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Miseria umana della pubblicità: Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo
A cura del Gruppo MARCUSE, Elèuthera, 144 pp., € 12,00
Link originale http://www.informationguerrilla.org/miseria-umana-della-pubblicita-il-nostro-stile-di-vita-sta-uccidendo-il-mondo

Il sistema pubblicitario nella società industriale
La pubblicità, arma del marketing, è l’arte di vendere qualsiasi cosa a chiunque e con qualsiasi mezzo. Per la precisione, è il marketing nella sua dimensione comunicazionale. Passando attraverso la scappatoia dei media, essa costituisce l’archetipo della «comunicazione». La critica alla pubblicità si estende quindi alla critica contro il marketing e contro la comunicazione: questi tre flagelli compongono insieme il sistema pubblicitario. Ma questo sistema è stato generato dal capitalismo industriale, che finanzia i media di massa di cui orienta il contenuto. Il problema perciò non si riduce all’abbrutimento pubblicitario, include anche la disinformazione mediatica e la devastazione industriale. Non bisogna illudersi: la pubblicità è solo la punta dell’iceberg del sistema pubblicitario, ovvero di quell’oceano glaciale nel quale si sviluppa ed espande la società consumista con la sua crescita devastante. E se siamo contro tale sistema e tale società, è perché il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo.

L’effetto principale della pubblicità è la propagazione del consumismo. Basato sull’iperconsumo, questo stile di vita riposa sul produttivismo, e dunque implica lo sfruttamento crescente delle persone e delle risorse naturali. Tutto ciò che consumiamo comporta meno risorse e più scarti, più nocività e più lavoro depauperante. Il consumismo porta così alla devastazione del mondo, alla sua trasformazione in deserto materiale e spirituale: un ambiente dove sarà sempre più difficile vivere e sopravvivere in modo umano. In questo deserto prospera la miseria fisica e psichica, sociale e morale. Gli immaginari tendono ad atrofizzarsi, le relazioni sono disumanizzate, la solidarietà si decompone, le competenze personali diminuiscono, l’autonomia sparisce, i corpi e le menti vengono standardizzati.

La miseria umana della pubblicità è, dunque, sia questa vita impoverita che esalta una pubblicità onnipresente, sia la miseria degli ambienti pubblicitari stessi, che illustrano in modo caricaturale l’impoverimento morale di cui soffre la società mercantile. Per questo motivo citeremo abbondantemente i discorsi di vari pubblicitari. Il cinismo - di cui alcuni menano vanto - fa parte a tal punto del loro «folclore professionale» che, ad esempio, nessuno osa contestare la descrizione romanzesca che ne fa Frédéric Beigbeder. Secondo François Biehler, pubblicitario sempre in servizio, essa è «rigorosamente esatta». Come può giustificare la sua professione, allora?

«La pubblicità serve anche a rilanciare i consumi». I pubblicitari stessi non negano che ciò implica una buona parte di manipolazione. E cosa significa manipolare qualcuno, se non fargli fare qualcosa che non avrebbe mai fatto spontaneamente, come rinnovare inutilmente merce futile e nociva? Come diceva Machiavelli, il fine giustifica i mezzi. Biehler deve quindi ritenere tollerabile questa manipolazione, in quanto si compie in nome di un fine eminentemente consensuale: «Rilanciare i consumi e far funzionare l’economia, il che, a priori, non è condannabile».

Ecco che si tocca l’assioma che viene sotteso nella schiacciante maggioranza dei discorsi sulla pubblicità: è bene, anzi necessario, stimolare la Crescita , questa Vacca Sacra invocata in coro da tutti i politici, questo Messia del quale si acclama il ritorno. Se si accetta il dogma fondante dell’economicismo, pregiudizio che quasi nessuno contesta malgrado i suoi effetti disastrosi sulle nostre vite, allora la pubblicità è effettivamente indispensabile, tanto che diventa difficile metterla in discussione. Se invece la volontà di produrre si giustifica con il fatto che ne dipende la sopravvivenza materiale, in società come le nostre, dove regnano spreco e sovrapproduzione, si tratta di un presupposto irragionevole, irresponsabile e pericoloso. Dobbiamo inziare a renderci conto che la crescita, divenuta fine a se stessa, invece di corrispondere ai nostri bisogni è prima di tutto crescita di nocività e di diseguaglianza.

