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Ali Babà e i Quaranta Ladroni
Ovvero: come ti trasformo i soldi in informazione e faccio in modo che l’informazione serva solo a far soldi.
di Carlo Bertani - 16 maggio 2006

 Il nostro – come affermò Sciascia – è un paese senza memoria e verità, ed io per questo cerco di non dimenticare. 
Rocco Chinnici, giudice ucciso dalla Mafia a Palermo il 29 luglio del 1983

    Da pochi anni stiamo assistendo al “boom” della “disinformazione”, soprattutto sul Web; qualche decennio or sono si chiamava ”controinformazione”, ma trent’anni fa non c’era il Web: non per questo non si cercava di contrastare le “sirene” di regime, anzi.
    Uno dei più clamorosi eventi di controinformazione fu senz’altro la pubblicazione de “La strage di Stato”, apparso in libreria pochissimi mesi dopo la strage di Piazza Fontana. Grazie a quel libro, fu possibile inquadrare dal primo atto lo svolgersi della strategia d’attacco che il capitalismo internazionale stava mettendo in atto per proteggere le grandi ristrutturazioni dell’industria. Bisognava colpire su due fronti: da un lato l’enorme incremento di produttività che il superamento del fordismo generava non doveva essere ridistribuito, dall’altro le istanze di rinnovamento sociale portate avanti dai tanti movimenti dovevano apparire come sogni di mezza estate, utopie, pericolosi salti nel buio.

    In quegli anni la tecnologia stava compiendo balzi da gigante e la rivoluzione dei chip informatici automatizzava i processi industriali, sostituendo intere catene di montaggio gestite dagli operai con robot e sistemi automatizzati. Pochissimi anni dopo sarebbe iniziata la rivoluzione informatica dell’amministrazione, non più gestita con archivi cartacei e registri ma con l’elettronica: entrambi i processi sono tuttora in corso.
    Gli enormi incrementi di produttività che l’automazione industriale generò furono trasformati in capitali, non in beni destinati a chi li aveva prodotti: ciò condusse da un lato all’affermazione della finanza sul lavoro, dall’altro all’arricchimento dei finanzieri ed all’impoverimento dei lavoratori.

    Negli stessi anni la società italiana – sotto la spinta del ’68 – iniziava a lasciarsi alle spalle i valori più tradizionali per attingere a nuove fonti – Europa e Stati Uniti – soprattutto per quei valori liberali che le società del Cristianesimo Riformato contenevano oramai da secoli nel loro DNA. Nel 1974 fu vinto il referendum sul divorzio e tutta una serie d’esperimenti sociali ebbero inizio negli stessi anni: dalle cosiddette “comuni” partiva il messaggio di un superamento dei valori della famiglia tradizionale, anche se quegli esperimenti non furono certo esperienze di massa.
    Analizzare nel dettaglio i rapporti fra il mondo del lavoro e la struttura sociale richiederebbe ben altro spazio: ciò che fu chiaro sin dall’inizio ai governanti dell’epoca fu che quel rinnovamento – se non contrastato – avrebbe spazzato via un’intera classe politica. Le contromosse ci furono, e furono pesanti.
    Con la marcia dei 40.000 “quadri” del 1980 la FIAT riaffermò l’assoluta proprietà dell’azienda – estromettendo, di fatto, i lavoratori ed i sindacati dalle decisioni aziendali – mentre il milione di giovani che in quegli anni guardava verso un rinnovamento sociale fu ricacciato nella paura da poche migliaia di brigatisti[1].

