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La
comunicazione incontrollabile e le biotecnologie
A
cura di Marco
Caponera*
il
non detto
La
comunicazione scientifica in grossa parte del globo terrestre
fortunatamente non in tutto, avviene attraverso i mezzi di comunicazione
di massa, i quali si sostituiscono alla conoscenza diretta anche a ciò
che attiene all’ambito alimentare generando una forma di cultura non
più quindi im-mediata, tradizionale, culturale, ma al contrario frutto
di variabili di mercato e tecnologiche che in epoca di globalizzazione
si susseguono e si sostituiscono a ritmi vertiginosi lontani da una
forma di contatto effettiva con interessi e attitudini propri dei
soggetti che queste informazioni subiscono senza una reale possibilità
di sottrarvisi. L’informazione nonostante il ricorso ossessivo alla
tecnicizzazione, o al contrario proprio a causa di essa, non è in grado
di descrivere le disarmonie cui la società sta andando incontro, quindi
indicare i modi o più semplicemente gli ambiti ove correre ai ripari.
Disoccupazione
di massa, desertificazione, buco dello strato d’ozono, effetto serra,
fame nel mondo, nazionalismi xenofobi, terrorismo, alimenti transgenici[1],
clonazioni, sono soltanto alcune delle manifestazioni evidenti del
sottosviluppo sociale e materiale, che il cosiddetto progresso
capitalistico incondizionato, potrà produrre da qui a non molto, senza
contare gli effetti irreversibili già avviati e non più arrestabili.
Le informazioni, infatti, non agiscono nel vuoto: esse riguardano
qualcosa e si rivolgono a qualcuno; esse non esercitano un’influenza
in astratto, bensì su uomini che pensano e agiscono. E’ importante,
inoltre, notare che le maggiori capacità tecniche di comunicazione,
dovute all’inseguimento costante del ritrovato tecnologico superiore
alla testata concorrente, portano a capacità di manipolazione sempre
maggiori. Al contrario invece non portano necessariamente ad un aumento
della qualità dell’informazione, poiché padroneggiare la tecnologia
non è cosa immediata, né gratuita, così a farne le spese come al
solito è la qualità a vantaggio della quantità, unica ad essere
tecnologicamente garantita.
Il
non detto in realtà può essere comunicato; non è un problema tecnico
ma di linguaggio.
La difficoltà di comunicazione scientifica non sta tanto ne problema
della comunicazione dei concetti ma piuttosto nella volontà deliberata
di chi fa informazione di eludere, quindi non palesando, quelle che sono
le problematiche, gli errori, i limiti di una scienza che si suppone
esatta ma che nella pratica appare piuttosto approssimativa. Il non
detto è ciò che non deve essere comunicato poiché lederebbe in
maniera significativa l’immagine della scienza, dello scienziato e
delle multinazionali impegnate nella ricerca.
spettacolarizzazione
della scienza
I
media forniscono una informazione tecnico scientifica scadente e filo
aziendale, per via della sudditanza dovuta alle inserzioni
pubblicitarie.
I dossier divulgativi d’argomento scientifico prodotti dai media
risentono significativamente: 1)della convinzione da parte degli addetti
ai mass-media che i fruitori dell’informazione siano una massa di
analfabeti incapaci di decodificare messaggi che contengono
argomentazioni scientifiche e a cui ci si deve rivolgere per metafore,
immagini e, a volte, onomatopee. 2) della necessità dei media di
spettacolarizzare gli argomenti in esame per attrarre maggiore ascolto
possibile. 3) che i media, nessuno escluso, sopravvivono grazie ai
contributi degli inserzionisti, i quali molto spesso sono i protagonisti
della programmazione stessa, quindi è praticamente impossibile per
qualunque testata giornalistica essere obiettiva e imparziale quando ciò
comporti un danno di immagine per i propri inserzionisti. In questo modo
grazie alle motivazioni sopra esposte risulta chiaro che i mezzi di
informazione di massa non sono e non saranno mai dalla parte di coloro i
quali dicono di servire.
Schematizzando essi non fanno informazione puntuale, seria e obiettiva.
La
comunicazione si nutre di tecnologia, come la tecnologia si nutre di
comunicazione.
Questo binomio rappresenta la chiave di volta di tutto il sistema di
produzione – di sovrapproduzione - che ha preso a giovarsi
considerevolmente del potere del linguaggio pubblicitario, inteso non
solamente come forma di promozione di prodotti determinati, bensì come
insieme d’istituzioni spettacolari di ampio respiro, atte a
manifestare e impostare la consapevolezza e la conoscenza diffusa del
mondo merceologico totale.
L’ideologia del consumo non si forma soltanto negli spot mediatici, ma
abbraccia ogni branca del sapere e del vivere, in maniera tale da
coprire tutte le manifestazioni e i luoghi possibili del vivere
associato.
Per dirla con Guy Debord l’ideologia spettacolare consuma la città
nella campagna e viceversa; essa determina i modi e i termini sia della
vita associata cittadina sia della vita appartata delle campagne
facendone luoghi-merce, e contemporaneamente luoghi-consumo
intercambiabili, li priva dello status materiale e li divizza. Così
impostato geograficamente il merceologico linguistico detiene il
controllo e attraverso il consumo raggiunge il fine economico[2].
Gli
individui sono mantenuti nella presunzione di controllare l’uso che
fanno del proprio consumo (anche alimentare) e del proprio linguaggio,
facendo dell’autoregolazione il baluardo contro la sopraffazione da
parte del sistema economico-globale.
