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alimentazione
Obama?
Gioire con prudenza, molta
Paolo Barnard
– 6 novembre 2008
http://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=52
Obama
Presidente. Rallegramenti, ma non abbiamo già visto questo film?
Circola ora un’euforia incontrastata, particolarmente qui in Italia,
per le speranze che Obama presidente significhi
un ritorno a politiche ‘illuminate’, qualcosa di più progressive,
più di sinistra addirittura, una ventata di luce dopo gli otto anni di
tenebre neoconservatrici in America e nel mondo. Questa
aspettativa eccitata si è diffusa a pioggia, e come al solito è
divenuta dogma acritico per una massa enorme di cittadini italiani di
centrosinistra e sinistra propria, con ogni sorta di congettura
declamata entusiasticamente dai soliti ‘informati’ commentatori di
quell’area. Viva Obama, il mondo cambierà,
è il coro. Ma non abbiamo già visto questo
film?
Era il 1992, e il volto era quello fresco di
Bill Clinton che ci annunciava l’uscita da ben dodici anni di
buio Repubblicano, e anche allora registrammo l’esultanza di mezzo
mondo. Ma che ne fu di quelle speranze?
Furono devastate dall’ex governatore
dell’Arkansas, la cui presidenza toccò punte persino di infamia,
oltre a non discostarsi se non cosmeticamente dal lavoro dei falchi di
Reagan. Leggerete più sotto.
Bisogna rimanere calmi e tentare di essere obiettivi osservatori della
Storia. Non possiamo discostarci dal fatto che è stato eletto un
presidente degli Stati Uniti d’America, che è la potenza egemonica in
guerra permanente- una guerra spietata sui fronti militari, economici e
diplomatici - per la propria sopravvivenza come tale. Che è un Paese
dove un centrosinistra, o persino qualcosa di vagamente tale, non
esiste. Gli Stati Uniti di oggi sono retti al vertice dall’alternanza fra
due forze di destra conservatrice, che si differenziano per dettagli
minori di politica interna, e per dettagli evanescenti in politica
estera. La retorica dei proclami sui palchi è una cosa, la realtà di
governo di una simile macchina nel contesto del
mondo moderno è un’altra.
Obama
è un nero, d’accordo, ma coi neri
d’America, col loro colore, stile di vita, linguaggio, e condizione
sociale ha ben poco in comune. Innegabile il primato di un nero alla
Casa Bianca, ma guardiamo oltre, per favore. E la prima cosa che si
osserva è che un’attenta lettura del programma di Barak
Obama lascia una sorta di
vuoto mentale e nessuna idea precisa. Dalla Sanità alla politica
estera, dall’economia alla scuola, veniamo
trascinati attraverso una serie di proclami talmente generici da
produrre un unico possibile interrogativo: ma che significano in
pratica? Soprattutto, a voler essere un poco più precisi, dove sono le
risposte del senatore Obama ai temi più
cruciali della politica americana, ovvero ai
temi più vergognosi della sua politica estera? E cioè: lo strapotere
delle lobby economiche e di quella ebraica nelle stanze che contano a
Washington, che il suo programma solo vagamente tratta; la politica
scellerata oltre che immorale sul Medioriente,
all’insegna di un incredibile sistema di due
pesi e due misure nei rapporti con Israele/Emirati/ArabiaSaudita e a
sfavore di chiunque altro; il sostegno americano alla repressione in
Colombia, che nel nome della lotta alla droga sta assassinando la società
civile attiva di quel Paese, e la rapina storica che le multinazionali
statunitensi pretenderebbero di perpetrare ancora su milioni di campesinos
in miseria, per giungere alla continua interferenza americana negli
affari interni di tutta l’America Latina; la vergogna dell’embargo
economico contro Cuba; il dramma dell’abbandono sanitario di 44
milioni di cittadini statunitensi che invocano (assieme a milioni di
altri) un sistema sanitario nazionale gratuito basato sulla tassazione
pubblica, e non mezze misure dove al centro stanno comunque le solite
compagnie assicurative; il problema degli accordi di libero scambio
commerciale che stanno uccidendo masse di posti di lavoro negli USA
