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La
democrazia della mezzaluna
E’ possibile conciliare Islam e democrazia senza seppellire tutto con
bombe e missili?
Carlo Bertani
Se
la forma perisce, non importa, l'originale è eterno."
Jalad
ud Din Rumi – Persia – secolo XIII
Il 30
settembre si è svolto a Venezia un convegno sul tema “islam e
Democrazia”, dove sono intervenuti i principali leader politici
italiani e molti studiosi dei rapporti fra Occidente ed Islam.
Per la prima volta – sui media nazionali – è apparsa l’ipotesi
che la democrazia non sia un ideale univoco, bensì un metodo che è
possibile declinare in modi diversi, secondo il percorso storico dei
popoli e le loro necessità: sembrerebbe l’uovo di Colombo, eppure
dobbiamo registrare che l’affermazione è del tutto nuova per le
implicazioni politiche che racchiude.
La nuova tesi contiene in sé la completa confutazione delle varie
teorie sullo “scontro di civiltà”, e dunque – se addirittura il
Presidente della Camera, Casini[1],
pare aver compreso il concetto – pensatori e scrittori come Huntington
o
La giustificazione (morale e politica) della guerra al terrorismo di
Bush poggia proprio su questi pilastri: dimenticate le inesistenti armi
di distruzione di massa di Saddam ed il falso coinvolgimento dell’Iraq
negli attentati dell’11 settembre, non rimane altra motivazione –
per rimanere in Iraq – che quella d’installarvi una democrazia
pensata ed applicata sul modello occidentale.
Ovviamente
si tratta di una tesi molto debole, giacché sappiamo che il principale
obiettivo di Bush era ed è il diretto controllo delle seconde riserve
petrolifere del pianeta, e l’indiretto controllo delle prime, ovvero
dell’Arabia Saudita.
Dalle 14 basi aeree irachene occupate gli USA controllano circa il 63%
delle riserve di petrolio del pianeta[2]:
se si aggiungono ad esse quelle del Caucaso (che rientrano nel raggio
d’azione dei cacciabombardieri dislocati nel Kurdistan iracheno),
parlare di democrazia è veramente un parlar vano.
Il passaggio del controllo del petrolio iracheno dalle compagnie
francesi e russe (che ne detenevano, sotto Saddam, il 90% dei contratti)
a quelle americane è stato il vero motivo dell’invasione. Le ragioni
del prolungarsi della guerra risiedono proprio nella causa primigenia;
nessuno appoggia Washington perché ha introdotto un nuovo concetto
negli equilibri petroliferi: chi è più forte militarmente si prende
l’intero piatto senza lasciare agli altri nemmeno le briciole.
Una simile rottura del multilateralismo petrolifero non poteva che
scatenare reazioni violente: meditiamo che, a due anni e mezzo
dall’inizio della guerra irachena, nessun movimento di resistenza
riesce ad opporsi ad una forza d’occupazione se non riceve sostanziosi
rifornimenti d’armi, denaro e logistica dall’esterno.
Proprio per mascherare la sotterranea guerra del petrolio in atto,
l’amministrazione USA tenta d’ammantare con proclami di sbandierata
democrazia l’occupazione neocoloniale dell’Iraq; non è una novità:
tutte le amministrazioni coloniali del pianeta cercarono di mistificare
la rude realtà del colonialismo con valori benevoli, quali elezioni
prive d’effettivo valore e “governi locali”. Si pensi che i
certificati elettorali – in Iraq – vengono distribuiti insieme alle
tessere annonarie per l’acquisto del pane.
Anche l’ultima scusa – il paravento dell’intervento militare
necessario per favorire lo sviluppo democratico – è quindi una bugia
dalle gambe corte, anzi, cortissime.
Se partiamo
dal pensiero dei neocon americani, proprio da Huntington – colui che ha coniato
l’icona dello “sconto di civiltà” – ci ritroviamo in una landa
desolata che non ha soluzioni. Nel pensiero dei neocon
l’Islam è un residuo storico, assolutamente privo d’importanza nel
panorama della globalizzazione, che deve scomparire come cultura per
essere sostituito da nuovi dirigenti che applichino alla lettera i
dettami della politica occidentale, punto e basta. Il pensiero di
Huntington, di Cheney, di Rumsfeld e di Wolfowitz non stupisce: nasce da
associazioni come New American Century[3]
ed i Nashville Agrarians,
ovvero da chi ancora tiene in bella evidenza nel proprio studio la
bandiera confederata.
Più arduo – ma non incomprensibile – è capire il “sacro fuoco”
che spinge
Il teorema della Fallaci è quindi altrettanto rozzo quanto quello di
Huntington: si potrebbe affermare che sono due prodotti culturali
“pre-confezionati” per due distinti continenti, l’uno per una
distratta America, l’altro per una timorosa Europa.
Se invece si desidera affrontare seriamente il problema della democrazia
nel mondo musulmano, queste illogiche e semplicistiche affermazioni non
bastano nemmeno per introdurre il problema, figuriamoci se possono
risolverlo.
C’è invece
un reale disagio del mondo musulmano, una sorta d’isolamento che
inizia molto tempo fa: non si tratta – come molti ritengono – di un
prodotto dell’ultimo secolo, bensì dell’evidente concretezza di un
arresto evolutivo che è iniziato con il decadimento del mondo islamico
medievale.
Inariditosi soprattutto per la dispersione del potere in mille
califfati, il mondo musulmano mantenne una relativa unitarietà proprio
nel concetto di Umma, ovvero
della comunità dei fedeli uniti dallo stesso credo che – a differenza
dell’Occidente – non introduce nessuna separazione fra nazione,
popolo e dottrina.
