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Come decenni di sciagurata gestione del credito ci stanno facendo precipitare in un antistorico “Terzo Mondo” europeo.

La tagliola del credito (Parte I)
di Carlo Bertani

«Se chi lavora mangiasse, cosa mangerebbe chi non lavora?»
Da I pensieri di Gasparazzo – Lotta Continua – Torino – 1975

Parte I

Di questi tempi sembra che lo scontro politico sia giunto al parossismo: una lotta senza quartiere fra centro-destra e centro-sinistra, dichiarazioni al vetriolo, ironie pesanti, dileggio, sarcasmo.
Eppure – e credo che molti lettori ed ascoltatori TV abbiano percepito l’incrinatura di un dibattito sempre di più avviluppato su sé stesso – i veri argomenti della contesa non sono quelli urlati in televisione o dipanati sulle prime pagine dei quotidiani.
Siamo giunti al redde rationem, e non per questo o quell’indicatore economico negativo, non per i tentativi di blitz istituzionali, non per la riforma della Costituzione, nulla di tutto ciò è importante quanto lo scontro che si sta materializzando all’interno del capitalismo italiano, giacché è una guerra che non trova soluzione dall’unificazione, dal Risorgimento.
Tutto potrebbe, ancora una volta, rimanere immutato? Così non è e non potrà essere: le metamorfosi internazionali impongono profondi cambiamenti nello Stivale, altrimenti la globalizzazione dei mercati sancirà il de profundis finale per il “malato Italia”.

Perché “malato”?
La malattia è cronica e profondamente radicata perché non siamo mai riusciti a definire in modo chiaro la laicità dello Stato: passi pure sulle questioni etiche – al massimo si fanno tanti bei referendum – passi anche nel costume; ciò che non può “passare” è in economia, altrimenti si va a fondo.
Il concetto di laicità dello Stato in economia non è la semplice negazione della preminenza di questo o quel gruppo legato a settori religiosi: questo è soltanto l’aspetto esteriore. La vera laicità dello Stato in economia significa che le regole del mercato non sono giustificate da dogmi, e si compie quando si applicano regole comunemente condivise che – nell’esperienza – generano risultati accettati e ritenuti, sostanzialmente, positivi. Insomma: una buona dose di relativismo e sperimentazione, contrapposta all’assolutismo dogmatico.
E’ un dibattito pericoloso, che non viene mai posto all’attenzione dei media, e per questa ragione fa parte a pieno titolo della cosiddetta “controinformazione”, anche se qualche sotterranea e flebile voce si levò anche in passato, a testimoniare che il problema non è proprio senza importanza.
Tina Anselmi – ex Presidente della commissione d’inchiesta sulla P2 – ha recentemente rilasciato una lunga intervista televisiva, che concludeva con una frase lapidaria: «Nulla di quanto sta accadendo oggi è spiegabile senza una profonda comprensione di ciò che fu la P 2». Già, “profonda” comprensione.

Della P2 – chi più chi meno – sappiamo tutto o, almeno, crediamo di sapere: i Servizi deviati, Gelli, Calvi, Sindona, Marcinkus…c’è qualcosa di più “profondo”?
Una prima chiave di lettura sgorga prepotente dalla cronaca di questi mesi: due grandi banche straniere cercano d’acquistare il controllo di due banche italiane, Antonveneta e BNL, e su questo caso si consuma uno scontro di Titani fra i poteri dello Stato. E’ un fatto del tutto normale?
Fusioni ed acquisizioni sono ormai – nel panorama internazionale – la regola e non l’eccezione: è invece assolutamente incongruo che qualcuno, in Italia, ritenga di poter ancora opporsi all’internazionalizzazione dell’economia.
Le due banche che vorrebbero acquisire il controllo rispettivamente di Antonveneta e BNL sono il gruppo olandese ABN-AMRO ed il Banco di Bilbao: entrambe sono sì – almeno nominalmente – riconducibili ad uno Stato, ma per quanto attiene alla capitalizzazione non si può certo parlare di banche “olandesi” o “spagnole”.
In ABN-AMRO operano gruppi finanziari sauditi, mentre la banca ”spagnola” è referente della vasta area d’interessi iberici in America Latina. In qualche modo, entrambe collegano – idealmente – la realtà odierna con il passato, Compagnia delle Indie od Impero spagnolo che dir si voglia.
Due grandi realtà bancarie, quindi, cercano d’entrare nel mercato italiano: perché lo fanno?

