La battaglia per il petrolio iracheno
I loschi traffici delle corporazioni statunitensi a partire dalla Prima Guerra Mondiale
di Richard Becker tratto da Nexus nr.42 (gennaio-febbraio 2003)

Come e perché è iniziato l'interesse degli Stati Uniti per l'Irak? Un semplice e fondamentale quesito che, in tutte le innumerevoli ore che i media corporativi dedicano alla diffusione delle menzogne dell'amministrazione Bush e delle falsità sull'Irak, non è quasi mai stato posto. E per un valido motivo. Sin dal suo effettivo inizio, ottant'anni fa, la politica statunitense verso l'Irak si è sempre concentrata su di un unico obiettivo: assumere il controllo delle risorse petrolifere di quel paese.
L'intervento statunitense in Irak affonda le sue radici negli strascichi della Prima Guerra Mondiale, che fu una guerra fra imperi capitalistici. Da un lato gli imperi germanico, austroungarico ed ottomano (turco); dall'altro l'intesa imperiale britannico-franco-russa. Il Medio Oriente ricadeva in gran parte sotto il controllo ottomano.
I britannici, tramite il loro agente T.E. Lawrence -conosciuto come "Lawrence d'Arabia"- promisero ai leader arabi che se avessero combattuto a fianco della Gran Bretagna contro i dominatori turchi, al termine del conflitto essa avrebbe appoggiato la creazione di uno stato arabo indipendente. 
Nel contempo i ministri degli esteri britannico, francese e russo stavano stipulando in segreto l'accordo Sykes-Picot, che ridisegnava il Medio Oriente e che venne reso pubblico dopo la Rivoluzione Russa del 1917 dal Partito Bolscevico, che lo denunciò in quanto imperialista.
Quando le popolazioni arabe e curde scoprirono il tradimento perpetrato dalle "democrazie" imperiali, in tutto il Medio Oriente scoppiarono rivolte di massa. Le ribellioni poi continuarono durante tutto il periodo coloniale. La pressione fu brutale sino all'estremo. Nel 1925, ad esempio, i britannici sganciarono gas velenosi sulla città curda di Sulaimaniya in Irak -fu la prima volta che del gas veniva lanciato da aerei da guerra-.

Francia e Gran Bretagna si spartiscono il Medio Oriente.
Dopo il 1918, a guerra finita, Francia e Gran Bretagna procedettero con il loro piani. Il Libano e la Siria, secondo gli accordi, sarebbero stati annessi all'impero francese; la Palestina, la Giordania e le due province meridionali dell'Irak -Baghdad e Basra- sarebbero entrate a far parte dell'esteso impero britannico.
Non si accordarono invece su chi si sarebbe impossessato della provincia di Mosul, l'area settentrionale dell'Irak odierno che, secondo l'accordo Sykes-Picot, doveva far parte della "sfera d'influenza" francese. I britannici, tuttavia, erano determinati ad aggiungere Mosul, la cui popolazione era in massima parte curda, alla loro nuova colonia irachena. A sostegno delle proprie rivendicazioni, l'esercito britannico occupò Mosul quattro giorni dopo  la resa turca, nell'ottobre 1918 -e non se ne andò più-.
La risoluzione della contesa inter-imperialista tra Francia e Gran Bretagna per Mosul determinò l'inizio del ruolo statunitense in Irak.
L'importanza di Mosul per le grandi potenze si basava sulle note, benché all'epoca ben poco sfruttate, risorse petrolifere. Gli Stati Uniti erano entrati in guerra a fianco di Francia e Gran Bretagna nel 1917, dopo che i loro alleati e nemici si erano in gran parte sfiancati; le condizioni degli Stati Uniti per entrare in guerra comprendevano la richiesta che, nel panorama mondiale postbellico, venissero tenuti in considerazione i loro obiettivi politici ed economici, fra cui vi era l'accesso a nuove fonti di materie prime, in particolare il petrolio.
Nel febbraio del 1919 Sir Arthur Hirtzel, ufficiale coloniale britannico di grado elevato, ammonì i cuoi soci: "Bisognerebbe tenere presente che la Standard Oil Company è assai ansiosa di acquisire il controllo dell'Irak" (Citato in Britain in Iraq, 1914-32, di Peter Sluglett, Londra 1974)
Di fronte alla dominazione franco-britannica della regione, gli Stati Uniti inizialmente richiesero una politica di "Porte Aperte", di modo che alle società petrolifere statunitensi fosse consentito di trattare liberamente con la nuova monarchia fantoccio di Re Faisal, che i britannici avevano installato sul trono dell'Irak.
La soluzione alla contesa degli alleati vittoriosi riguardo all'Irak fu la spartizione del petrolio di quel paese; i britannici mantennero Mosul come parte della loro nuova colonia irachena.