La pubblicità è indissolubilmente legata alla devastazione del mondo, di cui è uno dei motori. Essa vi contribuisce doppiamente: spingendo l’iperconsumo di merce industriale, favorisce lo sviluppo di un’economia devastatrice; e dissimulandone le conseguenze, frena una presa di coscienza ogni giorno più urgente se si vuole evitare il peggio. Essa deve dunque essere oggetto di una critica radicale, cioè di un’analisi che risalga fino alle sue radici. Solo coloro che identificano saggezza e acquiescenza, spirito critico e consenso mediatico, possono accontentarsi della denuncia dei suoi eccessi più flagranti.
Ma soltanto risalendo alle radici si potrà comprendere la ragione dei suoi abusi così ordinari, in particolare dell’estrema violenza che fa subire alle donne. Ma nessuno ne esce indenne, come mostrerà questo manifesto contro la pubblicità e contro «la vita che vi si rispecchia».

Capitolo 6 - LE RELAZIONI PERICOLOSE
La storia insegna che ciò che può spezzare vecchie catene spesso forgia nuove schiavitù. L’industria avrebbe potuto risparmiarci i lavori più penosi, ma di fatto ci ha asservito a un lavoro senza tregua. La pubblicità ha giocato un ruolo di catalizzatore in questo ribaltamento: inoculandoci l’incessante voglia di consumare, ci ha trasformati in servi di quella macchina che si supponeva fosse al nostro servizio. Al tempo stesso, tuttavia, essa non ha fatto altro che rivelare, aggravandoli, i pericoli inerenti a questo modo di produzione.
La propaganda industriale non poteva limitarsi alle merci classiche e rispettare l’indipendenza di quelle tre sfere fondamentali e vitali che simboleggiano ciò che di positivo si è inventata la modernità: il giornalismo, la democrazia e la medicina. Non meraviglia che essa ne abbia pervertito pericolosamente le logiche interne allorché è riuscita a metterle al servizio dell’accumulazione del capitale. Grazie alla sua azione, i media sono diventati macchine per far spendere, invece di diffondere il libero pensiero. Con l’avvento del mondo della comunicazione, essa ha spoliticizzato la politica e svuotato la democrazia della sua sostanza. Infine, impadronendosi della farmacopea, ha trasformato la medicina in sistema patogeno. Ma la pubblicità non avrebbe potuto fare il suo abituale lavoro di becchino se tali istituzioni non avessero già mostrato delle falle: di fatto, essa ha semplicemente catalizzato le insufficienze di cui soffrono gli ambiti che essa travolge con tanta facilità.

L’indipendenza illusoria dei media
Prima della metà del XIX secolo, i giornali venivano finanziati dai loro lettori e redattori, in quanto non si trattava di ricavarne un profitto, ma di formare un contropotere di fronte all’onnipotenza monarchica. Nel 1836 Émile de Girardin inaugura la pratica che fonda la stampa di massa moderna: introduce degli annunci a pagamento alla fine del giornale allo scopo di diminuirne il prezzo di vendita, quindi di accedere a un numero più ampio di lettori, quindi di attrarre più pubblicità e così via. Questa pratica si è generalizzata e oggi la maggior parte dei giornali dipende per il 50% dalla pubblicità, mentre alcuni vivono esclusivamente di pubblicità, come quei giornali «gratuiti» la cui funzione è esclusivamente di diffonderla presso un pubblico più vasto.

Ovviamente, i pubblicitari si felicitano per questa «associazione a scopo di lucro» in cui la pubblicità è il «partner dominante », in grado di «imporre il proprio linguaggio» e «parassitizzare» lo spazio dei giornali, ormai ridotti al ruolo di supporti pubblicitari. La simbiosi è ancora più marcata nelle riviste, trasformate in negozi virtuali che permettono di fare lo shopping restando seduti; appare incontenibile nelle riviste aziendali distribuite alla clientela (da parte di società ferroviarie, linee aeree, ecc.); e diventa infine caricaturale nei magalogues, espressione di Naomi Klein derivata dalla fusione dei termini magazine (rivista) e catalogue (catalogo), cui la scrittrice ricorre per definire quelle «fanzines» con cui le grandi marche americane vendono i loro «stili di vita» ai propri «fan». Nel 2004 Leroy Merlin fa uscire il suo Du côté de chez vous, abbinato all’omonimo programma televisivo su TF1. È l’apoteosi di una sinergia industrial-mediatica particolarmente pericolosa per quanto riguarda l’informazione.

