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La perfida cometa di Bengasi
di Carlo Bertani – 20/02/2006

 Quando il gran Tao fu negletto s'ebbero carità e giustizia,
quando apparvero intelligenza e sapienza s'ebbero le grandi imposture,
quando i sei congiunti non furono in armonia s'ebbero pietà filiale e clemenza paterna,
quando gli stati caddero nel disordine s'ebbero i ministri leali.
Lao-Tzu – Tao Te Ching – sentenza XVIII

Mentre in Italia ci s’arrabatta per scegliere – alle prossime elezioni – fra una banda di mascalzoni ed un’altra di fessacchiotti, il mondo sta precipitando. E nessuno mostra d’accorgersene.
Assassini di cristiani in Africa, assalti alle piattaforme petrolifere, incendi d’ambasciate e sedi consolari, disordini, sommosse in tutto il mondo musulmano.
La politica estera viene oramai presentata come uno scontro fra bande, una riedizione de “I ragazzi della via Pal” nella quale i contendenti portano da un lato la croce e dall’altra il velo: nell’ignoranza totale, i media – infarciti d’accoliti di regime – scialacquano parole a vanvera confondendo anche ciò che non dovrebbe, non potrebbe essere confuso da chi fa di mestiere il giornalista.
Non mi piace commentare le altrui disgrazie ma, quando un TG nazionale (il TG3) presenta l’Imam dell’istituto di Al-Azhar del Cairo come “il principale esponente della Fratellanza Musulmana”, dimostra di non sapere nemmeno da dove inizia il mondo musulmano, figuriamoci il resto. Commette, inoltre, un gravissimo errore, giacché nell’attuale panorama mediatico si sa che “due mezze bugie fanno una mezza verità”.

L’incontro presentato (il 18/2/2006, ore 19) era fra l’Imam di Al-Azhar ed un vescovo danese: l’ennesimo tentativo di trovare una soluzione all’annoso problema delle vignette, come se il responsabile di un incendio fosse il cerino, e non le pessime condizioni di sicurezza del fabbricato.
L’incontro è stato, in realtà, un dialogo fra sordi: non perché mancasse la volontà d’intendersi, quanto perché – nonostante gli attenti e bravissimi traduttori – si parlavano due diverse lingue. La richiesta araba era quella di scuse ufficiali da parte del governo danese, la risposta danese è stata quella di non poter chiedere al proprio governo di scusarsi per un atto che non aveva commesso.
Quisquilie e sofismi a parte, in questo apparente dialogo fra sordi c’è la radice di tutta l’incomprensione, la difficoltà che s’incontra nel dialogo con i musulmani, giacché per prima cosa bisognerebbe conoscere le fondamenta del mondo islamico. Questo dovrebbero meditare con attenzione coloro che desiderano gettare ponti di reciproca comprensione fra i due mondi, altrimenti rimangono solo velleitari proclami e mucchi di macerie.

La richiesta dell’Imam era – per il diritto islamico – perfettamente logica, giacché i musulmani non distinguono fra religione, potere politico e popolazione. Sono, in altre parole, tutte parti di un unico, la comunità, la Umma. Chi dunque si dovrebbe scusare? Il capo della Umma danese, che sarà il presidente: questa è la logica dell’Imam.
Da parte sua, il vescovo chiariva che il presidente danese non poteva scusarsi per un atto avvenuto all’esterno dell’apparato dello Stato, perché in questo caso è chi ha commesso l’atto a doversi, eventualmente, scusare: la separazione dei poteri (e la responsabilità penale personale) – in qualche modo – ecco che saltano fuori.
Si potrebbe affermare che lo Stato danese – in quanto nazione che ospita il giornale incriminato – dovrebbe scusarsi lo stesso, ma lo stesso Berlusconi ha chiarito che le dimissioni di Calderoli sono dovute per la sua qualità di ministro, mentre se fosse stato un privato cittadino non era tenuto a farlo.
Il problema delle scuse, in Occidente – se siano dovute o no dallo Stato per gli atti di un cittadino – è complesso, ma non si può sorvolare sul fatto che, nel nome della libertà d’espressione, ciascuno di noi è convinto di dover rispettare solo i vincoli dell’ordinamento vigente. Ciò può essere valido in linea di principio, ma l’abilità del politico sta proprio nel discernimento fra ciò che deve essere applicato e ciò che deve, invece, essere abilmente sotteso: ogni stagione ha le sue musiche, ed ogni cielo i suoi colori.

