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La guerra degli OGM sbarca a Cancun
di Sabina Morandi, tratto da «L’insostenibile» numero 0 giugno 2003

Dopo essere a tenere buone le corporation dell’agribusiness durante l’attacco all’Iraq, Bush annuncia l’intenzione di denunciare l’Europa al WTO perché venga duramente sanzionata la scelta ogm-free. Washington, che è appena stata a sua volta condannata a una sanzione record di 4 miliardi di dollari per l’allegra politica fiscale a beneficio delle proprie corporation, è partita all’attacco della moratoria europea sugli organismo geneticamente modificati. Naturalmente non è affatto detto che l’intervento del WTO serva a convincere gli europei ad aprire i propri mercati alla soia e al mais geneticamente modificati. Le sanzioni non sono bastate, ad esempio, per convincere gli europei della bontà della carne agli ormoni che, infatti, continua ad essere bandita, ma certamente ha impedito che la pericolosa abitudine di difendere i propri standard ambientali e sanitari si allargasse al mondo intero, cosa che sta avvenendo con gli ogm. Come ha dichiarato Robert Zoellick, il potente addetto al commercio statunitense: «Non si tratta soltanto dell’Europa ma di un problema globale, ed è proprio la combinazione di questi effetti globali che ci spinge ad agire. La nostra pazienza è giunta al termine». 
Effettivamente sono già una dozzina i paesi che hanno seguito l’esempio europeo, arginando la commercializzazione degli ogm con qualche genere di restrizione, e Giappone e Cina sono fra questi. Perfino paesi poveri come Zambia e Zimbawe, anche se erano nel bel mezzo di una carestia, l’estate scorsa hanno rifiutato 100 mila tonnellate di mais statunitense per la paura di ritrovarsi in mezzo semi geneticamente modificati – gli USA infatti non separano i raccolti naturali da quelli biotech – ritrovarsi la filiera contaminata, cosa che li avrebbe tagliati fuori dal mercato europeo.

Nemmeno l’etichetta
Il problema è che i consumatori restano diffidenti. Secondo uno studio condotto dall’Eurobarometro della Commissione europea in 15 paesi, i cittadini distinguono perfettamente fra applicazioni biotecnologiche: accettano quelle biomediche e farmaceutiche ma continuano a rifiutare quelle alimentari. Il 70 per cento dei consumatori ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di consumare cibo contenente ogm, che non comprerebbe nemmeno se fosse meno caro. Secondo l’American Bureau Federation, la più grande organizzazione agricola degli Stati Uniti, la diffidenza europea costa agli agricoltori USA circa 300 milioni di dollari l’anno. Questo perché l’80 per cento della soia e circa un terzo del mais prodotti nel paese sono stati geneticamente modificati per resistere agli erbicidi e ai parassiti e, dietro consiglio delle grandi corporation come Monsanto e DuPont, le coltivazioni sono state mescolate a quelle naturali. Soltanto il grano è ancora ogm-free, e infatti quest’ultima produzione, concentrata prevalentemente nel Nord Dakota, non ha registrato ripercussioni negative.
La diffidenza dei consumatori spinge i governi europei ad andarci piano anche se, ovviamente, l’agrobusiness fa sentire la sua voce anche a Bruxelles. Di fatto l’Unione europea sarebbe dispostissima a fare concessioni – cosa che alle organizzazioni ambientaliste e ad alcuni paesi che difendono i prodotti tipici, fra cui l’Italia, non va affatto bene – e sta alacremente lavorando alla stesura di una normativa mirata proprio al superamento della moratoria. Secondo le nuove disposizioni, i prodotti contenenti ogm dovrebbero venire etichettati per consentire ai consumatori di scegliere. Lo scontro con gli ambientalisti verte sulla possibilità di fissare un valore soglia quando l’attuale tecnologia non consente verifiche attendibili, ma gli americani il compromesso non basta. «Il progetto di etichettare gli alimenti biotech è semplicemente un’altra barriera commerciale, forse peggiore della moratoria» ha dichiarato Mary Grocery Manufactures of America, e “barriera commerciale” è una bestemmia nella religione del WTO.
Certamente separare le coltivazioni aumenterebbe in modo significativo i costi di produzione per non parlare del fatto che segnalare ai consumatori tutte le sostanze – chimiche o biotech – che farciscono i prodotti alimentari non è certo una gran bella pubblicità. Ma l’incapacità di rispettare delle norme di etichettatura, che stanno venendo adottate da molti paesi, rischia di tagliare fuori i produttori statunitensi da mercati importanti come il Giappone, la Thailandia e il Brasile.

Il resto del mondo
Non c’è niente da fare: gli ogm non vanno giù a nessuno. Il marketing aggressivo degli anni passati sta presentando un conto salatissimo. Mentre perfino negli Stati Uniti cresce il disagio dei consumatori, l’enorme mercato asiatico rischia di chiudere le porte ai prodotti USA.
«I consumatori giapponesi non vogliono prodotti contenenti ingredienti geneticamente modificati» ha dichiarato Yoichi Takemoto, funzionario della All Nippon Kashi Association, un grande gruppo agro-industriale. La notizia non fa che confermare uno studio condotto l’anno scorso dalla Iowa State University, da cui risultava che non solo i giapponesi ma anche i cinesi e i sud-coreani non avevano alcuna intenzione di aprire le porte al cibo biotech. Le cose non vanno meglio in Thailandia, che ha recentemente approvato una legge sull’etichettatura simile a quella australiana.
Dall’altra parte del mondo le cosa vanno ancora peggio per Monsanto e compagnia. In Brasile il ricco mercato del pollame si è praticamente dissolto perché i produttori statunitensi impiegano semi geneticamente modificati negli allevamenti. E visto che gli allevatori di polli brasiliani esportano almeno un quarto dei loro prodotti in Europa, non hanno alcuna intenzione di vedersi confusi con i vicini, o di ritrovarsi il loro prodotto contaminato “accidentalmente”.
Non si tratta qui di decidere se gli ogm fanno male o meno alla salute, quanto del diritto dei consumatori di evitare prodotti che non sono stati sufficientemente testati per ammissione degli stessi organismi di controllo statunitensi come la Food and Drug Administration dove, appena l’anno scorso, scoppiò lo scandalo delle autorizzazioni facili. Quando vennero alla luce le forti pressioni che la lobby biotech aveva fatto per velocizzare le autorizzazioni senza avere adeguatamente testato i prodotti, i consumatori statunitensi cominciarono a sentirsi meno sicuri. E adesso i raccolti made in USA rischiano di rimanere invenduti.

 
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