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Produrre più energia o risparmiare nei consumi energetici?
di Carlo Bertani - 10/11/2005

 Ma non sai tu che se il fiume fosse asciutto potrei riempirlo con le mie lagrime? Che se il vento cadesse potrei spinger la nave coi miei sospiri?
William Shakespeare – I due gentiluomini di Verona – Atto Secondo, Scena III

Quando ci troviamo di fronte ad una carenza di beni le possibili soluzioni sono due: o riduciamo i consumi od aumentiamo le entrate; se il prezzo delle banane va alle stelle, possiamo rinunciare al fragrante frutto oppure cercare un secondo lavoro per gustare la macedonia.
Anche nel settore dell’energia la scelta è la stessa: a fronte dell’iperbolico aumento del prezzo dei combustibili fossili, possiamo rinunciare a qualcosa oppure lavorare di più per continuare ad acquistare le stesse quote d’energia.
Ad essere più precisi, bisogna considerare che il petrolio è in via d’esaurimento (40 anni circa) e quindi – tornando in metafora – già sappiamo che dovremo, in futuro, rinunciare alle banane: tanto varrebbe iniziare a considerare una macedonia di fragole e mele, che non è certo da buttar via.
Uno dei principali dibattiti del mondo ambientalista verte proprio su questo dilemma: ridurre i consumi energetici od aumentare la produzione?

E’ un dibattito che rischia spesso di diventare strumentale e sterile, oppure paralizzante per chi – in un modo o nell’altro – deve far in modo che non manchi la corrente per azionare la lavatrice.
Il risultato del dibattito si perde quasi sempre nel mantenimento dello status quo, ovvero: visto che non siamo d’accordo su come risolvere il problema, continuiamo come sempre. Business is usual.
Quel “continuiamo così” è ciò che ci ha condotti ad essere il fanalino di coda – in Europa – per le soluzioni adottate in campo energetico. Il petrolio è più caro? Italiani: spostate la fibbia di un buco. “Sforiamo” i limiti imposti dal Protocollo di Kyoto e dobbiamo pagare salate multe? Spostate la fibbia di un altro buco.
La paralisi politica italiana è evidentissima perché non si riesce ad aumentare la produzione d’energia senza ricorrere al carbone – non volendo incentivare le fonti rinnovabili e, quindi, mettendoci nei guai con gli impegni di Kyoto – e non si capisce come si possono ridurre i consumi, a patto di tornare al cavallo (non sapendo, poi, come nutrirlo).
Esistono poi delle posizioni che potremmo definire neo-luddiste[1], ovvero: la società consumistica è uno schifo, bisogna tornare alla vita in campagna ed al calesse, eccetera eccetera. Parallelamente, scopriamo poi che la gran parte di questi difensori “duri e puri” dell’ambiente possiede tre automobili, cinque televisori ed il climatizzatore in ogni stanza.

La domanda è allora: possiamo ridurre i consumi energetici senza rinunciare al nostro tenore di vita e salvaguardando l’ambiente?
La risposta è positiva, a patto di condire il dibattito con un bene che sta iniziando a scarseggiare: una buona dose d’intelligenza.
Esistono interventi di tipo individuale – come l’utilizzo di lampade a basso consumo, doppi vetri per l’isolamento termico gli ambienti, automobili che consumano meno carburante – ma questi sono interventi che tutti mettiamo in atto per risparmiare qualche euro, senza che nessuno ci debba indicare come attuarli. Se non lo facciamo da soli, quando arrivano le bollette di luce e gas ci pensano gli altri a ricordarcelo.
Il resto, purtroppo, non dipende dalle scelte individuali ma da quelle collettive, ovvero dalla politica: per quanto attiene al risparmio energetico, la classe politica sa quali sono gli interventi da attuare? Qualcuno ha analizzato il problema? In altre parole, sanno oppure brancolano nel buio?
Le analisi esistono, e provengono addirittura da settori dello Stato: vediamo qualche esempio.
Sappiamo che la produzione d’anidride carbonica è proporzionale alla combustione dei fossili, di conseguenza – tralasciando per ora l’efficienza energetica – chi utilizza più energia produce più CO2.