Ciò che nella vicenda colpisce è stato lo stupore e la visibile irritazione dell’Imam per le scuse non ricevute: per noi Occidentali è veramente difficile capire perché un istruito credente egiziano, una delle massime autorità religiose islamiche, non riesca a comprendere le nostre ragioni.
Immaginiamo di tornare indietro di tre secoli e di riflettere sulla struttura dello Stato: a quel tempo, il re regnava “per grazia di Dio e per volontà della nazione”, ma la prima parte del principio ha avuto per secoli il sopravvento.
I tribunali ecclesiastici (Inquisizione, oggi Sant’Uffizio) processavano e condannavano per eresia e per stregoneria, ma consegnavano i malcapitati – per l’emanazione della sentenza e l’esecuzione della stessa – ai tribunali civili.
Vi sono innumerevoli esempi di questo “doppio canale” del diritto medievale, e furono rarissimi i casi nei quali il tribunale civile contrastò quello ecclesiastico: quasi sempre i tribunali civili “andavano giù” ancor più pesantemente di quelli religiosi1.

Il re emanava leggi ed editti, tramite i giudici che egli stesso nominava amministrava la giustizia, decideva della guerra e della pace: giustamente, il Re Sole poteva affermare “L’état suis moi!”
Questa era la nostra situazione tre secoli or sono, prima degli Enciclopedisti, prima di Voltaire e di Rousseau, prima della Rivoluzione Francese, dei moti del 1848, delle monarchie, infine, costituzionali. La precisa codificazione dei diritti e dei doveri del sovrano fu il primo passo: il secondo fu la separazione del potere legislativo ed il terzo l’autonomia di quello giudiziario.
Ebbene, nonostante l’aria condizionata, le Rolls Royce e le antenne satellitari, niente del genere è avvenuto nel mondo islamico, che vive tuttora con un impianto giuridico traballante, sempre in bilico fra l’applicazione alla lettera della Sharia – il diritto islamico – e dei pallidi tentativi d’interpretazione delle norme.
Contemporaneamente, la diffusione dell’informazione è enormemente aumentata anche in Oriente: non solo telefonini e TV in lingua araba, ma soprattutto Internet, la comunicazione planetaria immediata a portata di mouse.
Il risultato è una miscela esplosiva, generata da un enorme flusso d’informazioni a fronte di una scarsa capacità d’elaborazione: il fenomeno avviene anche in Occidente, ma in presenza di un profondo squilibrio fra l’incedere degli eventi e strumenti giuridici vecchi di molti secoli, la contraddizione straripa senza confini.

Se avessimo mostrato agli europei del 1.700 ogni giorno delle immagini nelle quali il Cristo era vilipeso, oppure dei cristiani erano messi a morte od imprigionati, ci saremmo potuti aspettare come minimo una nuova crociata o qualcosa di simile.
Possiamo tuttora osservare i frutti di questa discrepanza fra il diritto islamico e la modernità: nell’Afghanistan dei Taliban si sgozzavano gli assassini sulla pubblica piazza e ad affondare il coltello nella gola del condannato era in genere un parente della vittima, mentre una telecamera digitale d’ultima generazione riprendeva il tutto. In Arabia Saudita si tagliano teste e mani con la spada, mentre in Africa le adultere vengono lapidate come avveniva (oggi, per fortuna, un po’ di meno) nell’Iran di Khomeini, ed a volte questi tristi spettacoli sono mostrati dai media locali.
In altre nazioni, almeno apparentemente, sembrano vigere regole più simili a quelle dell’Occidente, ma – grattata la vernice – si scopre che così non è. Il potere dei vari re e rais arabi rimane un potere assoluto: recentemente, il re Abdhallah di Giordania ha sospeso – in un momento di gravi tensioni interne – tutte le (pallide) garanzie costituzionali.
Nell’Egitto di Mubarak le carceri sono zeppe d’oppositori politici, e così avviene anche (in misura minore) in Siria ed in Libia. Perché questa differenza?