Perché sanno che lo Stivale custodisce uno scrigno: il più ingessato, contorto, controllato mercato bancario europeo; chi ha al suo arco grandi potenzialità, è in grado di scompaginare rapidamente l’Armata Brancaleone italiana ed installarsi sul trono.
Non è un mistero che le banche italiane non concedano mutui per l’acquisto della prima casa ai cosiddetti CO.CO.CO (ovvero i pessimi frutti della legge Biagi), ma è altrettanto vero che molte banche straniere (tramite Internet) concedono ai CO.CO.CO italiani quei mutui ipotecari che i direttori italiani in doppiopetto disdegnano e negano con un’alzata di spalle.
Perché lo fanno? Semplicemente poiché chi non paga perde la casa, ed alle banche straniere questo tipo di garanzia basta.
Chiediamoci allora: perché – la stessa garanzia – non è sufficiente per gli istituti italiani?
Per comprendere l’asfittica gestione del credito da parte degli istituti italiani, basta spiccare un salto all’indietro e ricordare la vicenda Parmalat: chi ha praticamente “coperto” il crack di Tanzi? Migliaia di sottoscrittori dei bond Parmalat, ovvero il popolo dei “risparmiatori”.
Questi “risparmiatori” non sono i grandi investitori protetti dal regime, bensì il popolo del piccolo risparmio, della liquidazione investita per assicurarsi una vecchiaia più serena, dei soldi messi da parte (con la speranza che fruttino un po’) per acquistare la casa ad un figlio.

Costoro, singolarmente, non hanno peso contrattuale (sono un altro “parco buoi” come quello azionario) ma rappresentano – se sommati – un’importante potenzialità economica: la sciagura, per i grandi gruppi finanziari, avverrebbe qualora al peso economico corrispondesse un coerente “peso” nelle scelte operate degli istituti bancari.
Grazie a questi enormi capitali, generati da milioni di piccoli risparmiatori, i gruppi bancari gestiscono il credito ovunque ma in Italia, se l’acquisizione di capitali avviene su vasta scala, la successiva erogazione – ovvero il credito – giunge nelle mani di pochi.
Nella mentalità anglosassone, invece, il credito è considerato quasi un diritto: chiunque desidera progredire economicamente deve aver accesso al credito, salvo poi prevedere pesanti sanzioni per chi cercasse d’approfittarne.
Tutto il mondo del capitalismo anglosassone è permeato da questa mentalità: concessione del credito e severe sanzioni per chi elude le regole; a ben vedere, le “terribili” associazioni dei consumatori americane completano questo sistema, fornendo un ulteriore controllo sulla qualità dei prodotti e dei servizi.
Ciò non significa che il sistema anglosassone sia perfetto o che sia la panacea per tutti i mali, ma sommando i vari fattori – credito, società di controllo, scarsa burocrazia, associazioni di consumatori e severità (penale) per chi elude le regole – si ottiene un buon mix, ovvero il classico concetto liberal dell’economia, da non confondere con il liberismo sfrenato e senza regole. Il crack americano di Wordlcom, è costato al suo Presidente una condanna a 25 anni di carcere.