Il grafico[2] indica che le emissioni di CO2 in Italia sono diminuite nel settore manifatturiero (a causa della contrazione della grande industria), sono aumentate di poco negli altri settori (fra i quali le utenze civili, a dimostrare che se si è toccati nel portafogli s’aguzza l’ingegno), mentre le vere “sanguisughe” d’energia sono le industrie energetiche (+11,7) ed i trasporti, addirittura +22,7. Alla faccia del Protocollo di Kyoto.
Se le industrie energetiche sono in questa triste situazione a causa del grave ritardo italiano nello sviluppo delle fonti rinnovabili, dovremmo domandarci quali sono le cause del +22,7% dei trasporti. La classe politica non sa nulla?
Difficile sostenerlo, perché a segnalare il problema fu proprio una delle più alte istituzioni della Repubblica, ovvero la Corte dei Conti. Osserviamo le conclusioni della Suprema Corte Contabile dello Stato.
Giovedì 7 agosto 2003 la Corte dei Conti italiana diffuse un comunicato nel quale affermava che il Piano per il Trasporto Intermodale, varato nel 1986 e finanziato nel 1990, era sostanzialmente fallito.
I dati parlano chiaro: contro una media europea del 44,5%, il trasporto italiano su gomma ha ancora un’incidenza del 67% sul totale.

 

Riportiamo fedelmente le conclusioni alle quali giunse la Corte:
La domanda di mobilità
Il quadro attuale dei volumi di traffico conferma l'assoluta prevalenza del trasporto su strada, sia nel traffico merci (oltre il 60%) che in quello passeggeri (oltre l'85%), con alcune importanti peculiarità:
Un'elevata concentrazione di traffico su alcune direttrici stradali. Il 60 % circa dei flussi extraurbani si concentra su appena il 2% della rete stradale e autostradale.
Una squilibrata distribuzione territoriale della domanda di trasporto stradale, concentrata per oltre la metà in cinque Regioni: Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto ed Emilia Romagna.
Un'elevata quota di movimentazione delle merci su brevi e medie distanze (il 75% dei viaggi si svolge entro i 200 km) a causa della notevole polverizzazione della struttura produttiva e commerciale.
Lo squilibrio modale a favore della strada assume dimensioni maggiori rispetto ad altri Paesi europei sia nel segmento delle merci che in quello dei passeggeri in ambito urbano. Per i passeggeri si è assistito ad una continua diminuzione della quota del trasporto su ferro, a cui fanno riscontro i consistenti aumenti di quella su strada, aereo e su mezzi collettivi su gomma. Resta marginale la quota di traffico assorbita dal cabotaggio marittimo (intorno allo 0,6%). La prevalenza del trasporto stradale è particolarmente accentuata nelle aree urbane, ove si registra la progressiva caduta della domanda di trasporto pubblico. Anche nel caso delle merci si registra una diminuzione costante negli ultimi venticinque anni della quota su ferro che attualmente si attesta sul 13-14%.

Verrebbe da chiedersi: ci sono orecchie che ascoltano? All’estero, come vanno le cose? L’Unione Europea cosa raccomanda?
In Germania, circa il 25% delle merci viaggiano su fiumi e canali, un altro 25% in ferrovia ed il restante 50% circa su autocarri. Nella maggior parte dei paesi centro-europei la situazione è simile.
In Italia, la navigazione fluviale sposta lo 0,1% delle merci, il cabotaggio marittimo lo 0,6%, la ferrovia circa il 13% ed il trasporto su gomma tutto il resto.
Tralasciando le considerazioni sul traffico caotico su strade ed autostrade, dallo squilibrio nasce un problema d’efficienza, energetica ed economica.
Un treno merci può trasportare l’equivalente di circa 40 autotreni, mentre la nave fluviale assorbe il carico di ben 85 autoarticolati!
Per noi italiani c’è un grande buco nero: cos’è una nave fluviale? Una chiatta? Una bettolina fluviale? Niente di tutto ciò.
Per uniformare le dimensioni dei natanti che navigano nelle acque interne, l’UE ha stabilito l’unificazione delle imbarcazioni commerciali in un unico modello, definito “nave fluviale/marina del tipo 5°”, fissando precise dimensioni: 11,4 m di larghezza, 109 m di lunghezza ed una portata massima di 2.000 tonnellate. Le dimensioni sono state attentamente studiate per ottenere il massimo rapporto benefici/costi, ovvero aumentare il carico trasportabile considerando però le caratteristiche della rete fluviale, le dimensioni delle chiuse, dei passaggi obbligati, ecc.