mentre creano posti di lavoro da schiavi nei Paesi aderenti (sempre
Terzo Mondo); la fine del balletto vergognoso del rispetto selettivo
delle regole internazionali che Washington adotta come politica standard
da 50 anni, e cito le regole del WTO, del NPT, della Biological
Weapons Convention ecc., e il rispetto delle
sentenze delle corti internazionali come
la Corte Internazionale
di Giustizia, o il Tribunale Criminale Internazionale, o ancora il
rispetto delle Convenzioni di Ginevra e dell’Habeas
Corpus; il ritiro della presenza militare americana dall’Iraq intesa
come ‘ritiro’, e non la farsa del ritiro di truppe spicciole che
lasciano però sul terreno le più sofisticate basi militari americane
al mondo;
la Guerra
al Terrorismo, come mezzo per la disseminazione di quelle basi in posti
chiave per le risorse necessarie all’America; la fine delle leggi
liberticide che l’amministrazione Bush ha passato con la scusa della
Guerra al Terrorismo; la stagnazione degli stipendi medi americani da
oltre 30 anni e la povertà a livelli scandalosi per il Paese più
ricco del mondo, che non beneficeranno certo di qualche taglio alle
tasse o donazione per un gran totale di 50 miliardi di dollari, mentre
il budget per la difesa rimane di 700 miliardi di dollari l’anno;
l’esplosione di una finanza speculativa fuori controllo che tiene oggi
tutto il Pianeta sotto la spada di Damocle di 540 mila miliardi di
dollari in prodotti derivati che fluttuano all’impazzata e senza
controlli, una bomba atomica sotto ogni letto di ogni cittadino del
mondo. E sono molti altri i temi pressanti su cui Obama
ha detto da troppo poco a sostanzialmente nulla.
La terza, drammatica falla nel clima di euforia
per l’ascesa di Obama alla Casa Bianca è
la gioia per il ritorno a Washington della miglior tradizione dei
‘nuovi Democratici’, come se la parola Democratici in sé fosse
automaticamente sinonimo di qualcosa di diverso dalla destra, di un
vento fresco e rigeneratore per l’America e per il mondo. Non lo è, e
non lo è stata finora. Infatti, si può tranquillamente asserire che le
presidenze Democratiche del dopoguerra hanno rappresentato la continuità
dell’imperialismo all’estero e della ‘guerra ai poveri’ interna
propria dei Repubblicani. La spiegazione per la diffusa inconsapevolezza
di quanto ho appena affermato è duplice: da
una parte la geniale capacità dei più noti presidenti Democratici di
‘vendere’ all’opinione pubblica le stesse porcherie della
controparte (e peggio) con tale garbo da intontire i più; in secondo
luogo, la solita farsa dei grandi media compiacenti-silenti,
coi loro giornalisti asserviti.
Per mettere in un solido contesto le
mie affermazioni, è necessario rivedere (necessariamente per sommissimi
capi) l’intera menzogna del mito Democratico americano come simbolo di
progressismo e di giustizia, cominciando proprio dal suo capostipite:
quel volto ‘illuminato’ che rispondeva al nome di John Fitzgerald
Kennedy, per passare poi al suo successore Lyndon
B. Johnson e di seguito.
Fu
sotto le rispettive amministrazioni che fu dato il semaforo verde (per
usare un’espressione tutta americana) al peggior terrore neonazista
della storia del Brasile, quando con la cacciata del democratico Goulart
i militari ripresero il potere nel Paese (1964) inaugurando la notoria
stagione dei National Security States,
che soffocherà nel sangue e nella camere di tortura gran parte
dell’America latina nelle decadi successive. Nei files
segreti dell’epoca, oggi desecretati a
disponibili presso i National Security Archives
di Washington, si possono leggere le euforiche parole
dell’ambasciatore statunitense in Brasile Lincoln Gordon, un uomo del
Democratico Kennedy, che definì il golpe dei torturatori “una
grande vittoria per il Mondo Libero” e “un punto di svolta
per
la Storia
”. Prima ancora, Kennedy e i suoi più stretti consiglieri Mc Namara,
Gilpatric, Lemnitzer,
non si erano fatti scrupolo di lanciare una campagna di
terrorismo contro Cuba mirata alla sua popolazione civile, niente meno.
