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Tra Saddam e Wolfowitz
        Di
        Noam Chomsky* – tratto da «Internazionale» 519, dicembre 2003
Chiunque si preoccupi un minimo dei
        diritti umani e della giustizia dovrebbe essere felice della cattura di
        Saddam Hussein, e dovrebbe aspettare con ansia che sia giudicato da un
        tribunale internazionale. Saddam dovrebbe essere processato per atrocità
        come l’eccidio dei curdi del 1988, e soprattutto, per il massacro dei
        sciiti che avrebbero potuto rovesciare il suo regime nel 1991.
        All’epoca, Washington e i suoi alleati avevano «un’unanime
        convinzione: quali che fossero le sue colpa, il leader iracheno dava più
        garanzie di quelli che avevano subito la sua repressione», scriveva
        Alan Cowell sul New York Times.
        Lo scorso dicembre, il ministro
        degli esteri britannico Jack Straw ha reso pubblico un dossier sui
        crimini di Saddam che si riferiva quasi interamente al periodo in cui
        gli Stati Uniti e la Gran Bretagna lo sostenevano con decisione.
        Ovviamente il rapporto non citava questo sostegno.
        Questi comportamenti riflettono un difetto radicato nella nostra
        cultura. A volte viene chiamato «dottrina del cambiamento in corso» e
        gli Usa l’invocano ogni due o tre anni. La dottrina consiste nel dire:
        «Certo, in passato abbiamo commesso degli errori per ingenuità o
        superficialità. Ma ora è tutto cambiato, non perdiamo tempo a
        discutere di queste faccende noiose». E’ una dottrina disonesta e
        vigliacca, ma ha i suoi vantaggi: ci difende dal pericolo di capire
        cosa sta succedendo sotto i nostri occhi.
Gli idealisti senza passato
        Per esempio, il motivo dichiarato dall’amministrazione americana
        per entrare in guerra contro l’Iraq era quello di voler salvare il
        mondo da un tiranno che produceva armi di distruzione di massa e aveva
        rapporti con il terrorismo. Ora nessuno ci crede più. La nuova
        spiegazione è che abbiamo invaso l’Iraq per riportare la democrazia
        in quel paese e per democratizzare l’intero Medio Oriente. A volte la
        ripetizione di questa tesi raggiunge un livello di rapido entusiasmo. Il
        mese scorso, per esempio, il commentatore del Washington Post David
        Ignatius ha definito l’invasione dell’Iraq «la più realistica
        delle guerre moderne». Ignatius è rimasto colpito daq Paul Wolfowitz,
        «il piùrealista dell’amministrazione Bush», descritto come un vero
        intellettuale «il cui cuore sanguina per l’oppressione del mondo
        arabo e sogna di liberarlo».
        Forse questo può aiutarci a
        capire la carriera di Wolfowitz.
Quando
        era ambasciatore in Indonesia durante la presidenza Reagan, appoggiò il
        dittatore Suharto – uno dei più brutali sterminatori del secolo. Come
        responsabile del dipartimento di stato per gli affari asiatici,
        Wolfowitz organizzò il sostegno a feroci dittatori come Chun, in Corea
        del Sud, e Marcos, nelle Filippine. Ma tutto ciò diventa irrilevante in
        base alla comoda dottrina del cambiamento in corso. Il cuore di
        Wolfowitz sanguina per le vittime dell’oppressione, e se la sua storia
        dimostra il contrario è solo acqua passata.
        Il capitolo più recente della carriera di Wolfowitz è il suo rapporto Determination
        and findings sui generosi appalti per la ricostruzione dell’Iraq,
        da cui sono stati esclusi tutti i paesi che hanno osato assumere la
        posizione della maggioranza dei loro cittadini. Wolfowitz ha
        giustificato la decisione «per motivi di sicurezza», motivi che non
        riusciamo a vedere. Ora le multinazionali americane Halliburton e
        Bechtel saranno libere di «competere» in Iraq con le vivaci democrazie
        dell’Uzbekistan e delle Isole Salomone, ma non con quelle dei paesi più
        industrializzati. L’elemento più importante è il fatto che il
        disprezzo per la democrazia mostrato da Washington è stato accompagnato
        da un coro di elogi per il suo desiderio di democrazia. Essere riusciti
        a ottenere un risultato del genere è un’impresa ammirevole, difficile
        perfino per uno stato totalitario.
Gli
        iracheni conoscono bene il rapporto tra conquistatori e conquistati. Gli
        inglesi crearono l’Iraq a proprio beneficio. Era la politica delle «facciate
        arabe» - creare regimi deboli possibilmente parlamentari, che in realtà
        consentissero agli inglesi di governare.
        Chi si sarebbe mai aspettato che gli Stati Uniti avrebbero permesso la
        nascita di uno stato indipendente iracheno, soprattutto ora che si sono
        riservati il diritto di creare basi militari permanenti nel cuore della
        regione che produce la maggior parte del petrolio del mondo, e hanno
        imposto un regime economico che nessuno stato sovrano accetterebbe mai,
        mettendo il paese in mano a grandi aziende occidentali?
        Nel corso della storia, le azioni più indegne e vergognose sono state
        sempre accompagnate da dichiarazioni di nobili intenti, e dalla retorica
        della libertà. Se fossimo onesti, non potremmo che confermare il
        commento di Thomas Jefferson sulla situazione dei suoi tempi: «Non
        crediamo che Bonaparte abbia combattuto semplicemente per la libertà
        dei mari, più di quanto crediamo che l’Inghilterra stia combattendo
        per la libertà dell’umanità. L’obiettivo è sempre lo stesso:
        conquistare il potere, la ricchezza e le risorse di altri paesi».
*
        Noam Chomsy: uno dei più illustri intellettuali americani. Insegna
        linguistica al MIT (Massachussets Institute of Tecnology) di Boston, ed
        è autore di numerosi saggi
NB:
        L’amministrazione occupante angloamericana ha aperto la ricostruzione
        del paese (distrutto da una guerra!) anche alla tedesca Siemens e
        alla francese Alcatel. Ovviamente gli appalti più sostanziosi
        sono esclusivamente nelle mani angloamericane (Halliburton, Bechtel,
        ecc.) Fonte (Washington Post e Tagesspiegel)