- Dopo l'11 settembre

Lo scontro finale sarà con l'Europa
Elias Harfouche, al-Majalla (La rivista, Arabia Saudita) - 08.11.03
Tratto da www.aljazira.it/03/11/09/kopchan.htm

In uno speciale della nota rivista saudita «al-Majalla» dedicata alla crollo degli imperi nella storia, Elias Harfouche ha intervistato Charles Kopchan, ordinario di relazioni internazionali presso l’Università di Georgetown ed ex responsabile dell’amministrazione Clinton presso il Consiglio Nazionale di Sicurezza.

Alla fine dello scorso anno, Kopchan ha pubblicato un libro dal titolo «La fine dell’era americana» che, attraverso un’attenta analisi geopolitica, giunge alla conclusione che l’impero americano è agli sgoccioli e che dietro all’apparente lotta che gli Usa stanno conducendo ai danni delle correnti radicali islamiche, si celano i preparativi per lo scontro finale: quello con l’Europa.

D: Non ritiene che la sua teoria sia poco fondata soprattutto alla luce dell’attuale situazione nella quale sono coinvolti gli Stati Uniti d’America, mi riferisco all’Iraq e all’Afghanistan? Insomma molti ritengono che se di vera minaccia si tratta questa nasce dai gruppi islamici e non dall’Europa, come invece lei sostiene.
R: Vede, dipende da cosa si intende esattamente per pericolo e minaccia. Il pericolo diretto deriva senza dubbio dalle correnti islamiche radicali. Ma dietro questo pericolo diretto si cela un questione più complessa cioè quella della perdita degli Usa dei loro alleati internazionali. Credo che se l’alleanza Ue-Usa dovesse frantumarsi, tutto ciò che gli Usa vorrebbero fare diventerebbe più complicato. Temo che il governo americano si concentri molto sul pericolo islamico, sulle armi di distruzione di massa e sui regimi che chiama «deviati» ignorando una serie di altre questioni importanti. La questione fondamentale riguarda sicuramente il ruolo dell’alleanza con l’Europa nelle questioni riguardanti la conservazione della sicurezza mondiale. Se l’ordine mondiale dovesse crollare e si tornasse alla lotta per il predominio come successo nel XIX secolo, non credo che allora l’amministrazione Usa considererà l’islam radicale «il» pericolo che minaccia la potenza statunitense. Il ritorno delle lotte geopolitiche rappresenterà un pericolo maggiore.

 

D: Ma crede realmente che l’Unione Europa, nella situazione attuale, sia capace di minacciare gli interessi Usa?
R: Assolutamente sì. Non si può guardare solo alle apparenze. L’Europa si è rafforzata e ora è in grado di fermare un ipotetico tentativo statunitense di cambiare il mondo. Guardi a ciò che è successo per l’Iraq e come gli europei sono riusciti ad ostacolare in ogni modo le decisioni Usa.

 

D: Partendo da questo punto di vista, quali sono i sintomi della vicina fine dell’era imperiale statunitense? Questi fenomeni sono già in atto?
R: Ci sono due fattori che indicano la fine del dominio di un impero. Il primo riguarda l’apparizione dell’opposizione. Oggi osserviamo qualcosa di simile contro gli Stati Uniti in varie parti del mondo. Questa opposizione non esiste soltanto in quei paesi che sono notoriamente nemici degli Usa ma anche in quei paesi che vengono considerati loro alleati. Si prenda ad esempio la Germania, la Francia, la Corea del Sud ed altri stati alleati dell’America nel mondo arabo. Questi popoli che vivono in questi paesi vogliono opporre resistenza ad una forza esterna e in questo modo inizia il crollo, agli occhi del mondo, della legittimità degli Usa quale potenza dominatrice del mondo. Il risultato è che i paesi iniziano ad allontanarsi dagli Usa  coalizzandosi contro l’impero invece di seguirne le orme. Il fatto più pericoloso è che questi paesi fanno parte della rosa degli attuali alleati degli Usa e non dei loro nemici. Il cambiamento importante che ora sta avvenendo rappresenta la manifestazione dell’ostilità al predominio americano in questi paesi alleati.
Il secondo fattore riguarda l’opinione pubblica americana. I cittadini americani, infatti, non hanno una volontà politica e nello stesso tempo si rifiutano di sostenere politicamente questi impegni esterni del loro paese. Ad un primo sguardo superficiale gli Stati Uniti potrebbero apparire decisi, come mai prima d’ora, a sostenere questo loro ruolo esterno e desiderosi, come non mai, di affrontare le sfide esterne. Ma, a causa di quello che sta accadendo in Iraq, mi sembra che il sostegno popolare a questa politica stia calando velocemente. Forse questo non lo si nota nei circoli del potere a Washington ma è palese in quello che noi chiamiamo l’ «heartland» cioè la vera area elettorale di Bush rappresentata dalle zone agricole meridionali e da quelle montagnose occidentali. Sono queste le aree che hanno votato per Bush. Si puoi dire di tutto degli elettori di queste zone tranne che sono degli imperialisti. Loro vogliono mantenere la loro tranquillità personale e la sicurezza del loro paese: non sono contenti di avere 160mila soldati in Iraq attaccati tutti i giorni almeno 20 volte. 