In un file segreto del Joint Chiefs
of Staff datato 13 marzo 1962,
l’amministrazione Democratica fa uso specifico della parola
‘terrore’ come strumento da impiegare innanzi tutto contro i
rifugiati cubani in cerca di asilo politico negli Stati Uniti per poi
incolpare Castro delle conseguenti atrocità, con lo scopo finale di
suscitare uno scandalo da prendere a pretesto per un’invasione
militare di Cuba: “La campagna di terrore sarebbe diretta contro i
rifugiati cubani in Florida o persino a Washington… potremmo affondare
un vascello di rifugiati o tentare di assassinarli qui negli States”,
recitano i documenti. Nell’operazione Mongoose
si discusse se “minare le acque cubane....
E’ stato detto che sono disponibili mine americane non
riconoscibili.... potremmo farle piazzare da Cubani”.
L’operazione Break up si prefisse
invece di “causare incidenti a navi, aerei o veicoli cubani usando
sostanze corrosive”. Tutto questo, come appare
ovvio, in violazione delle più elementari norme della legalità
internazionale.
Lyndon
Johnson non volle essere da meno, e poco
dopo aver ricevuto dal Congresso a
maggioranza Democratica il via per la sciagurata aggressione al Vietnam,
gettò tutto l’appoggio della sua amministrazione, aiuti militari
inclusi, al genocidio dei contadini indonesiani perpetrato dal generale Suharto
a partire dal novembre 1965, che riempì le fosse comuni
dell’arcipelago con più di un milione di morti, forse due, non lo si
saprà mai con certezza. I Democratici al potere alla Casa Bianca erano
determinati a impedire che i non allineati indonesiani di sinistra
portassero avanti “programmi politici e sociali che erano contrari
agli interessi di Washington”, come si legge nei files
desecretati, e fu un massacro. I dispacci
top secret che Johnson ricevette allora
fanno rabbrividire: telegramma A-527 da Jakarta, “La
stima del bilancio dei morti a Bali è di 80.000, le
stragi continuano e non se ne vede la fine”. E poi: “Francamente
non sappiamo se il vero numero di morti
(in Indonesia) è di 100.000 o di 1.000.000… ma crediamo che
sia meglio stare sulla stima più bassa, specialmente nel rispondere
alle domande della stampa”. Telegramma
riservato 1326 del 4 Novembre
1965: “E’ stato detto chiaramente che sia l’ambasciata
americana che il governo degli Stati Uniti condividono e ammirano quello
che l’esercito sta facendo”(sic).
Questa 'illuminata' tradizione del Democratic
Party sarà poi trasmessa ai loro futuri presidenti fino a oggi,
includendo il Nobel per
la Pace Jimmy
Carter. Carter fu a tutti gli effetti il
pioniere della improvvisa svolta religiosa conservatrice o
fondamentalista (a seconda dei casi) dei presidenti americani,
inaugurando la stagione della Bible
Belt Politics,
e cioè della politica di rincorsa dei voti delle destre religiose
estreme degli Stati americani del sud. Fu lui a comprendere per primo il
valore elettorale di un paio d’ore di messa
alla domenica, fotografi presenti of
course. Questo democratico, oggi simbolo
di pace, autorizzerà a partire dal 1978
ingenti forniture d’armi al genocida Suharto
nella sua nuova impresa contro l’isoletta di Timor Est, a un prezzo di
250.000 vite di civili inermi, e con l’aiuto di Israele nell’invio
di jet militari in una triangolazione che doveva bypassare i veti del
Congresso medesimo, di fatto violando i principi più solenni della
democrazia rappresentativa americana.
Carter
è anche l’uomo che all’inizio del 1978 di fronte all’apogeo
dell’olocausto cambogiano per opera di Pol
Pot e dei suoi Khmer Rossi, decise il famoso
‘spostamento verso
la Cina
’ (The Tilt towards China) che di Pol
Pot era il principale sponsor e armatore.