Per capirlo dobbiamo scrutare il mondo arabo così come uscì dalla Seconda Guerra Mondiale (o poco dopo): da un lato le nazioni che mantennero rigidamente le tradizioni – Marocco, Arabia Saudita, Kuwait e gli altri stati del Golfo Persico – e dall’altra i paesi che abbracciarono il cosiddetto “socialismo pan-arabo”, ossia Algeria, Libia, Egitto, Siria ed Iraq, che gravitarono – chi più e chi meno – nell’orbita sovietica.
Altri stati ebbero situazioni diverse: la Giordania fu assegnata alla dinastia hascemita come pegno (e garanzia) per l’aiuto offerto dal bisnonno dell’attuale re alle truppe inglesi (quelle di Lawrence d’Arabia) nel cacciare i turchi durante la Prima Guerra Mondiale, mentre l’Iran riuscì a mantenere l’indipendenza grazie alla sagacia dello Scià Mohammad Reza Phalavi I, mentre il figlio Reza II non fu abile come il padre e cadde nella trappola tesagli da Khomeini. Il Libano ottenne un’indipendenza di facciata, che poteva e che può tuttora esistere soltanto se c’è equilibrio fra i suoi potenti vicini.
Potremmo quindi dividere il campo in due diverse situazioni: coloro che accettarono una sorta di modernizzazione (sociale e giuridica) che era proposta dall’URSS – nazione che non aveva un passato coloniale – mentre altri rimasero in qualche modo fedeli alle tradizioni.
Anche le tradizioni, però, non erano uniformi, giacché si trattava di un compendio di norme, comportamenti, abitudini – in definitiva dell’impianto sociale – stabilito da Maometto nel VII secolo d. C. e via via un poco trasformato dai grandi califfi, soprattutto da quelli abbassidi2.

La stagione aurea della cultura islamica durò troppo poco per evolversi verso impianti sociali più liberali, anche se vi furono pensatori islamici che – prima dell’anno 1.000 d. C. – ritenevano che “solo la logica (kalam) può riconciliare in pieno ragione e fede”3.
Dopo l’anno 1.000 d. C. la stagione aurea del pensiero islamico iniziò un lungo ed inarrestabile declino, la cui fine coincise con le dominazioni coloniali.
Le nazioni che scelsero la via “socialista” copiarono – spesso peggiorando ancora il modello – dall’URSS: è stupefacente notare come un impianto sociale autoritario come quello sovietico ben si sposò con la naturale vocazione dispotica di califfi ed emiri.
In fin dei conti, Nasser, Sadat, Afez al Assad, Saddam Hussein e tanti altri non furono niente di più che dei sovrani assoluti che attingevano alla pratica stalinista – dei califfi con la stella rossa – con apparati di polizia copiati di sana pianta dalla Stasi tedesca o dal KGB sovietico. Fu, per molti aspetti, un nuovo Limbo, un’ulteriore sospensione nel tempo, di quel tempo che scorreva immutabile e statico dai tempi di Maometto.

Oggi alcuni di quegli statisti sopravvivono: il caso più eclatante è Muhammar al Gheddafi, sovrano incontrastato della Libia da decenni.
I recenti disordini scoppiati a Bengasi sono una meteora, un fulmine a ciel sereno per l’inossidabile colonnello di Tripoli: scaltro come una volpe, Gheddafi ha saputo destreggiarsi per decenni fra embarghi e sanzioni, oscillando ora verso la Lega Araba ora verso quella Africana, un po’ con l’Occidente ed un po’ con l’URSS e la nuova Russia.
Un mirabile esempio d’equilibrismo politico, e bisogna riconoscere che Gheddafi possiede una lungimiranza politica che pochi leader mondiali possono oggi vantare, anche se governano nazioni enormemente più potenti. Eppure, Bengasi è una ferita grave.
Qualche giornalista italiano si è lasciato andare a commenti del tipo “manifestazioni sorrette dal regime…”, ma, se avesse riflettuto qualche attimo prima d’aprir bocca, sarebbe rimasto senz’altro in silenzio.
Probabilmente alcune manifestazioni erano tollerate dal regime – proprio per mostrare alla popolazione che il governo era sensibile all’offesa ricevuta – ma non si doveva andar oltre: la prova? I morti, che nelle manifestazioni “pilotate” non ci sono mai, così come non avviene che un ministro dell’Interno – il giorno seguente – perda il posto.

