbero essere invitati a
fare la loro parte, anche a costo di pregiudicare i loro rapporti con la
"vecchia Europa", sempre più irritata.
Ognuna e tutte queste soluzioni comportano comunque ugualmente una forte e
determinante presenza delle truppe americane. Anche perché uno dei fronti più
importanti su cui esercitare la massima attenzione è destinato ad essere quello
turco. L'esercito turco è il più vicino al teatro di guerra ed è anche il
più preparato ed esperto all'azione militare. Dovrà essere tenuto a bada e
aiutato a "non commettere errori" nel rapporto con i curdi di casa
propria e con quelli iracheni. Nessuno degli eventuali alleati può svolgere con
successo questo compito, che toccherà dunque agli americani.
Ma queste sono questioni di tattica e di opportunità contingente. Anche per
giungere alla guerra contro l'Iraq il percorso è stato più lungo e contorto di
quanto non avessero desiderato gli uomini di George Bush. La guerra era stata
decisa, da Cheney e compagni, fin dal 1997. Se si sono acconciati a fare un
tratto di strada assieme alle Nazioni Unite, se hanno accettato di farsi frenare
per un certo numero di mesi dalla colomba Colin Power, se hanno subito la
necessità di fingere un dialogo con il resto del mondo, tutto ciò non ha
offuscato in nessun momento la loro determinazione di raggiungere il risultato.
Avevano scritto che "il conflitto non risolto con l'Iraq costituisce
un'ovvia giustificazione per la nostra presenza, ma, indipendentemente dal
problema del regime iracheno, è necessaria una forte presenza degli Stati Uniti
nel Golfo".
Sono parole scritte cinque anni or sono e che ora si realizzano. Ora le truppe
che hanno occupato l'Iraq sono esattamente quella "cavalleria della nuova
frontiera americana" che venne designata nel "Progetto per un nuovo
secolo americano", i cui firmatari principali furono Cheney, Rumsfeld,
Libby, Wolfowitz, Rodman, Armitage, Bolton, Perle. Per comprendere quanto potrà
accadere occorre dunque rifarsi ancora una volta al disegno contenuto in
quel progetto. Poiché esso contiene anche una "soluzione" del
problema palestinese che implica, di fatto, la liquidazione dello stato
palestinese e l'espulsione dei palestinesi dalla loro terra o la loro
sistemazione all'interno di un progetto assai simile all'apartheid, ecco
che se ne trae un'altra conseguenza. Iran e Siria dovranno entrambi
essere ridotti allo stato di protettorati, per azzerare le loro
possibilità di aiutare la resistenza palestinese. Quale sarà colpito
per primo e attraverso quali percorsi di provocazione è faccenda che
sarà regolata dalle circostanze e che richiederà un certo grado di
inventiva.
Per realizzare tutto questo disegno, che consentirebbe agli USA un
controllo completo dell'intera area, occorrono centomila uomini
americani, armati di tutto punto, della nuova, immensa base militare
americana che si chiama Iraq.
Forse sono andati laggiù per esportare la democrazia, ma ci resteranno
per schiacciare definitivamente il popolo arabo. In ogni caso, sarà
finalmente chiaro che la guerra irachena non è stata fatta solo per il
petrolio. L'obiettivo era ed è molto vasto. Era ed è la leadership
globale per prepararsi al grande scontro che già si delinea
all'orizzonte: contro la Cina. Dopo aver liquidato l'Europa (dichiarazioni
di Bush).
Giulietto Chiesa