Quando poi il Vietnam invase
la Cambogia
ponendo fine all’incubo sanguinario dei Khmer Rossi (1979), il
Democratico Carter diede ordine alla sua
amministrazione di appoggiare presso le Nazioni Unite la permanenza del
“legittimo” seggio del governo cambogiano cacciato dai
vietnamiti, cioè di Pol Pot,
incoraggiando le agenzie umanitarie dell’ONU nell’aiuto ai
sanguinari guerriglieri Khmer dispersi nella foresta al confine con
la Tailandia. Il
consigliere per la sicurezza nazionale di Carter,
Zbigniew Brzezinski, ammise più tardi il
suo ruolo: “Ho incoraggiato i cinesi a sostenere Pol
Pot… Siccome Pol
Pot era un abominio, noi non avremmo mai
potuto aiutarlo, ma
la Cina
sì”.
Brzezinski,
sempre sotto diretta influenza dell’amministrazione Democratica di Carter
e in tandem con il segretario alla difesa James Schelsinger,
lanciò l’addestramento dei muhajideen
afghani in funzione anti sovietica, ignorandone la forte componente
islamica radicale, quella che farà poi da culla per Al Qaida
e Bin Laden. A chi a quel tempo gli pose il problema (con non poca
preveggenza) Brzezinski rispose: “ …
ma cosa volete che siano un mucchio musulmani
agitati?”.
La sfilza
di eminenti figure del Democratic Party
americano che le sinistre o similsinistre
italiane farebbero bene a non evocare continua con quella Madeleine
Albright che da ambasciatrice statunitense all’ONU (successivamente
Segretario di Stato di Clinton) descrisse la morte di 350.000 bambini
iracheni causata direttamente dalle sanzioni ONU contro l’Iraq come un
fatto tutto sommato accettabile. Accadde durante un’intervista di Lesley
Stahl, reporter del celebre programma 60
Minutes del network CBS,
nell’ambito di un approfondimento intitolato Punishing
Saddam.
La Stahl
ad un certo punto chiese alla Albright: “Ci
è giunta voce che mezzo milione di bambini iracheni sono morti. Sono di
più di quelli che morirono a Hiroshima. Mi dica, ne è valsa la pena?”
L’ambasciatrice guardò la giornalista e rispose: “Penso che
questa sia una scelta molto dura, ma il prezzo, pensiamo che il prezzo
ne valga la pena.”
Poi c’è Bill Clinton, che merita un capitolo a sé. L’euforia che
oggi percuote tanti in Italia e in Europa nell’attesa di una nuova era
Democratica e progressista made in Obama,
copia fedelmente quella vissuta nel 1992-3 quando i tre interminabili
mandati Repubblicani di Reagan e Bush padre finirono nel trionfo del
giovane liberal Bill Clinton. Anche allora,
come oggi, milioni di abitanti del pianeta si
abbandonarono a fantasie entusiaste sulla nuova era dei Lumi che
ne sarebbe seguita.
Eccoli i Lumi del 'progressista'
Clinton: è stato il pioniere della dottrina cosiddetta “Full Spectrum
Dominance” (dominio a tutto campo)
elaborata dal Pentagono sotto la sua amministrazione, che è stata la
base materiale e ideologica di tutto ciò che i neocons
di Bush hanno potuto fare in questi anni di devastante unilateralismo
armato. L’idea che l’America avesse il diritto di esportare la
propria supremazia in tutto il mondo, fu
egregiamente illustrata dal Consigliere per
la Sicurezza Nazionale
di Clinton Anthony Lake con le seguenti parole: “In un mondo in cui
gli USA non devono più quotidianamente preoccuparsi della minaccia
atomica sovietica, la questione del dove e quando interverremo in Paesi
esteri è sempre più una nostra scelta”.
Ed è sempre dal cilindro dell’affabile Bill che sono uscite due delle
più sciagurate iniziative rivolte al continente africano, il
African Growth
and Opportunity Act
e il African Crisis
Response Initiative
(ACRI). Nel primo è sancito il tentativo di incatenare sempre più
Stati africani ai cosiddetti accordi bilaterali di
libero scambio, che già hanno affamato e devastato ambientalmente
una sfilza di Paesi dell’Emisfero Occidentale (Centro America e
Caraibi); il secondo è un piano segreto di “programmi di
assistenza militare” (leggi vendita illegale di armamenti) a Stati
africani in miseria come il Niger, il Mali, il Chad,
l’Uganda, il Benin, il Senegal o il Malawi. L’uomo prescelto dal
Democratico Bill Clinton per gestire questi loschi affari si chiamava Nestor
Pino Marina, un colonnello esiliato cubano già arruolato nel
fallito golpe dello Sbarco della Baia dei Porci a Cuba del
1961, in
seguito agente speciale nelle ‘operazioni sporche’ dell’esercito
americano in Laos e Vietnam, e consigliere dei Contras
nella loro guerra di terrore contro il Nicaragua nei primi anni ’80
(che costò a Washington una condanna per ‘terrorismo’ da parte
della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja
nel 1986).
