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Kamut: un mito da sfatare
Massimo
Angelini, tratto da http://www.donnagnora.it/DonnanoniGnora.aspx
Ha buone proprietà nutrizionali ed è eccellente per la pastificazione, ma non è stato “risvegliato” da una tomba egizia e non è adatto ai celiaci. Inoltre viene coltivato e venduto in regime di monopolio, ha un costo eccessivo, e una pesante impronta ecologica. Luci ed ombre del Kamut – o meglio, del Khorasan: un tipo di frumento che tra l’altro abbiamo anche in Italia.
“Kamut”
non è il nome di un grano, ma il marchio commerciale (come
“Mulino Bianco” o “McDonald’s”) che la società Kamut
International ltd (K.Int.) ha posto su una varietà di frumento
registrata negli Stati Uniti con la sigla QK-77, coltivata e venduta in
regime di monopolio e famoso in tutto il mondo grazie ad un’operazione
di marketing senza precedenti.
C’è chi chiama questa varietà il “grano del faraone” perché
si racconta che i suoi semi sono stati ritrovati intorno alla metà del
secolo scorso in una tomba egizia ed inviati nel Montana, dove dopo
migliaia di anni sono stati “risvegliati” e moltiplicati.
Il
frumento prodotto e venduto con il marchio Kamut è coltivato negli
Stati Uniti (Montana) e nel Canada (Alberta e Saskatchewan), sotto lo
stretto controllo della famiglia Quinn, proprietaria della società K.Int.;
in Italia è importato solo da aziende autorizzate e può essere
macinato solo da mulini autorizzati. Tutti i prodotti che portano il
marchio sono preparati e venduti sotto licenza della K.Int e
sotto il controllo della Kamut Enterprises of Europe.
Il marketing decisamente efficace che è alla base del successo del
Kamut ha fatto leva su tre aspetti: la suggestiva leggenda del suo
ritrovamento, l’attribuzione di eccezionali qualità nutrizionali ed
una presunta compatibilità per gli intolleranti al glutine. Parliamone.
Il Frumento
orientale o Grano grosso o Khorasan –
lo chiamiamo col suo nome tramandato, comune e “pubblico”, mentre
Kamut è un nome di fantasia registrato – è una specie (Triticum
turgidum subsp. turanicum) appartenente allo stesso
gruppo genetico del frumento duro: presenta un culmo (fusto) alto anche
180 cm; ha la cariosside (chicco) nuda e molto lunga, più di quella di
qualunque altro frumento; è originario della fascia compresa tra
l’Anatolia e l’Altopiano iranico (Khorasan è il nome di una regione
dell’Iran); nel corso dei secoli si è diffuso sulle sponde del
Mediterraneo orientale, dove in aziende di piccola scala è sopravissuto
all’espansione del frumento duro e tenero.
L’invenzione commerciale del ritrovamento
Dunque,
per trovare il Khorasan in Egitto non era (e non è) davvero
necessario scomodare le tombe dei faraoni; senza contare che un tipo di
Khorasan era (e, marginalmente ancora è) coltivato anche tra Lucania,
Sannio e Abruzzo: è laSaragolla, da non confondere con una
omonima varietà migliorata di frumento duro ottenuta da un incrocio e
registrata nal 2004 dalla Società Produttori Sementi di Bologna.
Inoltre non bisogna dimenticare che la germinabilità del frumento
decade dopo pochi decenni, per quanto ideali siano le condizioni di
conservazione. Tutto questo porta ariconoscere nella storia del presunto
ritrovamento del Khorasan/Kamut solo una fantasiosa invenzione
commerciale, eleborata per stimolare il desiderio di qualcosa di puro,
antico ed esotico. E, a onor del vero, la stessa K.Int. ha
preso le distanze salla leggenda che, prealtro, ormai non ha più
bisogno di essere incoraggiata.