Una nave fluviale/marina mantiene una velocità media di 10 nodi nelle acque interne e circa il doppio in mare: possiede un apparato motore di circa 2.000KW, carica 2.000 tonnellate ed ha al massimo una decina d’uomini d’equipaggio.
Un autoarticolato ha un motore che sprigiona circa 370 KW, carica 27 tonnellate ed ha un solo autista.
Per quanto attiene al consumo di carburante, sono necessari 1000 kg di combustibile per spostare 50 tonnellate di merci su strada per una tratta di 1000 chilometri, che scendono a 515 Kg per la ferrovia e si riducono ulteriormente a 394 Kg per il mezzo navale.
Se invece consideriamo l’apporto umano, il rapporto fra tonnellate spostate ed addetti è il seguente: 27 per l’autoarticolato, circa 160 per il treno e 200 per la nave.
Una nave fluviale/marina sposta quindi 85 volte ciò che può portare l’autoarticolato, richiede 1/8 del personale ed il 40% del combustibile.
Da anni l’Unione Europea batte su questo tasto, e tutti i dati riportati sono stati tratti da documenti ufficiali dell’UE[3].
C’è una precisa indicazione per l’Italia? Certo.

Il trasporto per via navigabile è il naturale alleato del trasporto marittimo. Esso assume un ruolo di crescente importanza per i grandi porti del Mare del Nord che spediscono e rispediscono per tale via gran parte del proprio traffico container. In alcuni dei paesi non legati alla rete nord-ovest europea, gli esistenti bacini, in particolare quello del Rodano, del Po e del Douro, presentano un interesse crescente in termini di navigazione regionale ma anche di trasporti fluviali-marittimi, che hanno visto crescere la propria importanza grazie anche ai progressi tecnici realizzati nella progettazione di navi in grado di navigare tanto in mare aperto che sui fiumi[4].

Navigare il Po? Oh bella, nessuno ci aveva pensato: dobbiamo ricorrere a Bruxelles che ce lo ricorda?
In realtà, noi italiani abbiamo sempre navigato le acque interne, ma lo abbiamo scordato. La costruzione dei canali iniziò a Milano intorno al 1150, prima come opera difensiva, poi – con il Naviglio Grande – come collegamento fra il Lago Maggiore e la città. A metà del ‘400 il sistema dei navigli collegava ormai tutta l’area milanese (dal bergamasco al Lago Maggiore) con Pavia. Nel 1819 – infine – l’Arciduca Ranieri d’Austria inaugurava la navigazione fluviale dal Lago Maggiore – via Milano, Pavia, Po, Mare Adriatico – fino a Venezia. Il passo successivo sarebbe stato collegare l’Adriatico con il bacino del Danubio ed i suoi affluenti (Drava, Sava, ecc): difficoltà finanziarie e politiche posero fine al progetto. Parallelamente, erano navigati i fiumi ed i canali veneti, l’Arno ed il Tevere fino al Ponte Garibaldi (all’altezza del quartiere Portuense): sembra fantascienza, eppure così risolvevano il problema del trasporto i nostri bisnonni.

Perché si preferivano i fiumi alle strade? La ragione è semplicissima: su un carro trainato da buoi – sulle strade dell’epoca – potevano essere trasportati pochi quintali, su un natante alcune tonnellate.
La fine del sistema idroviario italiano giunse con l’unificazione, che coincise con la stagione dell’espansione ferroviaria: grandi banche europee (si distinsero i Rothschild) concessero finanziamenti per l’espansione delle ferrovie, giacché si trattò di una vera e propria cornucopia per gli investitori.
Con il ‘900 giunsero le grandi guerre, vinte o perse, che assorbirono enormi risorse: fra le due guerre mondiali l’espansione coloniale condusse ad investire nella flotta marina, mentre la successiva ricostruzione post-bellica concentrò le sue attenzioni dapprima sulla ferrovia, ed in un secondo momento sulla rete autostradale.
Si trattò – in definitiva – di una dimenticanza associata a negligenza: la marina fluviale svizzera (sic!) sposta sulle acque interne lo 0,3% delle merci, quella italiana (che, in pratica, non esiste) lo 0,1%.
Se la Corte dei Conti afferma che la domanda di trasporto – per il 50% – è nella valle padana, ci potrebbe saltare in mente che proprio lì – guarda a caso – scorre il Po. Difatti, l’UE lo fa notare.
Qualche forza politica spende una parola sull’argomento? Silenzio. L’UE è addirittura disposta a finanziare il 50% delle spese di progetto ed il 10% dei costi d’intervento: perché nessuno ne parla?