In Italia il credito è concesso con il contagocce, le società di controllo hanno talvolta staff o persone in comune con le banche e le aziende che dovrebbero controllare, la burocrazia è opprimente, il peso delle associazioni dei consumatori è scarso e, infine, la lentezza della giustizia impedisce che la sanzione funzioni da deterrente contro i “furbi”.
Due sistemi a confronto: l’uno proiettato verso la circolazione capillare del credito, l’altro verso l’accentramento di grandi risorse a beneficio esclusivo di pochi eletti.
Risultato: l’apparato produttivo italiano si basa su poche, grandi famiglie che decidono in completa autonomia i destini economici (ed il corrispondente livello tecnologico) dell’industria italiana, perché qualsiasi prodotto innovativo – che potrebbe conquistare mercati[1] – viene prodotto soltanto se c’è accordo all’interno dell’oligarchia economica.
La FIAT è il più lampante degli esempi: nata con le commesse militari della prima guerra mondiale, cresciuta nell’autarchia fascista, protetta e sorretta nei decenni democristiani per quasi un secolo visse tranquilla, forte della sua posizione di privilegio nel mercato italiano. Quando la caduta del Muro scardina quel mondo, Torino si scopre nuda: tenta un accordo con General Motors, ma dopo qualche anno viene rispedita al mittente con una buonuscita di miliardi di dollari, basta togliersela di torno.
La FIAT , oggi – nel panorama mondiale dell’automobile – è un trovatello che è stato profumatamente pagato per non rovinare la tappezzeria di chi veramente opera nel mercato: non è un buon viatico farsi spedire a casa – con una profumata liquidazione – perché non si è desiderati.
Ecco spiegata la “navigazione” a vista della casa torinese: un piccolo accordo con Ford per produrre insieme due veicoli sullo stesso telaio ed una (probabile) futura collaborazione con il gruppo indiano TATA, una trattativa aperta con l’alta serie C.

Le altre case automobilistiche europee – grandi e piccole, famose o meno conosciute – sono invece riunite in vari gruppi, mentre la FIAT è sola.
L’azienda non può più contare sull’appoggio dello Stato (proibito dai regolamenti comunitari) e nemmeno bussare ad altre porte: dopo la figuraccia americana è come essere finiti sul registro dei protesti. Per fortuna ci pensano le banche: ma se le banche devono soccorrere FIAT, Parmalat e la sfilza d’incompetenti che non sanno vivere nell’economia globale, per gli altri rimane poco o niente.
Si potrebbe obiettare che l’Italia può fare a meno della grande industria meccanica (ha già perso, praticamente, la chimica con Gardini e l’elettronica con De Benedetti), giacché possiede almeno il 50% del patrimonio artistico del pianeta: insomma, potremmo essere la vetrina dell’estetica, la galleria del bello d’ogni epoca.
Invece, la Francia attira il doppio dei turisti stranieri dell’Italia, pur avendo solo una piccola frazione del suo patrimonio artistico e naturale. La ragione?
I prezzi delle offerte turistiche, in Francia così come in Germania, Spagna, Croazia, ecc. sono più bassi, notevolmente più bassi che in Italia, e la gente ci pensa su due volte quando deve spendere il doppio per una vacanza.
Non siamo capaci d’avere strutture turistiche competitive? Non è certo colpa dei ristoratori italiani: ancora una volta il problema è il credito.
Salvo qualche grande gruppo alberghiero, il tessuto del turismo è un universo polverizzato, realtà familiari o poco più che s’arrabattano per campare da una stagione turistica all’altra. Tutte queste realtà soffrono per carenza di credito e – badiamo bene – si tratta di gente che non si tira certo indietro di fronte alla fatica.

Come possono alberghi, ristoranti, agriturismi, campeggi, locande e poi ciò che “circonda” il turismo, ovvero balneazione, equitazione, fitness, iniziative culturali e quant’altro investire e prosperare con l’assillo, la tagliola di una banca che concede pochissimo ed è sempre pronta a ritirare i fondi?
Va da sé che – per rimettere in ordine i conti (e non finire sotto gli strali della banca) – si “ritoccano” i prezzi verso l’alto, e si va fuori mercato. Risultato: litorali italiani sempre meno affollati e tutto esaurito in Spagna ed in Croazia.
Nessuno sfugge a questa ferrea legge: dal produttore di mobili brianzolo all’agricoltore siciliano, tutti sono sempre sull’orlo di finire in mano ai “cravattari”.
Chi beneficia degli immensi fondi rastrellati dalle banche?
Con i fondi che dovrebbero essere convogliati verso il credito capillare si finanziano operazioni di mera speculazione a vantaggio ora dell’una, ora dell’altra grande famiglia del capitalismo italiano: perché l’unica banca d’affari italiana fu sempre e solo Mediobanca, diretta dalla stessa persona – Enrico Cuccia – per decenni?
Il controllo dell’oligarchia finanziaria sull’economia reale (quella che produce beni e servizi realmente fruibili) risulta quindi la classica palla al piede d’origine feudale che l’Italia si trascina appresso: anche l’esorbitante preminenza della finanza sugli aspetti tecnologici ed industriali non fa che deprimere le capacità creative degli italiani, che da paese di gioiosi inventori stanno diventando una landa di muti depressi.