La convergenza tra pubblicità e informazione è avvenuta mediante un doppio movimento. Da un lato, i pubblicitari mantengono la confusione dei generi imitando lo stile e l’impostazione degli articoli giornalistici. Per lottare contro tale pubblicità clandestina (stretto equivalente della propaganda nera che opera falsificando le fonti), la legge ha imposto che le pubblicità vengano presentate come tali; tuttavia esse continuano a camuffarsi nella forma di «dossier pubblicitari», di «supplementi omaggio», di «tavole rotonde», ecc.
Ma se la pubblicità scimmiotta l’informazione, l’informazione non si tira certo indietro. Alcuni sedicenti «giornalisti» accettano bustarelle per moltiplicare nei loro articoli i riferimenti a quelle marche che vogliono accrescere la propria notorietà; altri praticano il «reportage pubblicitario» o il «giornalismo promozionale»: ibridi linguistici che oscurano la frontiera tra gli spazi promozionali e quelli redazionali. Il giornalismo diviene così un business come tutti gli altri, tanto che alcune redazioni si rivolgono ai consulenti di marketing per determinare le aspettative dei «consumatori d’informazione».

Inevitabilmente la politica viene considerata come meno fondamentale rispetto alle inchieste sul consumo e su altri «temi sociali» trasversali. Siamo entrati nell’era dell’infotainment, l’info-divertimento: l’informazione deve divertire (in inglese entertainment) piuttosto che istruire. Queste tendenze sono particolarmente marcate nella televisione.
Tramite la mediazione dei consulenti pubblicitari, gli inserzionisti organizzano, almeno in parte, i palinsesti della programmazione: più una trasmissione è seguita, più attira pubblicità e quindi denaro; viceversa, le trasmissioni meno adescatrici vengono relegate a orari impossibili. Gli inserzionisti influenzano anche i contenuti, rifiutando che i loro spot siano abbinati a trasmissioni che suscitano emozioni negative, nel timore che queste ultime facciano impallidire i loro prodotti.

Quanto alla carta stampata, gli inserzionisti impongono che gli annunci non siano inseriti in contesti che contengano critiche dirette alla marca o a ciò che le viene associato: il Paese d’origine, quello di produzione, ecc. La pubblicità rafforza così il monopolio di fatto che tende ad avere sull’«informazione» in materia di prodotti. In questo caso i protagonisti sono i consulenti pubblicitari (cinghie di trasmissione tra padronato e redazioni) e, ancor più, le agenzie di vendita di spazi pubblicitari. Grazie ai «piani mediatici» (con i quali determinano i veicoli pubblicitari appropriati per raggiungere l’obiettivo prefissato, organizzando poi il bombardamento), sono infatti loro che possono influenzare e ricattare le redazioni, minacciando di tagliare i viveri. Il loro potere di pressione è ancora più elevato per il fatto che questo settore è estremamente concentrato: in Francia cinque agenzie centrali hanno «il controllo di quattro quinti del volume totale». Poiché la pluralità degli inserzionisti, ritenuta garante della libertà di stampa, è un aspetto in effetti secondario e illusorio, l’argomento classico in favore della pubblicità dev’essere rimesso in discussione.

Fieri di ricevere finanziamenti per la loro missione, che è quella di analizzare e criticare in piena autonomia, certi giornalisti rivendicano il legame che li collega alle grandi imprese. «La pubblicità, strombazza il direttore di ‘Le Monde’, è garante dell’indipendenza del giornale». Precisiamolo: di fronte ai poteri politici. Ma tale finanziamento comporta un’altra dipendenza: quella dalle potenze economiche. E se parrebbe logico, nel caso di un giornale finanziato dallo Stato, che il giornalista si trattenesse dallo sputare nel piatto in cui mangia, perché le cose dovrebbero andare diversamente quando il piatto lo fornisce il capitale?
Circa mezzo secolo fa, il fondatore di «Le Monde» faceva questa dichiarazione: «Mi sembra pericoloso che la vita del giornale sia assicurata per una porzione eccessiva dalla pubblicità, perché ciò lo pone alla mercé di un ricatto». Il finanziamento da parte dei soli lettori è infatti l’unica garanzia di una completa indipendenza redazionale. È appunto per questa ragione che un giornale come «Le Canard enchaîné» rifiuta la manna pubblicitaria; non meraviglia dunque che sia il solo giornale che informa il pubblico sull’influenza nociva di quest’ultima all’interno dei media.