Fiume Portata in magra
(m3/s)
Portata media
(m3/s)
Portata massima
(m3/s)
Danubio 1000 6400 16000
Reno 500 2200 10000
Rodano 600 1700 11000
Po 420 1470 12000
Senna 30 350 2400

Forse qualcuno ritiene che il Po non può essere navigato? Siamo contenti di poterlo smentire dati alla mano[5]. Come si può notare, i dati idrometrici del Po sono sensibilmente superiori a quelli della Senna, che molti di noi avranno osservato che viene navigata. Addirittura, i valori sono simili a quelli del Rodano e del Reno che – in Germania – è una vera e propria “autostrada fluviale”. Il problema è risistemare l’alveo del fiume per renderlo navigabile alle nuove navi del tipo 5° e, parallelamente, curare le opere ausiliarie: chiuse, bacini, ecc.
Quanto costerebbe? Nulla che non sia alla portata delle nostre smunte finanze pubbliche, giacché il Consorzio Navigare sul Po stimò le spese necessarie per risistemare la parte bassa del bacino – collegando Milano ed il Lago di Garda al mare – in circa 400 miliardi di vecchie lire nel 2000 che, attualizzati, potrebbero diventare circa 300 milioni di euro.
Con 500 milioni di euro sarebbe possibile rendere navigabile il fiume fino a Casale Monferrato, a 100 chilometri da Torino: 500 milioni di euro, distribuiti in cinque esercizi finanziari, rappresentano 100 milioni di euro l’anno (ai quali vanno sottratti i contributi europei). Ricordiamo che per il Ponte sullo Stretto di Messina è previsto un investimento di 6 miliardi di euro.
Perché le opere fluviali costano poco? Soprattutto perché vengono movimentate masse di terra, e non di cemento, sensibilmente più costose: si tratta, sostanzialmente, della manutenzione che viene tuttora svolta dalle draghe fluviali nella laguna veneta.

I vantaggi?
Le merci dell’intero bacino adriatico potrebbero giungere, con una sola tratta marittima/fluviale, a Riva del Garda (in provincia di Trento!): lì, potrebbero essere trasbordate su treno verso i mercati dell’Europa Centrale. I pomodori raccolti nel foggiano potrebbero giungere in 48 ore sui banchi dei supermercati di Francoforte, le arance siciliane in tre giorni.
Le merci in partenza da Milano non intaserebbero più le autostrade, bensì scenderebbero il Po e potrebbero proseguire per le destinazioni italiane, oppure essere trasbordate (in container) sulle grandi portacontainer oceaniche.
Molti porti minori – oggi usati solo per la pesca ed il diporto – avrebbero le caratteristiche per fornire scalo alle navi fluviali/marine che, contrariamente alle grandi portacontainer, necessitano di minor spazio e pescaggio.

Il trait d’union – laddove non esistono fiumi o canali navigabili – sarebbe la ferrovia, anch’essa economicamente ed energeticamente vantaggiosa rispetto alla strada. La programmazione europea considera la strada solo come il vettore finale – ovvero le tratte inferiori ai 50 Km – mentre in Italia si vuol costruire un ciclopico ponte per percorrere in autostrada la tratta Trapani – Milano (circa 1.500 Km) con il mezzo più costoso ed inquinante: l’autotreno.
Se i vantaggi ecologici della navigazione fluviale sono evidenti per il risparmio energetico, non dobbiamo sottovalutare un secondo aspetto: laddove i fiumi sono navigati si cura la manutenzione grazie ai fondi attivi creati dai pedaggi pagati per l’attraversamento delle chiuse, ecc. In questo modo, il fiume si trasforma da fogna a cielo aperto ad importante via di comunicazione, e grazie ai fondi reperiti è possibile curare la manutenzione dell’alveo, delle sponde, degli argini, delle acque, ecc.
Addirittura, i fiumi curati si trasformano in produttori d’energia: i russi – che possiedono una rete fluviale di ben 105.000 Km – ricavano ogni anno 50.000 MW d’energia dalle cadute d’acqua minori, il cosiddetto “piccolo idroelettrico”. La produzione d’energia dai fiumi, però, non può avvenire se non c’è un’assidua cura degli stessi, e torniamo da capo.
Spesso ci raccontano che l’incremento dei prezzi – in Italia – è dovuto alla cosiddetta “filiera” delle merci: più è lunga ed articolata, più aumentano i costi.
Il trasporto fluviale comporta una diminuzione d’almeno il 3% dei costi primari[6], ovvero energia e personale ma, soprattutto, riduce enormemente gli “attori” della “filiera”, razionalizzando la distribuzione delle merci. Se un misero 3% può sembrare poco, ricordiamo che gli aumenti contrattuali annui nel pubblico impiego non superano il 2,6%.