Nemmeno una goccia per l'Irak
Il petrolio iracheno venne spartito in cinque quote: un 23,75 per cento a testa a Gran Bretagna, Francia, Olanda e Stati Uniti; il restante cinque per cento destinato ad un magnate del petrolio, tale Caloste Gubenkian, noto con soprannome di "Mister Cinque Percento", che contribuì a negoziare l'accordo.
All'Irak apparteneva esattamente lo zero per cento del petrolio iracheno. Le cose sarebbero rimaste così sino alla rivoluzione del 1958.
Nel 1927 si diede l'avvio a importanti esplorazioni petrolifere e nella provincia di Mosul furono scoperti enormi giacimenti. Due anni dopo fu costituita la Iraqi Petroleum Company - composta da anglo-iraniani (oggi British Petroleum), Shell, Mobil e Standard Oil of New Jersey (Exxon)- che, nel giro di pochi anni, avrebbe completamente monopolizzato la produzione petrolifere irachena.
Nello stesso periodo la famiglia al-Saud, appoggiata dagli Stati Uniti, conquistò gran parte della vicina penisola arabica. L'Arabia Saudita nacque negli anni '30 come neocolonia degli Stati Uniti. L'ambasciata statunitense a Riad, capitale dell'Arabia Saudita, aveva sede nell'edificio della Aramco (Arab American Oil Company).
Però le società petrolifere statunitensi ed il loro governo di Washington non erano soddisfatte; volevano il controllo totale del petrolio mediorientale, così come avevano il quasi-monopolio delle riserve petrolifere dell'emisfero occidentale. Ciò significava soppiantare i britannici che, in quella regione, facevano ancora la parte del leone.

Gli Stati Uniti mirano agli interessi britannici.
Per gli Stati Uniti l'opportunità derivò dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Anche se Stati Uniti e Gran Bretagna vengono generalmente raffigurati come i più stretti alleati in tempo di guerra, di fatto erano allo stesso tempo in feroce contrasto. 
La guerra indebolì assi l'impero britannico, sia sul territorio nazionale che all'estero, con la perdita delle importanti colonie in Asia. Nelle prima fasi del conflitto, fra il 1939 ed il 1942, non si sapeva nemmeno se la Gran Bretagna sarebbe sopravvissuta; non avrebbe mai più recuperato la sua antica posizione di dominio.
Gli Stati Uniti, d'altronde, divennero sempre più potenti nel corso del conflitto -prima di entrare nel quale i capoccioni di Washington avevano atteso ancora una volta il momento più opportuno-. Nelle ultime fasi della Seconda Guerra Mondiale, le amministrazioni Truman e Roosevelt, dominate dai forti interessi di colossi bancari, petroliferi e di altro tipo, erano determinate a ristrutturare il mondo postbellico onde assicurare la posizione predominante agli Stati Uniti. Gli elementi chiave della loro strategia furono:
1) Superiorità militare negli armamenti convenzionali e nucleari;
2) Globalizzazione corporativa dominata dagli Stati Uniti, da conseguirsi tramite il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, creati nel 1944, e affermazione del dollaro come valuta mondiale;
3) Controllo delle risorse globali, in particolare il petrolio.
Mentre sui campi di battaglia infuriava la guerra, dietro le quinte tra Stati Uniti e Gran Bretagna si dipanava una contesa per il controllo economico globale, contesa che fu talmente aspra che il 4 marzo del 1944 -tre mesi prima del D-Day, giorno dello sbarco in Normandia- il primo ministro britannico Wiston Churchill inviò al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt un messaggio alquanto insolito per il contenuto imperialista ed il tono ostile:
"Grazie infinite per le sue assicurazioni sull'assenza di occhi di triglia [guardare con invidia -RB] verso i nostri giacimenti petroliferi in Iran ed in Irak. Lasci che io ricambi garantendole che noi non abbiamo la minima intenzione di intrometterci nei vostri interessi o proprietà in Arabia Saudita. A questo riguardo, così come per tutto il resto, la mia posizione è che da questa guerra la Gran Bretagna non ricerca alcun beneficio territoriale o di altro genere; essa, d'altra parte, non verrà privata di alcunché le appartiene di diritto dopo aver contribuito nel migliore dei modi alla giusta causa, quantomeno non fino a quando il vostro umile servitore avrà l'incarico di occuparsi dei suoi affari" (Citato in The Politics of War, di Gabriel Kolko, NY 1968)
Quello che questa nota evidenzia con chiarezza è che i leader statunitensi erano così risoluti ad acquisire il controllo su Iran e Irak che avevano fatto suonare il campanello d'allarme presso le élite di comando britanniche.
Nonostante il discorso minaccioso di Churchill, non c'era nulla che i britannici potessero fare per contenere la potenza in ascesa degli Stati Uniti; nell'arco di pochi anni, la classe dirigente britannica si sarebbe adattata alla nuova realtà ed avrebbe accettato il ruolo di socio di minoranza di Washington.