E per rimanere nell’America Latina,
l’'illuminato' Clinton decise di aumentare considerevolmente gli aiuti
militari alla Colombia impegnata nella cosiddetta ‘guerra alla
droga’, che altro non è se non un paravento per la repressione, la
tortura e l’assassinio di chi in quel Paese
lotta per la giustizia sociale e i diritti umani. Amnesty International
ha più volte denunciato le atrocità di
Stato colombiane, testimoniando che in realtà le forze armate
addestrate dagli Stati Uniti collaborano con le squadre della morte e
con gli stessi narcotrafficanti in una campagna di terrore contro
sindacalisti, attivisti per i diritti umani, studenti di sinistra, e per
reprimere i contadini in rivolta contro i latifondisti.
La
pratica del Democratico presidente Clinton e del suo partito di chiudere entrambi gli occhi
di fronte ai crimini più orrendi pur di esportare armi e influenza
americane, trovò forse la sua massima espressione nell’assistenza
militare alla Turchia. In quel Paese, lungo
tutti gli anni novanta si verificò una campagna di repressione
poliziesca delle minoranze curde del sudest che per la ferocia e
l’entità dei crimini commessi contro civili innocenti fu definita dal
Ministro turco
per i Diritti Umani Azimet Koyluoglu
“terrorismo di Stato”. Era
la Turchia
del presidente Suleyman
Demirel e del
premier Tansu Ciller,
sotto la cui amministrazione le forze speciali della Jandarma
bruciarono 3.600 villaggi, torturarono con metodi inauditi migliaia fra
uomini donne e persino adolescenti, uccisero, mutilarono e costrinsero
alla fuga sulle montagne due milioni di civili in miseria. Tutto
documentato dalle maggiori organizzazioni per i diritti umani, come al
solito. Ebbene, Clinton fu colui che nel solo
1997 decretò un aumento degli aiuti militari a quell’esercito
criminale di tale entità da superare tutte le forniture americane
precedenti dal 1950 ad allora.
Fu sempre Clinton e la sua amministrazione Democratica a guidare
l’attacco aereo della NATO alla Yugoslavia
nel 1999 per ‘salvare’ il Kosovo dagli artigli serbi, con la piena
partecipazione del nostro centrosinistra, salvo poi sostituire agli
artigli di Milosevic i propri (e i nostri). Sono recenti le rivelazioni
fatte in seno al Defence Select
Committee britannico dall’allora
sottosegretario alla Difesa Lord Gilbert secondo cui negli
accordi di pace di Rabouillet,
rigettati dal leader serbo, fu segretamente e appositamente inserita una
clausola chiamata Annex B che
prevedeva l’occupazione militare di tutta
la Yugoslavia
proprio per causare l’inevitabile rifiuto di Belgrado. Questo perché
il Kosovo, Paese immensamente ricco di
minerali, doveva divenire terra “ad economia di Libero Mercato”
dove era imprescindibile la rapida “privatizzazione di tutti i beni
statali” , secondo quanto recitano gli articoli 1 e 2 del capitolo
4 di Rambouillet, cosa che senza Milosevic
sarebbe accaduta assi più rapidamente. Ergo i bombardamenti e questo spiega
anche perché le forze aeree NATO sotto guida clintoniana
distrussero in Kosovo solo 14 carri armati serbi, ma colpirono ben 372
aree industriali statali (nessuna privata o di proprietà straniera). Il
più formidabile blitz delle forze NATO in Kosovo si registrò al
termine dei bombardamenti quando 2.900 soldati invasero il complesso
minerario di Trepca, valore di mercato di 5
miliardi di dollari, espellendone il management di Stato e i lavoratori.