    La profonda elaborazione teorica – ma anche pratica – degli anni ’70 in campo sociale fu così affogata nel sangue delle Brigate Rosse.
Ciò nonostante, pochi libri ben scritti e qualche casa editrice che operava ancora come tale – ossia come referente di un’area culturale – consentirono agli allora ventenni d’avere gli strumenti per elaborare la complessa realtà degli anni che seguirono.
    Ciò che seguì confermò in pieno quello che a prima vista poteva apparire come una arrogante elaborazione della realtà, basata solo su di un presuntuoso cui prodest
    Dopo Piazza Fontana vennero l’Italicus, Brescia, Ustica, la P 2, Gladio…e gli italiani non ebbero modo d’interpretare la realtà se non per sommi capi, senza più riuscire a stendere in modo ordinato una sequenza logica degli avvenimenti. A meno che quella fosse la logica dei poteri forti e degli assassini.

    In quegli anni nacquero dei fogli come “Il Male”, che cercavano nella satira la risposta all’arroganza sempre più spietata del potere: lo slogan era «Una risata vi sconfiggerà». Sono ancora là che ridono, di noi.
    Per attuare una strategia d’assoluto controllo dell’informazione era necessario operare con sapienza e con mezzi discreti: qualsiasi atto d’imperio sarebbe stato salutato come un attentato alla libertà d’informazione, ed il piano elaborato dalla P2 in quegli anni (realizzato in parte da Berlusconi[2]) era il vademecum del perfetto “golpista” dell’informazione.
    A metà degli anni ’70 ci fu il primo esperimento di televisione privata via cavo, Telebiella, che fu presto chiusa con un atto d’imperio. Mentre l’emittente biellese era soltanto sperimentale, in pochi anni nacquero molte televisioni locali le quali – opponendo spesso complesse battaglie giuridiche – riuscirono a sopravvivere. Per continuare a controllare l’informazione era necessario cambiare metodo.

    In quel panorama di rinnovamento liberale dell’informazione nacque – è proprio il caso di dire “dal nulla” – la figura di Silvio Berlusconi. Figlio di un bancario, non apparteneva al “Gotha” della finanza italiana né pareva avere le necessarie amicizie per diventarlo: aveva però in tasca una tessera della P2 – n. 1816, codice E.19.78, gruppo 17, fascicolo 0625, 26 Gennaio 1978 – e quella tessera sarà importante, cambierà la storia italiana.
    Anche la data è importante: nel 1978 – mentre la Nazionale volava in Argentina per il mondiale – iniziò la “caccia” alle emittenti locali, che Berlusconi acquistò ad una ad una dopo aver ricevuto per poche lire da Bettino Craxi – praticamente un regalo – l’esclusiva dell’etere privato italiano[3].
    Se l’etere gli venne cortesemente regalato da Craxi, per creare Canale 5 ed acquistare Italia 1 (dall’editore Rusconi) e Retequattro (da Mondatori) servivano un mare di quattrini, e i quattrini arrivarono, ma nessuno sa ancora oggi da dove provennero. Si trattava di 173 miliardi di lire dell’epoca (pari a circa 250 milioni di euro attuali) che Berlusconi ricevette non si sa da chi e che finirono nelle casse di finanziarie di comodo controllate dal Cavaliere: si noti che – in tutti i processi nei quali è stato coinvolto – Silvio Berlusconi si è sempre rifiutato di rispondere della provenienza di quel mare di soldi[4].

    Nel volgere di pochissimi anni le centinaia di sigle dell’emittenza locale scomparvero e nacquero i tre colossi: Canale 5, Italia 1 e Retequattro. Unificate successivamente nel gruppo Mediaset, gli italiani si ritrovarono in pochi anni a scegliere solo fra l’azienda di Stato e Mediaset, mentre la nuova emittenza locale (tollerata, ma di fatto ininfluente sotto il profilo dell’informazione) si dedicava soltanto a pubblicizzare mobili e vogatori.
    Era però necessario che l’imprenditore Berlusconi diventasse un personaggio pubblico, conosciuto e stimato non perché aveva rapinato grazie all’appartenenza ad una loggia massonica segreta le frequenze di trasmissione, bensì come mecenate, uomo di cultura, filantropo.
    Siccome il personaggio faceva a pugni con l’icona dell’uomo di cultura (Chirac gli proibì di creare TV in Francia, definendolo un “venditore di minestre”) – e per creargli attorno un alone “nazionalpopolare” che tuttora alimenta (il Presidente – operaio…) – il mondo del calcio era l’optimum: con pochi soldi acquistò un Milan che navigava a stento fra il fondo della serie A e la serie B e lo condusse agli allori internazionali.