La consapevolezza di questa situazione contraddittoria sarebbe la prima
manifestazione del controllo totale e della sua affermazione universale,
poiché al contrario di quanto possa pensare di sé un qualunque
cittadino del mondo occidentale: qualcun altro, nel momento in cui lui
pensa sé stesso, l’ha già pensato e trasformato in consumatore
passivo indicandogli il modo in cui guardarsi, sentirsi, riconoscersi e
alimentarsi.
Il nodo della questione è che la propaganda ideologica contemporanea
non inizia e non finisce in corrispondenza di uno spot o di una campagna
elettorale: essa ha radici e forme di controllo molto più profonde che
derivano essenzialmente dal tipo di sistema economico cui fa riferimento
e che, per forza di cose, sostiene.
Il
controllo delle masse da un punto di vista geografico-mediatico avviene
in maniera concentrata e diffusa nello stesso momento, amplificando a
dismisura le potenzialità di entrambe le modalità d’azione. La
gestione della popolazione, delle sue scelte e delle sue aspirazioni,
oggi è concertata in maniera complessa e combinata, e non casuale come
avveniva agli inizi del secolo quando, come ricorda Debord, negli stati
pseudo-comunisti si effettuava una forma di controllo concentrata e, al
contrario, nei paesi detti occidentali, il controllo era praticato con
metodi diffusivi.[3]
Non è assolutamente ammissibile che esistano, in epoca globale, forme
d’arte, d’aggregazione sociale e di alimentazione diverse da quelle
istituzionali, ma queste ancora oggi seppur ghettizzate e fortemente
marginali sussistono, esempi lampanti ne sono gran parte della
letteratura latino-americana che ha un suo modo di vedere e interpretare
il vissuto quotidiano e le sue manifestazioni politiche in perfetta
antitesi e in aperta polemica con gli intenti del mondo civile; sul
versante sociale troviamo per esempio popolazioni indigene quali quelle
messicane, – per tacere di molte altre - che rifiutano forme di
organizzazione e sfruttamento dell’uomo da parte del suo simile, poiché
vivono sulle proprie spalle e su quelle dei propri figli tutto il potere
dello sviluppo del mondo occidentale e del sottosviluppo che invece ad
essi è stato imposto.
Nel
manifestare il loro dissenso e il loro antagonismo però non si limitano
a combattere le multinazionali dello sfruttamento sul loro stesso
terreno, ma offrono un esempio di organizzazione sociale e politica non
gerarchica fondata sul principio della cooperazione, dell’autonomia
individuale e del pacifico sviluppo delle attitudini umane, offrendo così
un esempio di civiltà ben più alta di quella raggiunta dagli squadroni
della morte al soldo di Stati Uniti e Messico che, purtroppo per loro,
dall’esistenza e dalla sopravvivenza di questi popoli traggono
solamente perdite economiche.
Non ci sono rivoluzioni tecnologiche in atto, non esiste ancora un
dominio completo della macchina sull’uomo, bensì l’integrazione
delle esigenze di questo con le esigenze dell’economia, che ne
organizza le forme. Quando da questo processo congiunto tra locale e
generale si arriverà a conoscere una sintesi allora potremo parlare in
maniera esaustiva di società globalizzata. Al momento esclusivamente la
fantomatica new-economy (finanza, reti telematiche, biotecnologie) può
fregiarsi dell’aggettivo “globale”, tra tutte le forme di contatto
e d’associazione umane.
3)
blackout comunicativo
Gli
scienziati rifiutano di riconoscere come interlocutrici figure non
tecniche, giudicandole incompetenti.
Gli scienziati insistono ancora oggi nel non volersi occupare di etica,
cioè delle ripercussioni dei loro esperimenti-prodotti di laboratorio
nella realtà e quindi nell’ecosistema.
Questi due opposti logici generano un clima di completa incomunicabilità
da parte degli scienziati nei confronti del resto del mondo che invece
dovrebbe rappresentare a rigor di logica il vero e proprio scopo della
scienza.
Chi si avvantaggia di queste logiche paradossali naturalmente è il
“mercato”, da sempre avversario di uno sviluppo eco-compatibile e
quindi di una visione seria di progresso che implichi un miglioramento
della condizione reale della specie umana e non ultimo dell’intero
pianeta.
L’anacronistica declinazione di responsabilità cela il sinistro
intento di tenersi e godere di uno spazio d’autonomia etica nei
confronti del lavoro di laboratorio. Quest’ultimo però purtroppo non
esiste svincolato dalla realtà esterna, o per meglio dire le sue regole
sono autonome e fondate fintanto che i prodotti non entrano in contatto
fisico con il mondo esterno. I laboratori sono luoghi asettici che nulla
hanno a che fare con la realtà dell’ecosistema, con il suo complesso
equilibrio di forze. Un’invenzione biotecnologica che, ad esempio, si
comporti perfettamente in ambiente di laboratorio, non garantisce che
questo si possa ripetere una volta immessa in ambiente naturale, anzi il
più delle volte, come è già accaduto con il morbo della “mucca
pazza” l’ambiente rigetta la modifica forzata con conseguenze che
possono divenire catastrofiche.
Una posizione così comoda per lo scienziato e al tempo stesso così
pericolosa per il mondo intero non la si è mai garantita nella storia a
nessun soggetto scientifico, politico, sociale, o medico.
*Marco Caponera: giornalista e scrittore, collabora con la Cattedra di Filosofia del Linguaggio dell’Università di Roma “Tor Vergata”, autore nel 2000 del libro: “Transgenico No”, per la Malatempora Editrice di Roma.