Uno dei primi atti legislativi della nuova amministrazione ONU (Unmik)
fu di abolire la legge sulle privatizzazioni
del 1997 per permettere la proprietà straniera al 70% di qualsiasi
industria statale con solo il 15% riservato ai lavoratori. A gestire il
bottino di guerra fu lasciata
la Kosovo Trust
Agency (KTA) che ha di fatto
svenduto il Kosovo a pezzetti ai migliori offerenti stranieri.
Ricordo, di sfuggita, che Bill Clinton mantenne ben ferma la posizione
degli Stati Uniti come principali fautori delle sanzioni ONU contro
l’Iraq di Saddam Hussein, che con la piena consapevolezza dei Servizi
segreti di Washington costarono la vita ad almeno 350.000 bambini
iracheni, e questo nonostante le proteste degli stessi dirigenti ONU e
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un olocausto di
innocenti.
In
ultimo, lo scandalo delle torture americane nella prigione di Abu Ghraib
in Iraq.
Cosa c’entri in quell’orrore il Partito
Democratico statunitense è presto detto. Secondo le diverse inchieste
che seguirono lo scandalo (quella del US Army
Inspector General,
il Taguba Report, Amnesty
International ecc.) gran parte della responsabilità per quanto
avvenne laggiù è da attribuirsi alla gestione degli interrogatori dei
sospetti terroristi arabi da parte del maggior gruppo privato di
Intelligence statunitense, il California Analysis
Center Inc. (CACI), una delle tante aziende militari private cui
sempre più i governi americani appaltano veri e propri compiti di
guerra che una volta erano ad esclusivo appannaggio dell’esercito
nazionale. Questa tendenza, oltre a portare un elevatissimo malcontento
fra i soldati USA che vedono i loro omologhi privati fare il
loro stesso lavoro con metà della preparazione necessaria ma il
triplo dello stipendio, costituisce una vera emorragia di fondi pubblici
a favore di gruppi privati in una ridda di scandali, truffe e tangenti
da far impallidire la nostra Tangentopoli (di cui do un cenno più
avanti). Essa è figlia di una mentalità neoliberista spinta, che vede
nel restringimento delle funzioni dei governi (small
government, in gergo) e in
una deregulation selvaggia il toccasana per l’economia. E chi furono
gli artefici massimi di questa assai dubbia politica alla Casa Bianca? I
Democratici, quando il Democratic
Leadership Council approdò alla
presidenza degli Stati Uniti nel 1992-3 con Bill Clinton e Al Gore.
Quest’ultimo in particolare (Nobel per
la Pace
, sic) diede il via a una privatizzazione della Difesa a rotta di collo,
che però non fu regolata (e ancora non lo è) dalle
leggi del Libero Mercato, come si potrebbe pensare, ma sovente
secondo la regola dei contratti No-bid
Cost-plus, dove l’appalto è assegnato
dall’alto e senza gara, mentre i costi sono rimborsati alla ditta
prescelta semplicemente in base alle sue dichiarazioni di spesa, e senza
che alcuna Authority statale possa controllare alcunché. I fondi così
sperperati da Washington hanno raggiunto le decine di
miliardi di dollari di denaro pubblico nella sola guerra in Iraq, uno
scandalo che come si è visto non deve le sue origini ai falchi neocons
di George W. Bush, ma ai ‘progressisti’ eredi di JFK. “Hanno
creato un sistrema stalinista per remunerare
i loro vassalli… questo è un manicomio alla deriva”, è stato
il commento di Robert Greenwald, autore di Iraq
For Sale: The War Profiteers,
nella sua testimonianza presso il House Appropriation
Committee del Congresso americano pochi mesi
fa.
Barak
Obama sarà chiamato a un duro test nei
rapporti fra Stati Uniti e Cina, non ultimo perché il Paese asiatico è,
insieme, un mercato immenso che fa appetito a
chiunque e un investitore formidabile che si sta ‘comprando’ grandi
fette del debito americano pur rimanendo sulla carta una dittatura
comunista. Ci auguriamo che Obama non segua
le orme del celebrato Democratico Clinton, che decise di scavalcare ogni
remora morale e l’embargo deciso dal Congresso (e la
pila di cadaveri di Tien an
men) per vendere a Pechino addirittura
componenti nucleari, per la gioia dell’americana General
Electric. Fu poi il segretario di Stato di
Clinton, Warren Christopher, che si prodigò per recapitare in Cina
anche due tipi di satelliti militari,
scatenando di nuovo le ire del Congresso, il quale era stato da tempo
informato della spiacevole abitudine cinese di rivendere quella
tecnologia a Paesi come il Pakistan,
la Korea
del Nord o l’Iran.