La giornalista Florence Amalou spiega bene come la pubblicità possa diventare un mezzo di pressione, o meglio di repressione, nelle mani degli inserzionisti intenzionati a influenzare una linea editoriale: rappresaglie pubblicitarie (campagne annullate in seguito ad articoli troppo critici), boicottaggio dei nuovi titoli che si smarcano dal «pensiero unico» al servizio del padronato, giornalisti licenziati o messi alle corde dalle agenzie pubblicitarie, «limatura» o mutilazione dei loro articoli, che possono anche essere corretti o direttamente cestinati. Altre tecniche sono più dolci e sornione: richiami di tipo amicale, intimidazioni, connivenze, relazioni privilegiate con i vertici. Insieme al bastone, quelli che vogliono crearsi un «terreno mediatico favorevole » sanno anche agitare la carota della «lubrificazione pubblicitaria»; una volta interiorizzate, queste pressioni portano a un’autocensura che gli stessi giornalisti non negano.

Ovviamente queste pratiche sono possibili solo da parte dei grandi inserzionisti, cosa che mette fortemente in discussione l’affidabilità dell’informazione che li concerne. E quanto più la stampa permane in una posizione di fragilità finanziaria, tanto più la pubblicità può comprarne il silenzio e la compiacenza. Più un inserzionista fa pubblicità, più le redazioni gli accordano un trattamento di favore. Così, Jean-Marie Messier, l’ex monarca di Vivendi Universal, è stato servilmente corteggiato dai media quando era al culmine della sua breve carriera: prime pagine, interviste all’«uomo dell’avvenire» e ritratti elogiativi si sono moltiplicati nel periodo in cui era uno dei principali inserzionisti in Francia.
La dipendenza della maggior parte dei giornali nei confronti degli inserzionisti è ancora più problematica per il fatto che sono le marche, e non i politici, a essere oggi giuridicamente intoccabili. Le grandi imprese sono infatti le potenze politiche più nocive in assoluto, nel senso che sono loro a trasformare il mondo. Le decisioni che modificano o rischiano di modificare in profondità la vita quotidiana (OGM, nanotecnologie, flessibilità, ecc.) non vengono prese in seno ad assemblee nazionali, ma a monte, vale a dire nei consigli di amministrazione e nei laboratori tecnico-scientifici; le istanze politiche tradizionali avranno tutt’al più il compito di far ingoiare la pillola.

Beninteso, ci sono notevoli differenze tra i media e perciò diversi gradi di vassallaggio, ma guardiamoci bene dal credere che la pubblicità sopraggiunga a pervertirli dall’esterno. L’interconnessione è totale: i media hanno bisogno della manna pubblicitaria, quest’ultima ha bisogno del canale mediatico per rivolgersi alle masse. Ma soprattutto c’è una profonda analogia nel loro modo, pur problematico, di trasmettere i propri messaggi a masse di destinatari anonimi e atomizzati. E in effetti, più siamo connessi ai media in modo verticale e impersonale, meno siamo legati tra noi in modo orizzontale e personale. Un’atomizzazione che accresce la nostra dipendenza e la nostra vulnerabilità nei confronti dei mass media, che sono di fatto a doppio taglio: più costituiscono formidabili mezzi d’informazione «democratica» (accessibili a una larga audience), più favoriscono la concentrazione oligarchica della parola pubblica, conferendo un immenso potere di disinformazione a coloro che la detengono. Offrendo «pane e giochi circensi», gli imperi mediaticoindustriali minacciano la democrazia: la situazione dell’Italia berlusconiana non fa altro che manifestare in modo particolarmente acuto la norma che predomina ovunque. Il verme è nella mela. Se la pubblicità dirotta l’informazione, bisogna anche capire, come ci invita a fare Christopher Lasch, le insufficienze dell’informazione stessa:
Ciò che la democrazia esige, è un dibattito pubblico vigoroso, non informazione. Certo, essa ha anche bisogno di informazione, ma il tipo di informazione di cui ha bisogno può essere prodotto solo attraverso il dibattito. Non sappiamo quali cose abbiamo bisogno di sapere finché non abbiamo posto le domande giuste [.]. Quando ci impegniamo in discussioni che catturano interamente la nostra attenzione e la focalizzano, ci trasformiamo in avidi ricercatori d’informazione pertinente. Altrimenti assorbiamo passivamente l’informazione, ammesso che lo facciamo.