Cosa è sfuggito? E’ sfuggito ciò che in realtà era entrato. Bengasi è situata quasi al confine egiziano, mentre Tripoli è vicina alla più tranquilla Tunisia. Chi può essere entrato dall’Egitto?
Che si sia trattato di persone o di parole, di scritti o di sermoni, il “marchio” dei disordini di Bengasi è quello della Fratellanza Musulmana, che non è – come credono alcuni giornalisti italiani – capeggiata dall’Imam di Al-Azhar. Forse, sono stati tratti in inganno dalla coincidenza che il nonno del “numero due” di Al-Qaeda, Ayman al Zawahiri – Al-Zawahiri di Rabia – fu anch’egli Imam della moschea di Al-Azhar, ma è una semplice casualità che non c’entra nulla con la Fratellanza Musulmana.
La Fratellanza Musulmana nacque nel 1926 ad Ismailya, in Egitto, fondata da Hassan al-Banna, un oscuro insegnante che si proponeva di risolvere l’eterno dilemma: conciliare l’Islam con la modernità. Dopo aver appoggiato Nasser, la Fratellanza Musulmana ne subì la repressione giacché non considerava “l’appiattimento” sull’alleato sovietico come un buon viatico per l’Islam.
La repressione egiziana colpì parecchi adepti alla Fratellanza – fra i quali Ayman Al-Zawahiri – e da questo filone si dipanano le strade che conducono (pur con significativi apporti provenienti da altri stati e da altre organizzazioni) ad Al-Qaeda, ad Hamas, alla Jiad Islamica.

I regimi del socialismo pan-arabo hanno sempre represso le organizzazioni islamiche: sostenere che Saddam Hussein potesse aiutare le organizzazioni terroristiche del fondamentalismo islamico è come credere che l’ENI s’adoperi per far entrare in Italia società straniere del settore energetico.
Difatti – cosa assai poco conosciuta in Occidente – man mano che procede “l’islamizzazione” dell’Iraq da parte delle milizie sciite, vengono perseguitati tutti gli aderenti alla sinistra irachena, bruciate le sedi, uccisi gli antagonisti, in un faida che poco appare dato l’enorme caos che regna nel paese.
Il segnale che giunge da Bengasi è quindi un sintomo di debolezza del regime, forse appena un’incrinatura, ma sappiamo quanto sia spesso rapido il processo che conduce una minuscola incisione a diventare crepa, poi frattura ed infine travolgente rottura.
Un’eventuale “capitolazione” della Libia verso foschi futuri legati al fondamentalismo avrebbe un effetto devastante sui già precari equilibri mediterranei – con Hamas al potere in Palestina, un’irrisolta questione algerina, un Libano sempre sull’orlo della guerra civile – e per questa ragione il gesto dell’ex ministro Calderoli può essere codificato con un solo aggettivo: folle.
Bisognerebbe imparare a separare le basse pulsioni – giacché qui non si può nemmeno parlare di un gesto politico – dalle proprie responsabilità di governo e nell’informazione: le ultime cose delle quali abbiamo bisogno – nell’attesa di trovare validi canali di comunicazione con il mondo islamico – sono proprio le invettive di Oriana Fallaci ed i gesti sconsiderati dei parvenu della politica.

Carlo Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it

Note
1 Uno dei rari testi (quasi introvabile) che riporta cronache dell’epoca è: A. Francia, A. Verde, M. Zanella – Caterina e le altre – Editrice Liguria – Savona – 1984. Nel testo sono analizzate alcune sentenze che andarono “controcorrente”, vale a dire giudici civili che assolsero le malcapitate “streghe” laddove i tribunali ecclesiastici le avevano condannate.
2 Per approfondire il rapporto fra Islam e democrazia vedi “La democrazia della mezzaluna”.
3 Abu-l-Hasan Alì al-Masudi, Baghdad, IX secolo d.C.

 
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