Il
(non esistente) senso morale della presidenza di Bill Clinton nei suoi
rapporti commerciali col mondo, fu egregiamente espresso dal suo
ministro del Tesoro Lloyd Bentsen
che, notoriamente e pubblicamente, disse: “Sono stufo di giocare
alla pari.
Dobbiamo truccare il gioco a favore delle nostre industrie, lo dovevamo
fare 20 anni fa…”.
E non si creda che il ‘falco’
Clinton in politica estera si sia comportato da ‘colomba’ negli
affari interni. Egli ereditò dal Democratico Jimmy Carter una politica
economica interna che solo nei proclami risultava
innovativa (Obama prenda nota) ma che nella
pratica era una variante edulcorata del peggior neoliberismo
Repubblicano. Al punto che gli indicatori economici dell’era Clinton
crollarono ai livelli degli anni ’50, come testimoniò uno
studio della Fordham University
che appiccicò all’era clintoniana
l’etichetta di “recessione sociale”. Io stesso percorsi in
lungo e in largo gli USA al termine del secondo mandato Clinton, dove trovai
situazioni di degrado sociale spaventose: il record di senza fissa
dimora nello Stato della California, gente si badi bene pienamente
occupata ma che la logica speculativa ed elitaria dei clintonomics
(le teorie economiche del presidente) aveva resto a tutti gli effetti
dei poveri. A Palo Alto scovai persino una linea autobus che fungeva, la
notte, come dormitorio ambulante; a Pittsbourg
mi imbattei in un immenso corteo di
manifestanti, tutti anziani sopra i 70 alcuni dei quali sfilavano con i
trespoli delle flebo, per dire che la loro vita era una continua scelta
fra la cena o l’acquisto dei farmaci prescritti dal medico di base;
intere cittadine del mid-west abbandonate,
letteralmente, come si vede nei film western, con la vegetazione che
cresceva contro le porte e le serrande dei negozi, e gli abitanti
emigrati a cercar lavoro altrove; la nascita, dell’associazione Living
Wage, che combatteva per il diritto al
salario minimo di sussistenza per gli americani (sic)… E questo in
piena era Clinton vi ricordo.
Fu
un portavoce del sindacato AFL-CIO a Washington che mi raccontò
quell’anno una fatto risalente agli esordi dei clintonomics
nella metà degli anni novanta, e ripreso dal Wall
Street Journal. Il quotidiano scrisse che lo stato americano
dell’Alabama si era sorprendentemente aggiudicato la gara per ospitare
un nuovo super impianto metalmeccanico della tedesca Daimler-Benz.
Al gigante germanico, l’Alabama aveva offerto condizioni migliori di
quelle ottenibili in altri Paesi… del Terzo
Mondo, fra cui un prezzo simbolico d’acquisto per il terreno di 100
dollari (cento), esenzioni fiscali per centinaia di milioni di dollari e
mille altre agevolazioni di Stato. Ci si chiese (non sul WSJ) come fosse
possibile che la paga oraria degli operai statunitensi battesse quella
dei disoccupati messicani o rumeni, e proprio nel momento in cui Clinton
aveva appena declamato le virtù della sua programmazione economica.
Nel 1997, Bill Clinton (lo ricordo, parliamo di colui
che fu salutato come il nuovo Lume, Obama
prenda nota) arrivò persino a vantarsi del bassissimo livello delle
paghe operaie americane, e l’allora capo della Federal
Reserve, l’arcinoto Alan Greenspan,
ne diede una franca spiegazione di fronte alla Commissione Bancaria del
Senato. Secondo il mago della Fed si trattava del risultato “dell’insicurezza
del posto di lavoro”, che aveva
impedito un’ondata di aumenti su scala nazionale (per la debolezza
contrattuale dei lavoratori).