D: Non ritiene che Bush riesca a conservare il sostegno popolare tenendo viva la minaccia di un nuovo 11 settembre?
R: Al contrario. Questo è esattamente la maniera attraverso cui Bush ha conservato sinora il sostegno popolare. Ha sfruttato per bene la sensazione, che provano gli americani, che il loro paese possa essere violato nuovamente per conservare il sostegno popolare alla sua politica. Ma il problema è che quando ora Bush va in tv a dire: «Sono il comandante supremo delle forze armate e faccio quello di cui c’è bisogna per proteggere la sicurezza degli Usa», gli americani non gli credono più. In Iraq non è stata trovata nemmeno una traccia delle armi di distruzione di massa né esiste alcuna prova del presunto legame tra il regime di Saddam e al-Qaida. Mentre è evidente che ci sono combattenti di diversi orientamenti e correnti pronti ad andare in Iraq per attaccare le forze americane. Perciò quando il presidente appare in tv per dire che la situazione in Iraq è sotto controllo, non c’è bisogno di essere un esperto della questione irachena per capire che c’è qualcosa che non va.

 

D: Crede che ciò che i sintomi della fine del predominio americano nel mondo possa essere paragonato a ciò che precedette il crollo dell’impero britannico e in particolare alle rivoluzioni e ai movimenti di resistenza antibritannici?
R: Vede, ci sono dei punti di contatto ma ci sono anche delle differenze. La differenza essenziale consiste, a mio avviso, nel fatto che gli Usa sin dall’inizio non intendevano immischiarsi nei conflitti all’estero. Gli Usa non volevano né ambivano a svolgere il ruolo dell’impero. Tanto meno volevano essere una potenza. Se si guarda alla storia e soprattutto agli scritti di George Washington e alle idee che hanno fondato l’unione si vedrà che sono impregnati di spirito isolazionistico. Anche quando avveniva un intervento esterno c’erano sempre voci forti di opposizione che dicevano: perché facciamo così? Perché non ci occupiamo solo delle nostre cose e restiamo qui? Così, contrariamente a quanto successe con gli inglesi e i francesi, negli Usa c’è stato sempre un certo esame di coscienza prima di intervenire all’estero. Questo orientamento fortemente isolazionistico è cambiato radicalmente dopo l’11 settembre ma ora sembra ritornare.
Quanto alle similitudini penso che in Iraq potrebbe ripetersi quello che successe ai francesi in Algeria o agli Inglesi in Palestina. Vale a dire, gli Usa saranno costretti ad aver a che fare con una lunga occupazione per affrontare l’inarrestabile resistenza irachena. In ogni caso, non credo che gli americani abbiano né le possibilità né la voglia di fare una simile cosa.

 

D: Come influirà l’esperienza dell’invasione dell’Iraq sul futuro della politica americana?
R: Ritengo che l’esperienza irachena insegnerà agli americani a non ripetere l’errore e a non tentare di invadere e di occupare un paese con il pretesto di trasformarlo in una democrazia. Credo che il cambiamento in Iraq avverrà prima di quanto pensiamo. Certamente Bush non potrà diminuire la presenza Usa in Iraq prima del novembre 2004 ma solo dopo le elezioni. Sia che a vincere sarà Bush o un candidato democratico, gli Usa mireranno a limitare il loro ruolo in Iraq e a portare la questione al tavolo dell’Onu o di una qualsiasi altra alleanza. Posso dire con certezza che Bush preferirebbe fare così sin da ora ma non può perché segnerebbe andare in contro ad un suicidio politico.

 

D: Se volessimo fare un paragone con la sconfitta sovietica in Afghanistan, ritenuta dagli storici come l’inizio del cambiamento e del crollo dell’Unione Sovietica, si potrebbe dire che una simile sconfitta in Iraq per gli Usa influenzerebbe il loro ruolo nel mondo?
R: Il fallimento dell’invasione sovietica in Afghanistan ha contribuito, senza ombra di dubbio, ad indebolire la legittimità della leadership di Mosca. Nel senso che diede il via all’apparizione della Perestrojka di Gorbaciov. Fu questa apertura politica a portare alla nascita dei movimenti di liberazione nell’Europa dell’Est che, a loro volta, furono la causa del crollo dell’Unione Sovietica. Questo crollo non fu però il risultato diretto della sconfitta in Afghanistan ma sicuramente quel disastro svolse un ruolo importante.
Oggi, la situazione in Iraq indebolirà la voglia dei politici statunitensi di far uso della forza allo scopo di cambiare i regimi. Ed assisteremo ad una trasformazione profonda all’interno degli Usa. Ciononostante non ritengo che ciò porterà alla fine del ruolo americano nel mondo come accadde all’epoca per l’Unione Sovietica. All’Iraq non seguirà, certamente, un ritiro americano dal Giappone o dalla Corea del Sud o dal Nord-Est asiatico. No di certo. Perciò credo che ogni caso debba essere analizzato nel suo contesto. Sicuramente l’effetto Iraq lo vedremo in Europa la quale tenderà a limitare il predominio Usa. Allo stesso modo la situazione in Asia cambierà con la crescita della potenza cinese

 
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