    Fu proprio nelle “Biscardate” dell’epoca che s’iniziò ad ascoltare quel «Presidente Berlusconi…» che gli era attribuito come presidente del Milan: il completo sconosciuto di pochi anni prima veniva trattato con deferenza e chiamato “presidente”. Era solo calcio, ma tant’è.
    Non dovremmo sottovalutare i rapporti fra il calcio e la politica, perché il teatrino domenicale del pallone è anch’esso un terreno di scontro e d’incontro: c’entrano poco i partiti, ma non è detto che la politica la facciano solo i partiti.
    A parte il caso Berlusconi, come dimenticare che tutta la vicenda della Fiorentina fu uno scontro politico fra Berlusconi e Cecchi Gori? Moratti ed Agnelli, Viola e Ferlaino, in un tourbillon di miliardi pagati per assurgere alla notorietà o per deviare l’attenzione sul pallone piuttosto che su altre – meno nobili – faccende. Qualcuno ricorda che l’ex presidente della Sampdoria – Mantovani (scomparso da parecchi anni) – mentre la squadra volava verso lo scudetto subiva processi su processi per uno dei tanti sporchi affaire del petrolio?

    La grande preoccupazione dei politici italiani nei confronti del calcio – oggi tutti si preoccupano che “il giocattolo non si rompa” – è quella che gli italiani compiano una semplice equivalenza fra il mondo del pallone e quello della politica, che non si rechino più ad urlare la loro rabbia negli stadi ma che gliela urlino in faccia. Sarebbe ora.
    Se con Berlusconi e la RAI – dove, in quegli anni, correva voce che le assunzioni fossero lottizzate in modo che fossero assunti “un democristiano, un socialista ed uno bravo” – il potere politico s’era assicurato di vivere in una botte di ferro, rimaneva il pericolo di qualche “scheggia impazzita” della carta stampata, che qualcuno facesse disinformazione…pardon, vera informazione.
    Anche la carta stampata doveva essere controllata: non si poteva correre il rischio che un’informazione veramente indipendente giungesse ai cittadini. Se riflettiamo sul “lavaggio del cervello” compiuto sugli americani per convincerli che la guerra in Iraq era necessaria per sconfiggere il terrorismo – mentre in realtà ha “aperto” lo scenario iracheno alle formazioni guerrigliere islamiche transnazionali – ci rendiamo conto che non si poteva correre il rischio di voci veramente “fuori del coro”.

    In campo energetico, le recenti campagne pubblicitarie condotte dall’ENEL hanno addirittura un contenuto quasi subliminale: scomodando un attore del calibro di Giancarlo Giannini – uomo di cultura e di teatro – si cerca di far passare un messaggio che qualifica come “cultura” ciò che viene propagandato dell’ENEL e “non-cultura” ciò che proviene da altre fonti. Una meno recente campagna pubblicitaria dell’ENEL, invece, ricordava che non bastava tracciare dei segni sulla sabbia per creare energia; in quel caso, si comunicava un messaggio che doveva colpire l’inconscio del telespettatore: chi propugna soluzioni “semplici” in campo energetico è un sognatore che traccia inutili segni sulla sabbia.
    La realtà è invece più prosaica: il presidente dell’ENI, Scaroni, ha recentemente comunicato che – grazie all’elevato costo del petrolio – anche per il 2006 gli azionisti potranno attendersi “succosi” dividendi.
    La quadratura del cerchio possiamo verificarla ponendoci una domanda semplicissima: ENEL ed ENI – due gruppi che agiscono in Italia in un regime d’oligopolio – che necessità hanno di fare pubblicità? Con quali concorrenti devono competere?