Dopo la caduta dei grandi califfati ommiadi ed abbasidi, e poi nella
diaspora dei samanidi, selgiuchidi, mamelucchi, fatimidi…è racchiusa
tutta la tragedia storica dell’Islam. Lo stesso Impero Ottomano –
così temuto in Occidente – aveva già esaurito la forza propulsiva
dell’Islam originario: era soltanto un impero fondato su una discreta
amministrazione ed una feroce burocrazia. Alla comparsa dell’Impero
Britannico in pratica si estinse, anche se formalmente durò fino alla
prima guerra mondiale, consentendo però alla nuova Turchia – forgiata
dalla mente di un grande statista, Kemal Ataturk – d’approdare alla
sponda europea.
L’accusa spesso avanzata da molti studiosi islamici all’Occidente è
quella di riconoscere il valore e l’importanza storica della civiltà
musulmana per poi – nel nome di una imperante modernità –
sostanzialmente negarlo.
C’è del
vero in questa affermazione, inutile negarlo giacché, se si vogliono
introdurre nell’analisi i distinti percorsi storici, non si può
dimenticare che
Noi europei siamo sorpresi dalla superficialità con la quale si studia
la storia nelle scuole americane, laddove si conferisce massima
importanza agli ultimi tre secoli – in pratica la storia americana –
e si concede assai poco ai rimanenti millenni.
Tuttavia – seppur in minor misura – anche noi europei cadiamo nel
medesimo errore: i cosiddetti “secoli bui” – dalla caduta di Roma
al Rinascimento – sono “bui” per l’Occidente, non per il mondo
musulmano. Negli anni che intercorsero fra l’Egira (622 d. C.) ed il
XIII secolo, il progresso nella letteratura, nelle arti e nelle scienze
avvenne quasi soltanto del mondo musulmano.
L’errore nel quale spesso cadiamo è quello di considerare
“storia” di quei secoli solo i Longobardi e Carlo Magno, mentre i
rivolgimenti europei dell’epoca non furono niente rispetto a ciò che
avvenne – parallelamente – da Fez ad Isfahan.
Le cronache dell’epoca ci consegnano una civiltà vitale, ricca di un
dibattito filosofico interno ad un Islam che oggi parrebbe
irriconoscibile. Sappiamo che la culla della scienza fu il pensiero
greco, ma la scuola dove crebbe e divenne adolescente fu proprio la
civiltà islamica, nei secoli a cavallo dell’anno mille d. C.
Già nel 794 d. C. fu creata a Baghdad la prima manifattura per la
fabbricazione della carta e nell’anno 891 d. C. c’erano in città
circa 100 librerie: poeti, filosofi, scienziati ed artisti popolavano le
corti ed i palazzi dei ricchi mercanti; insomma, anticiparono di qualche
secolo la cultura cortese europea e – per molti aspetti – fu il loro
Rinascimento.
Ciò che stupisce è sapere che il dibattito filosofico era ricchissimo,
e spaziava dai sostenitori dell’applicazione letterale del Corano fino
a correnti che potremmo definire Illuministe – “solo la logica (kalam)
può riconciliare in pieno ragione e fede”
[4]
– e addirittura a circoli che rasentavano l’ateismo[5].
Abu-l-Hasan Alì al-Masudi – un enciclopedista – nel suo Libro
del sapere ipotizzò l’evoluzione «dal
mondo minerale a quello vegetale, dal vegetale all’animale, e da
quest’ultimo all’uomo». L’affermazione, che in Occidente lo
avrebbe condotto direttamente al rogo, gli costò soltanto l’esilio
per dieci anni al Cairo.
Gli Arabi
studiarono la filosofia greca e gli autori latini: il tutto – in una
Baghdad gaudente, colta e libertina – era condito da un consumo di
vino che si misurava in migliaia di barili l’anno; ci si pentiva, ma
si beveva.
I libri di medicina di Abu Bekr Muhammad Al-Razi (latinizzato in Rhazes)
furono testi ufficiali nelle università mediche inglesi dal 1498 fino
al 1866, stampati in ben quaranta edizioni.
I numeri che ancora oggi usiamo sono quelli arabi (che i matematici
islamici importarono dall’India), giacché la matematica non sarebbe
andata molto lontano con la numerazione romana, ed addirittura il
termine “algoritmo” – che è alla base delle teorie informatiche
– deriva da un matematico di nome Al-Khwarizmi, che nel 825 d. C.
pubblicò un libro dal titolo Algoritmi
(il suo nome latinizzato) de
numero Indorum.
Proprio dai nomi possiamo comprendere la struttura delle società arabe:
il patronimico appare spesso nel nome esteso, mentre l’indicativo
della professione appare più raramente (gli Al-Hakim – in ogni modo – corrispondono in pieno ai nostri Del
Giudice).
Ciò che non manca mai invece, nel nome esteso, è l’appartenenza al
clan: Saddam Hussein fu costretto ad abolire la forma estesa del nome,
giacché tutto il suo entourage portava quello degli Al-Tikriti
(provenienti dalla città di Tikrit) e, anche nell’Iraq di Saddam,
troppo nepotismo poteva nuocere.
La base della società islamica è
quindi il clan, scomparso da secoli in Occidente: ciò che dobbiamo
domandarci – se veramente vogliamo trovare una via d’uscita alle
semplicistiche teorie di Huntington e della Fallaci – è se la
struttura dei clan può generare una forma di partecipazione democratica
alla vita sociale.