L'espansione del ruolo statunitense dopo la Secondo Guerra Mondiale.
Nel 1953, dopo che la CIA con un colpo di stato aveva messo sul trono lo Scià, gli Stati Uniti assunsero il controllo dell'Iran. Alla metà degli anni '50, l'Irak era sotto controllo congiunto di Stati Uniti e Gran Bretagna.
Nel 1955 Washington, assieme alla Gran Bretagna, istituì il Patto di Baghdad, che comprendeva i suoi regimi satelliti in Pakistan, Iran, Turchia ed Irak; Il Baghdad Pact, o CENTO -Central Treaty Organitation- aveva un duplice scopo.
Da una parte contrastare l'ascesa degli arabi e di altri movimenti di liberazione in Medio Oriente e nel sud-est asiatico; dall'altra rappresentare l'ennesima di una serie di alleanze militari -le altre erano NATO, SEATO ed ANZUS- che accerchiassero il campo socialista di Unione Sovietica, Cina, Europa Orientale, Corea del Nord e Vietnam del Nord.
L'Irak, il cuore del CENTO, era indipendente solo nominalmente; i britannici vi mantenevano basi dell'aeronautica militare. Anche se il paese era estremamente ricco di petrolio, ospitando il 10% delle riserve mondiali, tuttavia contava una popolazione che viveva in condizioni di fame e di miseria; il tasso di analfabetismo era dell'80%, c'era un solo medico ogni 6000 abitanti ed un dentista ogni 500.000.
L'Irak era governato dalla monarchia corrotta di Faisal II e da una consorteria di proprietari terrieri feudali e mercanti capitalisti.
Alla base della povertà dell'Irak, vi era il semplice fatto che l'Irak stesso non disponeva dei suoi vasti giacimenti petroliferi.