    Ovviamente la “protezione” del mercato italiano da possibili competitori esteri costa e, difatti, nella finanziaria 2006 l’ex ministro Tremonti inserì dapprima la cosiddetta “tassa sul tubo” che obbligava i due colossi energetici a versare allo Stato una parte dei loro iperbolici utili, per poi trasformarla in un semplice prelievo sui bilanci delle due aziende, che non hanno fiatato né protestato. In pratica, hanno pagato il “pizzo” senza dire “beh”[5]. Va da sé che a fronte di queste “acrobazie” finanziarie bisogna che non esistano altre “campane” dell’informazione, proprio come nel calcio nessuno poteva permettersi di contrastare Moggi & Co. : chi non è d’accordo viene confinato nei “recinti” della “disinformazione”.
    Questo sistema di protezione dell’informazione di regime, però, costa ogni anno circa 600 milioni di euro, ossia la quota che viene versata ogni anno dallo Stato alle testate giornalistiche che fanno capo ad un’area politica, anche se non sono organi ufficiali di partito.
    Riflettiamo che la cifra (alla quale si devono aggiungere i contributi per l’acquisto della carta) è, per ordine di grandezza, un valore da Legge Finanziaria: gli esborsi che lo Stato prevede per finanziare la missione in Iraq o per rinnovare i contratti pubblici sono abbastanza simili[6].

    Perché lo Stato mette a bilancio una cifra così alta per la carta stampata, e con quali procedimenti regola l’esborso?
    Il meccanismo è semplice: basta che 2 (due!) parlamentari confermino che quel giornale è “voce” di un movimento o di un’area politica ed il quotidiano o mensile che sia ha accesso ai finanziamenti. Testate come Libero, Il Foglio, Roma, l’Unità e tantissimi altri ne beneficiano, con finanziamenti che vanno da qualche centinaio di migliaia di euro fino a quasi 10 milioni l’anno per i più grandi.
    A queste già cospicue cifre vanno aggiunti i contributi che tutti i giornali ricevono per l’acquisto della carta: in sostanza, ti compriamo parte della carta e paghiamo i giornalisti. Che cosa vuoi di più dalla vita per essermi fedele? E, in effetti, sono fedelissimi come lo erano gli arbitri a Moggi.

    Se i direttori delle grandi testate fanno capo tutti a precise aree politiche – tanto che compiono spesso l’altalena fra la scrivania del direttore e lo scranno parlamentare – come si possono controllare i giornalisti?
    Ce lo spiega lo stesso Ordine dei Giornalisti nel suo sito Internet: come si fa a diventare giornalisti?
    Per essere iscritti all’Ordine bisogna superare un esame e possedere i requisiti giuridici (cittadinanza, assenza di condanne penali, ecc): già qui non si specifica quali reati conducono all’esclusione. Anche una semplice condanna riportata in seguito ad un grave incidente stradale può condurre all’esclusione: potremmo chiederci perché – nel frattempo – personaggi condannati ed inquisiti per gravi reati di corruzione continuino a sedere sugli scranni del Parlamento.
    Per par condicio citiamo solo i casi di De Michelis – che ha sul “groppone” due condanne definitive (patteggiate) – e di Cirino Pomicino, condannato anch’egli ad un paio d’anni di carcere con condanna definitiva. Altri parlamentari hanno subito condanne definitive e molti sono già stati condannati in vari gradi di giudizio: per quanto ci risulta, a nessuno di questi imputati “eccellenti” viene mai negata la pubblicazione di ciò che scrivono, ma passiamo oltre.