La comunicazione all’assalto della democrazia
Siamo giunti alla questione politica, e anche qui è la pubblicità che ha aperto dei varchi. La distinzione che, malgrado l’identità dei loro metodi, sussisteva tra pubblicità e propaganda si è andata sbiadendo. Due cose le differenziavano: innanzi tutto il loro ambito di applicazione (commercio/politica); poi il fatto che la pubblicità costituiva una professione autonoma (in quanto le imprese affidavano la loro pubblicità ad agenzie esterne), mentre la propaganda veniva fatta dai politici e dai militanti stessi. Al giorno d’oggi, i pubblicitari fanno «marketing politico» o «elettorale» e s’incaricano della propaganda dei partiti. La confusione delle categorie è giunta a un punto tale che i messaggi di propaganda politica inseriti a pagamento sono talvolta preceduti dalla menzione «pubblicità», mentre quelli della propaganda commerciale lo sono dall’indicazione «comunicato», normalmente riservata alle istituzioni pubbliche.

Negli anni Ottanta i pubblicitari si compiacevano nel constatare che «la politica è entrata in pubblicità e viceversa». Le prospettive di arricchimento per la vita civica appaiono esaltanti: «In una società fondata sul consumo di massa quasi obbligatorio tutto si vende, e di frequente per ragioni molto lontane da quelle che sono le qualità intrinseche: dall’uomo politico alla saponetta…». Per i nostri strilloni della democrazia adulterata, «l’atto elettorale è un atto di consumo come un altro».
Questa prospettiva, che vede la politica passare dal dominio della convinzione a quello della seduzione, non incanta più di tanto i cittadini, tanto che in Francia vengono votate alcune leggi in materia. La pubblicità politica è così bandita da televisioni e radio, e poi, nel 1990, anche dalle affissioni murali. Immediatamente, la «comunicazione» si sostituisce alla pubblicità, troppo chiassosa. La furbata è ben evidente: «comunicare» suona meno unilaterale. Ed è certamente molto più insidioso. Come spiega un «comunicatore», «il consiglio in comunicazione non si esprime necessariamente sotto forma pubblicitaria e non è per forza di cose vistoso». La comunicazione è discreta, ma si tratta sempre di «influenzare le attitudini e i comportamenti dei diversi tipi di pubblico». Jean-Pierre Raffarin, ex pubblicitario divenuto primo ministro, incarna questa convinzione: «La comunicazione pubblicitaria è divenuta per molti la soluzione a tutti i gravi problemi della società». Tutto sarà sistemato d’ora in avanti a colpi di comunicazione, modalità in grado di «gestire» i conflitti sociali, di render possibile il «management» dell’opinione pubblica.

Governare vuol dire apparire. I consulenti in materia di comunicazione applicano ora tecniche che si sono provate efficaci nel campo del commercio. Così vengono organizzate «riunioni Tupperware» per insegnare a piccoli gruppi di politici la demagogia del sorriso su misura; si ricorre al telemarketing, o alla pubblicità postale, per fare due chiacchiere con i cittadini; se poi ai politici è vietato comparire nei jingles pubblicitari delle catene televisive e radiofoniche, non per questo essi hanno perduto ogni speranza di ficcarcisi in qualche modo. Il ruolo di comunicatore assume qui tutta l’ampiezza possibile. Si negoziano interventi in trasmissioni valutate in anticipo sulla base della loro capacità di veicolare il messaggio. Essendo il tempo per parlare limitato, ci si applica per renderlo altamente redditizio ricorrendo alle regole pubblicitarie: per «vendere un’idea» bisogna a) esprimere una promessa e una soltanto, che sia b) confacente al target, c) semplice, d) credibile, e) durevole, declinabile, f) opportunista. Il che spiega perché le campagne si concentrino solo su pochi temi e il discorso sia ridotto a slogan.