La rivoluzione irachena.
Il 14 luglio del 1958, l'Irak venne scosso da un'energica esplosione sociale. Una rivolta militare si trasformò in una rivoluzione nazionale, ed il re e la sua amministrazione, oggetto della giustizia popolare, furono di colpo scalzati.
Washington e Wall Street erano sbalordite. Nella settimana che seguì il New York Times, il "quotidiano ufficiale" degli Stati Uniti, sulle sue prime 10 pagine non riportava altre notizie che quelle relative alla rivoluzione irachena. Mentre oggi si ricorda meglio un'altra grande rivoluzione che sarebbe avvenuta appena sei mesi dopo a Cuba, all'epoca Washington considerava l'insurrezione irachena assai più pericolosa per i propri interessi vitali.
Il presidente Dwight D. Eisenhower la definì "la più grave crisi dai tempi della Guerra in Corea". Il giorno successivo alla rivoluzione irachena, 20.000 marine iniziarono a sbarcare in Libano; il giorno dopo, 6600 paracadutisti britannici furono paracadutati in Giordania.
Questa è quella che divenne poi nota coma la "Dottrina Eisenhower". Gli Stati Uniti sarebbero intervenuti direttamente -entrati in guerra- per impedire la diffusione della rivoluzione nel vitale Medio Oriente.
I corpi di spedizione britannici e statunitensi intervennero per salvaguardare i governi neo-coloniali di Libano e Giordania; se non l'avessero fatto, l'impulso popolare proveniente dall'Irak avrebbe sicuramente abbattuto i corrotti regimi dipendenti di Beirut ed Amman.
Però Eisenhower, i suoi generali ed il suo arci-imperialista segretario di stato John Foster Dulles avevano anche ben altro in mente: invadere l'Irak, rovesciare la rivoluzione ed insediare un nuovo governo fantoccio a Baghdad.
Tre fattori indussero Washington ad abbandonare il progetto nel 1958; il carattere travolgente della rivoluzione irachena; l'annuncio della Repubblica Araba Unita, confinante con l'Irak, in base al quale, nel caso gli statunitensi avessero cercato di invadere, le sue forze avrebbero combattuto contro le forze imperialiste; e l'energico sostegno della Repubblica Popolare Cinese e dell'Unione Sovietica alla rivoluzione. Quest'ultima avviò una mobilitazione di truppe nelle repubbliche sovietiche meridionali vicine all'Irak.
La combinazione di questi fattori costrinse i leader statunitensi ad accettare la rivoluzione irachena come fatto compiuto; Washington però in realtà non si rassegnò mai alla perdita dell'Irak.
Nei tre decenni successivi, il governo statunitense adoperò numerose tattiche per indebolire e scalzare l'Irak in quanto stato indipendente. In varie occasioni -come successe dopo che l'Irak nel 1972 portò a termine la nazionalizzazione della Iraqi Petroleum Company e stipulò con l'Unione Sovietica un trattato di difesa- gli Stati Uniti fornirono massicci aiuti militari agli elementi curdi di destra che combattevano Baghdad ed aggiunsero l'Irak alla loro lista degli "stati terroristi".
Gli Stati Uniti appoggiarono gli elementi più reazionari all'interno della struttura post-rivoluzionaria contro le forze comuniste e nazionaliste di sinistra e, ad esempio, alla fine degli anni '70 plaudirono alla soppressione del Partito Comunista Iracheno e dei sindacati di sinistra da parte del governo del partito Ba'ath di Saddam Hussein.
Negli anno '80, gli Stati Uniti incoraggiarono e contribuirono a finanziare ed armare l'Irak nella sua guerra contro l'Iran, nazione in cui la Rivoluzione Islamica del 1979 pose fine alla dominazione statunitense; in realtà lo scopo degli Stati Uniti era quello di indebolire e distruggere entrambi quei paesi. L'ex Segretario di Stato Henry Kissinger rivelò il vero atteggiamento statunitense riguardo alla guerra quando affermò: "Spero che si ammazzino gli uni con gli altri".
Il Pentagono fornì all'aviazione militare irachena fotografie satellitari degli obiettivi militari iraniani, mentre nello stesso tempo lo scandalo Iran-Contra svelò che gli Stati Uniti stavano inviando all'Iran missili antiaerei. La guerra Iran-Irak fu un disastro, costò la vita a milioni di persone e indebolì entrambi i paesi.

Il collasso dell'unione sovietica e la guerra del golfo
Quando infine nel 1988 la guerra Iran-Irak terminò, le vicende in atto in Unione Sovietica stavano costituendo un nuovo e più grave pericolo per l'Irak, che aveva stipulato con quest'ultima un trattato di collaborazione militare e di amicizia. La leadership di Gorbaciov, nell'ottica di una "distensione permanente" con gli Stati Uniti, iniziò a tagliare i fondi destinati ai suoi alleati dei paesi in via di sviluppo. Nel 1989, Gorbaciov si spinse ancora più in là e ritirò l'appoggio ai governi socialisti dell'Europa Orientale, i quali in gran parte crollarono. Questo brusco cambiamento nei rapporti di potere a livello mondiale -che culminò due anni più tardi con la fine della stessa Unione Sovietica- costituì la più grande vittoria dell'imperialismo statunitense sin dalla Seconda Guerra Mondiale. Inoltre spianò la via alla guerra statunitense del 1991 contro l'Irak e a più di un decennio di sanzioni, blocchi e bombardamenti che hanno devastato l'Irak e la sua popolazione.
Oggi l'amministrazione Bush, adducendo come argomento "armi di distruzione di massa" e "diritti umani", sta cercando di guadagnarsi il sostegno dell'opinione pubblica ad una nuova guerra contro l'Irak. In realtà a Washington non interessano né una ridotta capacità militare dell'Irak né i diritti umani di qualsiasi angolo della mondo; quello che nel 2002 spinge la politica statunitense in direzione dell'Irak è lo stesso obiettivo che motivò Washington e Wall Street 80 anni fa: il petrolio!

Tratto da Nexus ed. italiana nr. 42 (gennaio-febbraio 2003)

 
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