La vera “chicca” dei “paletti” posti dall’Ordine è nelle specifiche richieste, che riportiamo[7]:

Professionisti
Sono professionisti coloro che esercitano esclusivamente la professione. Per l'iscrizione nel relativo elenco è richiesto:
l'esercizio continuativo della pratica giornalistica previa iscrizione nel registro dei praticanti per almeno 18 mesi, attestato da una dichiarazione di compiuta pratica del direttore, oppure titolo rilasciato da una delle scuole di giornalismo riconosciute in Italia che attesti il tirocinio dell'allievo per la durata di due anni;

    Insomma, per diventare un vero giornalista bisogna aver prima portato a termine un tirocinio – che deve in ogni caso essere comprovato da un direttore editoriale – ma qui si tratta di professionisti. Come si diventa giornalisti professionisti? Prima si fa la “gavetta” come praticanti. Come si diventa praticanti?

Praticanti
Coloro che intendano avviarsi alla professione giornalistica possono iscriversi nel registro dei praticanti in presenza dei seguenti requisiti: 
il possesso della dichiarazione del direttore comprovante l'effettivo inizio della pratica di cui all'art. 34 l . 69/1963;

Insomma, il praticante deve trovare qualcuno che attesti il suo praticantato, che è sempre il solito direttore di testata. E se non si trova un direttore disposto ad accoglierlo come praticante? In questo caso fa il free-lance, ossia il libero professionista che vende i propri servigi alle testate. Come si può diventare praticanti se si è free-lance?

Freelance
Al fine dell'iscrizione al registro dei praticanti da parte dei freelance sono richiesti:
l'iscrizione all'albo come pubblicista e lo svolgimento di attività giornalistica da almeno tre anni con rapporti di collaborazione coordinata e continuativa con una o più testate qualificate allo svolgimento della pratica giornalistica.
copia dei contratti di collaborazione continuativa e coordinata o delle ricevute di pagamento da parte delle testate e l'indicazione del giornalista professionista, caposervizio o redattore della testata o delle testate per le quali lavora e che gli impartisce le indicazioni tecnico - professionali;
copia della dichiarazione dei redditi da cui risulti che il compenso annuale dell'attività giornalistica corrisponde al trattamento minimo del praticante;
documentazione della produzione giornalistica;

    Il povero free-lance è proprio uno sfigato: per lui non bastano i soliti requisiti (penali, esami, ecc.) ma deve altresì fornire copia di chi lo ha precedentemente pubblicato. Riflettiamo che non basta aver pubblicato, ma deve anche essere stato pagato ed attestarlo! Ma se chiede di poter svolgere la professione, come può aver già pubblicato? Ha pubblicato se per tre anni qualcuno (dal giornalista professionista in su) ha garantito per lui.
Se, a questo punto, qualcuno si spaventasse potrebbe optare per l’albo dei pubblicisti, che sembrerebbe più “abbordabile”: è così?

Pubblicisti
Per l'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti è necessario:
presentare gli articoli, a firma del richiedente, pubblicati in giornali e periodici e i certificati dei direttori delle pubblicazioni, che comprovino l'attività pubblicistica regolarmente retribuita da almeno due anni; Per i corrispondenti o per gli articoli non firmati occorre allegare alla domanda, unitamente ai giornali e periodici suddetti, ogni documentazione, ivi compresa l'attestazione del direttore della pubblicazione, atta a dimostrare in modo certo l'effettiva redazione di dette corrispondenze o articoli. I collaboratori dei servizi giornalistici della radio e della televisione, delle agenzie di stampa e dei cinegiornali, i quali non siano in grado di allegare alla domanda i giornali e periodici previsti, debbono comprovare, con idonea documentazione ovvero mediante l'attestazione del direttore del rispettivo servizio giornalistico, la concreta ed effettiva attività svolta.

    Niente da fare: qualsiasi percorso si scelga c’è sempre qualcuno che deve garantire. Ma garantire che cosa? Se le capacità professionali vengono verificate a parte, mediante un apposito esame, non si tratta di sorvegliare affinché non siano iscritti come giornalisti persone che scrivono “squola” con la “q”[8].
    Il governo di centro destra aveva proposto d’aggiungere a questo calvario anche la specifica laurea in Lettere, Giornalismo, ecc, ma il Consiglio di Stato ha bocciato l’iniziativa e l’Ordine ne ha preso atto con gran tristezza:

Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti denuncia il responso del Consiglio di Stato, che blocca la modernizzazione e la liberalizzazione meritocratica dell’accesso alla professione giornalistica mediante l’esclusivo percorso universitario.