Sotto la pressione dell’Auditel, le trasmissioni politiche si fanno più rare; i comunicatori devono allora far passare i loro clienti in altre trasmissioni, naturalmente di intrattenimento. Niente viene più escluso per far parlare di sé, migliorare la propria «immagine» e imprimerla nella testa degli spettatori. Quando poi, come di norma accade, i partiti di governo standardizzano i propri programmi per impadronirsi del «centro», tutto si gioca in termini di «personalità» dei candidati, l’equivalente dell’«immagine di marca», e non si parla più di politica, ma delle mogli, dei bambini, degli hobbies. Questo degrado della vita politica raggiunge l’apice in Paesi dominati da giunte violente che ricorrono spesso e volentieri ai servizi delle agenzie di «relazioni pubbliche» occidentali, per raffinare la loro «comunicazione» interna ed esterna o per scegliere la marionetta che avrà le migliori possibilità di «sedurre» le masse locali. Il Guatemala è tra quelli che ne hanno fatto le spese: il fondatore dell’industria di public relations ha mobilitato l’opinione pubblica americana per preparare il rovesciamento, a opera delle élite locali e della CIA, del suo presidente democratico, che aveva osato proporre una riforma agraria in questa repubblica delle banane della United Fruit.
La Guerra del Golfo, altamente spettacolarizzata, ha poi portato al culmine queste manipolazioni di massa. Un’agenzia di public relations ha organizzato la falsa testimonianza di un’infermiera, che ha raccontato al Congresso americano di aver visto soldati iracheni uccidere bambini in fasce: l’intensa emozione da parte del pubblico convince definitivamente che bisogna andare in guerra. I comunicatori di Bush padre cominciano anche ad applicare la neolingua, così gli «interventi chirurgici» rendono i bombardamenti più accettabili, anche se in realtà non sono molto meno mortiferi. Sottili strategie di marketing politico per vendere la guerra a un’opinione pubblica reticente.

Per quanto i media abbiano in seguito riconosciuto di essersi lasciati trasformare in altoparlanti delle fucine di propaganda alleate, le operazioni d’intossicazione si sono poi moltiplicate. Al fine di giustificare l’intervento della NATO, le agenzie di relazioni pubbliche si sono sfiancate per «far coincidere serbi e nazisti», alimentando così le campagne di disinformazione sull’esistenza di un genocidio in Kosovo. E i media, gli intellettuali e le opinioni pubbliche si sono lasciati beffare. In seguito, il Tribunale penale internazionale dell’Aja ha trovato solo 2.108 corpi e nessuna fossa comune: il famoso «Piano Ferro di cavallo» sarebbe un’invenzione dei servizi segreti occidentali, e peraltro l’abbietto Milosevic? è stato perseguito esclusivamente per crimini di guerra. L’Office of Global Communication anglo-americano ha svolto bene il suo lavoro anche durante la seconda guerra in Iraq: se le frottole sulle armi di distruzione di massa non hanno attecchito più di tanto in Europa, il bluff dello smontaggio della statua di Saddam (organizzato in anticipo dalla coalizione e dai media) ha comunque procurato un effetto istantaneo di giustificazione della guerra, recuperando il potenziale emotivo delle immagini sulla caduta del comunismo.