Dai dati oggi disponibili, di fonte pubblica e privata, tra gli
elementi di maggiore caratterizzazione del Khorasan ci sono un elevato
contenuto proteico, in generale superiore alla media dei frumenti duri e
teneri, e buoni valori di beta-carotene e selenio; per le altre
componenti qualitative e nutrizionali non ci sono differenze sostanziali
rispetto agli altri frumenti.
Glutine: non ne è né privo né povero
Bisogna,
infatti, chiarire che, come ogni frumento, il Khorasan è inadatto
per l’alimentazione dei celiaci, perché contiene glutine (e non ne è
né privo né povero, come, poco responsabilmente, una certa
comunicazione pubblicitaria afferma o lascia intendere) e ne contiene in
misura superiore a quella dei frumenti teneri ed a numerose varietà di
frumento duro.
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Kamut: glutine
secco 15,5%, glutine/proteine 94,5%
Frumento
duro: glutine secco 12,5%, glutine/proteine 87,5%
Farro
dicocco: glutine secco 14%, glutine/proteine 79%
Frumento
tenero: glutine secco 13,4%, glutine/proteine 80,6%
Farro
spelta: glutine secco 17,1%, glutine/proteine 93%
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Detto
ciò, il Khorasan è certamente un frumento rustico, con ampia
dattabilità ambientale, eccellente per la pastificazione. Come ogni
frumento che non è stato sottoposto a procedimenti di miglioramento
genetico o ad una pressione selettiva troppo spinta, e proprio per
questo motivo pare sia più facilmente digeribile dalle persone che
soffrono di lievi allergie e intolleranze, comunque non riconducibili
alla celiachia: ma questo è proprio ciò che si può dire dei farri e
delle “antiche” varietà di frumento duro e tenero. Se la sua
coltivazione è biologica (come permette la sua rusticità e come, per i
propri prodotti, assicura il disciplinare del marchio Kamut), si può
dire che senz’altro è un prodotto salutare, senza però scadere in
esagerazioni né in forzature incoraggiate dalla moda e dal marketing
del salutismo.
Costi elevati, per il portafoglio e per il Pianeta
Restano
ancora tre aspetti che gettano un’ombra sul prodotto a marchio
Kamut (ma non sul Khorasan!):
è
il monopolio commerciale imposto dalla K.Int. su
un frumento tradizionale che, come tale, dovrebbe invece essere
patrimonio di tutti, e più di chiunque altro delle comunità che nel
tempo lo hanno conservato e tramandato;
è
il costo eccessivo del prodotto finito (dall’80 al 200%
in più di una pasta di comune grano duro biologico), poco
giustificabile a sostanziaòe parità di valori qualitativi e
nutrizionali, dovuto al regime di monopolio, ai costi di trasporto, ai
diritti di uso ed ai costi di propaganda, ma dovuto anche agli effetti
di un mercato dell’eccellenza che trasforma il cibo in oggetto di
lusso, di gratificazione e di distinzione, e che specula sul desiderio
di rassicurazione e sul bisogno di salute;
è
la pesante impronta ecologica legata allo spostamento di un
prodotto perlopiù coltivato dall’altra parte del Mondo che arriva
sulle nostre tavole attraverso una filiera molto lunga (migliaia di
chilometri), e che, solo per questo fatto, non è compatibile con la
filosofia della decrescita e con l’attenzione al consumo locale, fatto
se possibile a “chilometro zero”.
Note
Per i dati riferiti in questo articolo sono stati consultati i siti
dell’Associazione Italiana Celiachia (www.celiachia.it),
dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (www.inran.it),
della Kamut International (www.kamut.com), dell’United
States Department of Agricolture (www.usda.gov), dell’Insitute
Sciwentifique de Recherche Agronomique (http://grain.jouy.inra.fr),
l’articolo di A. R. Piergiovanni, R. Simeone, A. Pasqualone,
“Composition of whole and refine meals of Kamut under southern Italian
conditions” su Chemical Engineering Transactions, 2009,
vol. 17: 891-896. Alcuni dati sonostati indicati da Oriana Porfiri
(comunicazione personale).
Fonte: aam Terra Nuova, marzo 2010, n°248, pagg.73-76