    Il comunicato dell’Ordine è quasi ridicolo: dopo aver steso quel “campo minato” di richieste e controlli osano parlare di modernizzazione e liberalizzazione? Bisogna riconoscere che restringere ai soli cittadini laureati la possibilità di partecipare all’informazione cozza contro alcuni principi costituzionali, giacché non è possibile equiparare le competenze professionali che deve possedere un medico con quelle di chi scrive: se il problema è di verificare le competenze, bastano ed avanzano gli specifici esami atti a verificare soprattutto la conoscenza degli aspetti giuridici attinenti al mondo dell’informazione.
    A questo punto potremmo proibire di cantare a chi non ha completato gli studi al Conservatorio, potremmo estromettere dalle compagnie teatrali coloro che non hanno frequentato l’Accademia d’Arte Drammatica cosicché – solo per citare un caso fra i tanti – un certo Fabrizio de André si sarebbe probabilmente distinto in una fulgida carriera come bancario o portalettere, invece di scrivere canzoni che hanno cambiato addirittura il costume e che sono riportate nei testi scolastici.

    Anche se il Consiglio di Stato ha motivato il parere con altre argomentazioni (conflitto di competenze fra Stato e Regioni, ecc.), sarà apparso evidente che si trattava anzitutto di una forzatura costituzionale, alle quali, ahimé, il governo Berlusconi ci ha abituati.
    Ricordiamo infine che Enzo Biagi – che ha ricevuto numerose lauree honoris causa – non ha conseguito a suo tempo una laurea, eppure è considerato il più bravo giornalista italiano vivente. Fu questa la ragione che condusse alla sua estromissione dalla RAI?
    Sappiamo che Berlusconi – con il cosiddetto “editto bulgaro”, giacché pronunciato mentre si trovava in Bulgaria – sentenziò l’ostracismo per Biagi, Santoro e Luttazzi, che puntualmente furono cacciati dalla RAI: bisogna riconoscere che il luogo d’emanazione della sentenza fu scelto con sagacia.

    Il caso dei tre giornalisti ha fatto chiasso per anni, mentre nel silenzio più buio stuoli di giovani che vogliono diventare giornalisti devono percorrere una via che – altro non è – che una sequela di prostrazioni ai potenti per ottenere una cosa semplicissima, la più “amata” dagli italiani: una raccomandazione.
    Tutta la sequenza di richieste racconta una sola vicenda: prima d’affidarti una rubrica su un giornale, vogliamo essere ben certi che scriverai soltanto ciò che ti consentiremo di scrivere e non quello che scoprirai o che ti verrà la voglia d’indagare.
    Se poi “sgarri” – e pensi d’aver scoperto che con i soldi della cooperazione italiana in Somalia viene gestito un traffico di rifiuti tossici – guarda a caso ti crivellano di colpi nel centro di Mogadiscio. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non sono gli unici giornalisti ad essere stati uccisi perché raccontavano la verità: De Mauro raccontò le vicende di mafia e Siano quelle di camorra, ed entrambi furono uccisi.
    Molti, però, continuano a scrivere nella più assoluta pace e vogliamo segnalare alcuni casi degni di nota. Non sappiamo se questi signori hanno ricevuto tutte le regolari certificazioni per svolgere la professione, ma qualcuno attestò qualcosa per loro, al punto di concedere loro una tessera. I signori[9]:

Cicchitto Fabrizio (tessera n. 2232): deputato di Forza Italia, nonché editorialista de Il Giornale. 
Ciuni Roberto (tessera n. 2101): collaboratore de Il Giornale e Panorama. 
Costanzo Maurizio (tessera n. 1819): conduttore di Buona Domenica e de Il diario su Canale 5 nonché consulente per La 7. 
Donelli Massimo (tessera n. 2207): attuale direttore di TV Sorrisi e Canzoni (Gruppo Mediaset).
Gervaso Roberto (tessera n. 1813): ha una rubrica fissa su Rete 4 (Peste e corna) e sul Messaggero.
Memmo Roberto (tessera n. 1651): avvocato e finanziere dirige la "Fondazione Memmo per l'arte e la cultura". 
Mosca Paolo (tessera n. 2100): oggi direttore del rotocalco Vip e titolare di rubrica fissa quotidiana su Unomattina, in Rai. 
Nebiolo Gino (tessera n. 2097): attuale giornalista del Foglio di Ferrara e del Giornale di Sicilia.
Picchioni Rolando (tessera n. 2095): attuale segretario della Fondazione del Libro di Torino (ente organizzatore del Salone del Libro) e direttore esecutivo del World Political Forum. 
Rizzoli Angelo (tessera n. E.19.77): attuale produttore di cinema/ tv per Rai e Mediaset. 
Sensini Alberto (piduista "interruptus", ossia non fece in tempo a ricevere la conferma dell’iscrizione, come Antonio Martino): giornalista del Gazzettino.
Trifone Trecca Fabrizio (tessera n. 1748): titolare di rubrica fissa di medicina "Vivere bene" su Rete 4. 

Ricevettero a suo tempo forse la più rilevante attestazione per entrare a testa alta nel mondo dell’informazione. Chi la rilasciò? Il signor Licio Gelli, Gran Maestro della Loggia P2.

Carlo Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it

[1] Alcune stime, che si basavano sulla partecipazione alle grandi manifestazioni, conducono a ritenere che circa un milione di giovani italiani facesse riferimento ai gruppi della sinistra extraparlamentare, mentre in tutti i processi per il terrorismo degli stessi anni il numero degli imputati – anche di quelli minori, i cosiddetti “fiancheggiatori” – non supera le 5.000 unità. E gli altri 995.000?
[2] Ricordiamo soltanto le recenti leggi introdotte dal governo Berlusconi: il tentativo di frantumare l’unità sindacale con il “Patto per l’Italia” (poi disatteso, a conferma che l’obiettivo era un altro), la legge Gasparri sull’informazione e la controriforma della Costituzione. Tutti provvedimenti previsti nel “piano” della P2, tanto che Licio Gelli ha recentemente dichiarato: « Forse sì, dovrei avere i diritti d'autore».
[3] Il governo Craxi varò due decreti per affidare il monopolio televisivo a Berlusconi, il secondo dei quali imposto ai parlamentari con il ricatto dello scioglimento anticipato delle Camere. Marco Travaglio op. cit.
[4] Per una più completa “carrellata” sui rapporti fra Berlusconi e vari potentati (palesi ed occulti) di quegli anni consiglio la lettura dei libri di Marco Travaglio: L’odore dei soldi, Berlusconi (insieme a Peter Gomez) ed altri.
[5] La prossima “guerra” energetica avverrà fra i monopolisti italiani e Gazprom, il colosso russo, che per continuare a rifornirci ha chiesto di poter gestire autonomamente una quota del mercato. In alternativa, il gas destinato all’Europa potrebbe finire in Cina: sic stantibus rebus
[6] La missione in Iraq costa al contribuente quasi un miliardo di euro l’anno (considerando tutte le spese, anche quelle nascoste abilmente nelle “pieghe” di bilancio), mentre il rinnovo di un contratto come quello della Scuola (che viene rinnovato, per la parte economica, ogni due anni) costa circa 300 milioni l’anno.
[7] Tutti gli estratti provengono dal sito ufficiale dell’Ordine dei Giornalisti.
[8] A tal fine, propongo agli increduli un interessante esperimento. Provate a copiare dal Web un articolo di una grande testata in Word (dove vengono chiaramente evidenziati gli errori ortografici): provare per credere.
[9] Le pagine gialle della P2, di Marco Travaglio.

 
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