La prima cosa di cui ci si deve riappropriare è il senso delle parole. I governi hanno sempre fatto propaganda: in Francia, prima della seconda guerra mondiale, c’era un ministero che portava questo nome. Il termine è in seguito divenuto peggiorativo, e non casualmente i propagandisti si sono acconciati con il grazioso nome di «comunicatori» (o «esperti in relazioni pubbliche»), ponendo un’aureola di onestà sul carattere manipolatore di un lavoro difficilmente controllabile.
Pur essendo la situazione già abbastanza deteriorata, i venditori di comunicazione hanno da poco fondato in Francia la lobby Démocratie et Communication con l’obiettivo di far cadere le restrizioni imposte alla pubblicità in campo politico (come il divieto di spot, rimosso in occasione delle elezioni europee del 2004). Tra costoro Jacques Séguéla, che ama presentarsi come un «figlio della pubblicità», un «mercenario garantito », un «camaleonte». Costui ha fatto la pubblicità per François Mitterrand («Generazione Mitterrand») e per innumerevoli partiti nel mondo intero, vantandosi di cambiare campo per essere sempre dalla parte del vincitore. Come tanti comunicatori francesi, ha sguazzato nella rete dei rapporti franco-africani, lavorando per quei dittatori che servono così bene, anche loro, gli interessi della nostra industria nazionale, precisamente quella petrolifera.

Se si pongono queste evoluzioni in una prospettiva storica, si può parlare con Jürgen Habermas di «rifeudalizzazione dello spazio pubblico». Nel Medio Evo, le decisioni politiche erano prese nei segreti arcani del potere: ciò che veniva concesso al popolo erano sfilate e feste in cui i potenti davano spettacolo di sé per accrescere il proprio prestigio. Con l’età dei Lumi, si costituisce una sfera pubblica che non si accontenta di acclamare passivamente il potere, ma lo contesta e lo discute: sta qui l’origine delle moderne rivoluzioni politiche. Tuttavia, con la crescente concentrazione economica e con l’emergere di un nuovo potere politico, quello delle grandi imprese, lo spazio pubblico ha velocemente ripreso il suo aspetto di scena ludica dove i potenti si pavoneggiano per ottenere un consenso plebiscitario. I grandi orientamenti politici non sono più discussi, bensì imposti con tattiche di comunicazione che ne dissimulano le poste in gioco: è la fabbricazione del consenso, the manufacturing of consent.

Ci si può indignare del «passaggio dalla democrazia rappresentativa alla democrazia consumista» annunciato da Séguéla, ma questo stravolgimento si limita a esacerbare fino al parossismo quelle insufficienze intrinseche alla democrazia rappresentativa, la quale non esige affatto l’impegno di ciascuno nella sfera politica, ma il suo esatto contrario. Poiché il concetto di partecipazione si è ormai ridotto ad andare a votare ogni cinque anni, non ci si può meravigliare che il potere sia stato confiscato da professionisti della politica, esperti e altre figure chiave del mondo della comunicazione. Lo spirito «progressista» ha la sua parte di responsabilità in questa deriva: ha disdegnato le tradizioni popolari di autogoverno locale e non ha dato prova di alcuna chiaroveggenza di fronte allo sviluppo industriale e mediatico, assimilandolo al Progresso e trascurando i suoi effetti nefasti sulle condizioni concrete del dibattito pubblico e della sovranità popolare.

È quindi logico, purtroppo, che la politica si sia ridotta sempre più a uno spettacolo; e la cancrena pubblicitaria non fa che rivelare i limiti di una concezione poco esigente e troppo mediatizzata (cioè indiretta) della democrazia. La via per manipolare l’opinione pubblica, mascherando qualsiasi politica, statale o industriale, dietro il velo dell’interesse generale, è ormai libera. Nel 2004 Sanofi-Synthélabo ha lanciato una OPA ostile su Aventis: se si deve credere alla campagna di comunicazione condotta in quest’occasione, solo l’interesse umanitario a salvare delle vite avrebbe motivato la costituzione di questo quasi-monopolio farmaceutico.

La creazione industriale di nuove malattie
Nel Medio Evo, ciarlatani e cavadenti promettevano già bellezza e salute, per non dire dell’eterna giovinezza, grazie a pozioni miracolose e a elisir di lunga vita. Si sarebbe potuto sperare che simili pratiche declinassero con il progresso; al contrario, la pubblicità le ha esacerbate. Se non vale la pena attardarsi sull’esempio caricaturale dei cosmetici, ben altra attenzione merita il modo, misconosciuto, con cui l’industria farmaceutica utilizza il sistema pubblicitario per pervertire la medicina. In Francia, la vendita e la pubblicità diretta dei medicinali sono teoricamente limitate: in realtà lo sono sempre meno. Gli industriali del settore stanno cercando di raggiungere il grande pubblico e lo fanno, come chiosano ammirati i pubblicitari, «a suon di sotterfugi per raggirare una regolamentazione restrittiva». Sarebbero tutti soddisfatti se si raggiungesse il livello degli USA, dove la deregulation liberale ha autorizzato il direct to consumer. In dieci anni, i budget pubblicitari si sono decuplicati e il giro d’affari dei medicinali coinvolti si è triplicato…