Tutto ciò non viene attuato per pura dimenticanza?
No, c’è dell’altro.
Nel 1999 venne privatizzata la Società Autostrade, che è attualmente quotata in Borsa fra i principali titoli, nel cosiddetto “MIB-30”. Come vanno gli affari per la società? Bene, anzi, benissimo: chiude i bilanci con ampio utile (223 milioni di euro nel 2003) e diminuisce costantemente il personale dell’1% annuo, grazie ai sistemi automatici di riscossione dei pedaggi. Ebbene, mentre il traffico leggero (autovetture) aumenta “solo” dell’ 1,7% annuo, il traffico merci (autocarri) fa un balzo del 3,6% annuo, ben superiore all’incremento del PIL[7]! Sicuramente da quelle parti non si sente mai parlare di canali, fiumi e ferrovie.
Il prossimo governo leggerà le indicazioni che – soltanto due anni or sono – un’allarmata Corte dei Conti cercava di presentare, oppure farà “orecchie da mercante” per non investire 100 milioni di euro l’anno e risolvere il 50% dei problemi di trasporto del Paese?
Tornare al fiume significherebbe risparmiare il 3% sui prezzi (più di un anno d’inflazione!), trasformare Milano, Casale Monferrato, Pavia, Pisa, Treviso ed altre città in porti fluviali. Vorrebbe dire dimezzare il traffico d’autotreni sui percorsi autostradali, risparmiare combustibili e smetterla con i TIR che devono correre oltre i limiti di legge per essere competitivi, mettendo a rischio la vita degli autisti e di noi tutti.
Le nazioni che navigano fiumi e canali hanno inoltre una considerevole attrattiva turistica: molti europei scelgono di trascorrere le vacanze noleggiando house boat o piccole barche, ammirando il paesaggio da una prospettiva nuova; senza rumore, traffico, ingorghi.

Mi piacerebbe vivere in un paese dove si curano fiumi e canali – per la navigazione commerciale e da diporto – e ritengo di non essere l’unico ad immaginare di tornare a dialogare con fratello fiume, come direbbe San Francesco.
Cosa manca? Un po’ d’intelligenza, di fantasia e la solita dose di buon senso. Già Cartesio affermava che “Il buon senso non è stato distribuito dal buon Dio a piene mani…” Buon vecchio René, se da lassù potessi far qualcosa…nell’attesa, possiamo farlo sapere noi a chi di dovere!

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Carlo Bertani   bertani137@libero.it   www.carlobertani.it

[1] Luddismo: movimento operaio inglese di rivolta contro l’introduzione delle macchine nell’industria, che ritenevano responsabili dell’aumento della disoccupazione (sec. XVIII – XIX).
[2] Fonte: APAT, Agenzia per la Protezione dell'Ambiente e per i servizi Tecnici. (L’APAT è un’agenzia alle dirette dipendenze del Governo).
[3] Fonte principale: Libro Bianco: La politica europea dei trasporti fino al 2010: il momento delle scelte.
[4] Fonte: Libro Bianco: La politica europea dei trasporti fino al 2010: il momento delle scelte.
[5] Fonte: Consorzio Navigare sul Po.
[6] L’aumento dei prezzi nel passaggio dalla produzione all’ingrosso è in Italia circa del 5%, mentre in Germania si ferma al 2%: questo è il segmento della “filiera” dove incide maggiormente il trasporto.
[7] Fonte: Relazione sul primo trimestre 2004 del gruppo autostrade (7 maggio 2004).

 
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