Come giustificano le banche questo atteggiamento?
La principale giustificazione riguarda l’alto numero delle cosiddette “sofferenze”, ovvero i soldi che la banca presta e non riesce più a recuperare[2], più alto della media europea. Già l’incrocio di questi primi dati dovrebbe far spalancare gli occhi: com’è possibile che, nel paese dove più si stringono i cordoni del credito, si perdano più soldi?
Invece, il dato è coerente. La media dei crediti concessi è più bassa rispetto alla media europea[3] e ciò comporta per chi opera nel mercato una cronica, costante carenza di risorse: se, per mantenere competitiva un’azienda, per ristrutturare un ristorante, per aprire una stazione di servizio sono necessarie determinati flussi di credito, ricevendone soltanto una parte l’azienda parte e vive “zoppa”.
Gli italiani sono maestri nel fare di necessità virtù, ma oggi siamo europei e dobbiamo giocoforza sottostare alle regole europee: sicurezza, efficienza, rapidità e precisione, tutti fattori che richiedono automazione e formazione, e se il livello qualitativo delle aziende deve elevarsi, ciò significa che ci vogliono più risorse, più credito.
In mancanza del necessario, ci si “arrabatta” sperando nella buona stella – ma il firmamento ruota immutabile – e ad una buona stella ne segue sempre una un po’ peggiore. Sfortuna? Incapacità? No, mancanza di pianificazione dovuta a carenza di credito, quel credito che avrebbe consentito di mettersi al riparo da eventuali imprevisti.

In queste condizioni, molte attività produttive non ce la fanno e chiudono i battenti; risultato: le banche annotano una nuova “sofferenza” – che assorbirà altre risorse negli infiniti iter giudiziari – ma che si trasformerà in sofferenza vera per le famiglie, per gli esseri umani che corrispondono ai nomi scritti sulle carte bollate.
Insomma, un colossale ed insensato gioco al massacro che coinvolge da un lato le banche, dall’altro milioni d’italiani che vorrebbero guadagnarsi da vivere onestamente facendo impresa e non possono farlo: gli italiani continuano incessantemente ad inventare[4], ma non possono trasferire la loro creatività nel mondo reale. Ovviamente non sono toccati da queste vicende i grandi investitori, gli immobiliaristi, i grandi speculatori di Borsa, giacché spesso detengono quote del capitale azionario delle banche, fanno parte a pieno titolo di quel mondo e per loro non esistono “sofferenze”: suvvia, signori, siamo fra gentiluomini. La famiglia Tanzi sentitamente ringrazia.
Nel sistema del credito non esistono però solo le banche: l’Unione Europea ha stanziato negli ultimi decenni notevoli somme destinate proprio alla creazione d’imprese, soprattutto nelle aree più povere; i singoli Stati – poi – hanno deciso in autonomia le forme d’erogazione dei crediti. Che cosa ha fatto l’Italia?
A differenza d’altre nazioni, che optarono per una gestione centrale dei fondi europei (Spagna, Portogallo, Irlanda, ecc), l’Italia delegò le Regioni all’erogazione dei fondi sulla base di precise leggi dello Stato come, ad esempio, quella per lo sviluppo dell’imprenditoria femminile; a loro volta, le Regioni delegarono molti compiti alle Province.

Continua Parte II -->

 
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