Questa insicurezza era in larga parte il risultato degli
accordi di libero scambio commerciale chiamati NAFTA, e stipulati
fra Stati Uniti (promotori), Canada e Messico sotto gli auspici di Bill
Clinton nel 1993. Le ragioni furono spiegate dall’economista Kate Bronfenbrenner
della Cornell University,
proprio in una ricerca commissionatagli dal segretariato del NAFTA: lo
studioso rivelò che i sopraccitati accordi davano
di fatto il potere agli industriali americani di ricattare i loro
lavoratori e i sindacati con la minaccia del trasferimento in Messico
delle produzioni. Lo studio dell’economista rivelò che nell’era
Clinton circa la metà degli scioperi veniva
così impedita, ma lo rivelò al Messico e al Canada, poiché il
presidente Bill ne vietò la pubblicazione negli USA.
Vorrei a questo punto riportarvi
al successo di Obama e all’euforia
incontrollabile (ma soprattutto incontrollata nei fatti) che sta
spazzando mezzo Occidente. La dura e talvolta bieca realtà della
presidenza dell’ultimo Democratico ‘illuminato’ prima di questo,
ci ricorda che una cosa sono gli slanci retorici morali e progressisti
ai fini elettorali e una cosa è governare il Paese più arrogante e
autoreferenziale del mondo, i cui abitanti pretendono in larga parte
(esclusi i derelitti) uno stile di vita che “non è negoziabile”
(Cheney, 2006). Il Big business è da sempre
l’anima, la struttura portante, di quella
società e per quanto Obama si sia sforzato
di rassicurarci, è al Big business che egli dovrà rispondere,
non ci si illuda. Bill Clinton lo speva
assai bene, fu infatti un perfetto presidente
per l’1% degli americani. Una ricerca Google nel Wall
Street Journal ha prodotto una conferma chiara di quanto dico. Un
editoriale del 19 novembre 1993, appena un anno dopo la vittoria
presidenziale del Democratico, dice testualmente: “Su
ogni sorta di questione, Clinton e la sua amministrazione
si sono trovati in armonia con l’America dei grandi affari… La sua
riforma sanitaria è tutta dalla parte delle grosse aziende e delle
grandi assicurazioni”. Obama prenda
nota.
Per concludere, e non per essere
impietoso, un accenno all’odierna crisi finanziaria, al disastro cioè
che ha minacciato di collassare il mondo e che ancora ci minaccia. Il
partito Democratico ne è stato una delle cause principali, come
documenta splendidamente Dominic Lawson
in un recente pezzo sul britannico The Independent.
Scrive l’inglese: “Quando vedo Barney
Frank e Christopher Dodd, i due presidenti
Democratici delle Commissioni Finanza della Camera e Bancaria del
Senato, fare la parte degli accusatori, bè,
posso solo rimanere estasiato dalla loro faccia tosta… Qual è la
causa prima di questa catastrofe finanziaria?
I mutui elargiti troppo facilmente a milioni
di americani. E quali organizzazioni sono responsabili più di altre? FreddieMac
e Fannie Mae. E
chi credete che abbia lavorato sodo per bloccare ogni tentativo da parte
di Bush per riportare quei due giganti del credito sotto il controllo
governativo? Fatevi avanti signori Frank e Dodd!”.
Lawson aggiunge che altri democratici di rilievo,
come Maxine Walters,
dichiararono a quei tempi che “stiamo cercando di riparare qualcosa
che non è rotto. Non esiste una crisi
nella Freddie Mac
e in particolare nella Fannie
Mae”.
Concludo.
Bisogna rimanere calmi, e usare lo strumento del raziocinio e
dell’esperienza. Abbiamo un presidente Democratico d’America, bene.
Il passato ci insegna che questo di per sé
non significa nulla di meraviglioso, anzi. Il presente ci suggerisce che
la nuova svolta è, per ora, solo retorica e disgiunta dalla realtà. La
realtà è che abbiamo un presidente dell’America, cioè un uomo il
cui primo compito è di preservare la sua egemonia nel mondo e il suo
stile di vita, entrambi “non negoziabili”. Ciò ha sempre
avuto, ha, e avrà costi orrendi, non v’è
scampo, se non nella fantasia degli ingenui. Felici per Obama,
ma prudenza.
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