Non siamo ancora a questo punto, ma il sistema pubblicitario non è meno attivo in Francia, dove mira al target che la legge gli consente: il medico che fa le ricette. I medici sono tampinati da una legione di rappresentanti dei laboratori farmaceutici. Si parla spesso della carenza di personale medico negli ospedali. Ricordiamo che in questo caso c’è un rappresentante ogni nove medici! Si parla spesso della «dura necessità», per poter finanziare la ricerca medica, di far pagare ai Paesi poveri i diritti di brevetto, che moltiplicano per dieci o anche più il prezzo dei medicinali. Ricordiamo che i laboratori destinano soltanto dal 9 al 18% del loro budget alla ricerca, ovvero tre volte meno di ciò che viene destinato al marketing.

A lungo persuasi di far bene il loro mestiere, cioè di fare del loro meglio per la salute del paziente, i medici si sono resi conto che vengono reclutati per fare consumare il più possibile determinati prodotti. Un sistema pubblicitario efficace mira a fare di chi prescrive le ricette un braccio affidabile della tenaglia che stritola certi malati. Ecco come si svolge il lavaggio del cervello, spiegato da chi l’ha subìto in prima persona. All’inizio dei suoi studi, il futuro medico scopre con piacere tutto un mondo di regali, di loghi che gli divengono familiari e di sponsor generosi che sovvenzionano serate e settimane bianche. La contropartita sembra minima, basta far finta di ascoltarli mentre abbozzano una graziosa «verità scientifica» su un dato prodotto.

Comunque, «fanno parte della nostra formazione», come dicono i più vecchi, in generale già ben formattati. Più tardi, lo studente comincia a conoscere seriamente le patologie. I libri su cui studia raccomandano certi medicinali in grassetto, gli stessi di cui si ritrova la scintillante pubblicità nella sovraccoperta o inserita tra le pagine. Libri scritti dal «fior fiore della medicina», che ha acquisito notorietà grazie alle sovvenzioni di laboratori legati alle loro specializzazioni gli stessi che producono quei medicinali. Ma per lo studente quel testo è il riferimento indispensabile, e siccome la medicina s’impara a memoria, tutto ciò entra a far parte del sistema! Durante l’internato, volente o nolente, frequenta i laboratori più volte a settimana (in occasione di «visite di cortesia», di uscite organizzate, di «riunioni d’informazione», ecc.). Inoltre, il primario può esercitare pressioni dirette o indirette affinché si orientino le prescrizioni a favore del laboratorio X, amico del primario.
Lungo tutta la sua vita lavorativa, il medico sarà corteggiato per il suo stesso bene: riunioni, pranzi, «soggiorni di formazione» lo arricchiranno di un sapere preconfezionato, abilmente truccato alla bisogna nelle riviste di riferimento o nei dépliant che vantano le proprietà del medicinale (che talvolta «dimenticano» di menzionare taluni effetti secondari).

Quando sono state lanciate le pillole contraccettive di terza generazione (meglio tollerate delle precedenti, ma considerate a rischio per un possibile aumento delle malattie cardiovascolari), un laboratorio spiegava nelle sue schede promozionali come, contrariamente alle pillole concorrenti, il tasso di colesterolo non fosse aumentato con i suoi prodotti. Un esame più attento della spiegazione segnalava che questa prova «scientifica» era stata riscontrata… nella femmina del coniglio. Le cavie sapranno apprezzare. Quindi, anche se i medici hanno appreso (molto di recente) ad avere uno sguardo critico, i trucchi del mestiere funzionano sempre. Allorché i rappresentanti cessano di incentivare i medici, il volume dei medicinali prescritti nella zona geografica trascurata (sorvegliata con la complicità dei farmacisti e delle mutue) precipita. Sono dunque i rappresentanti ad acuire il senso critico dei medici? Sì, nei confronti di malattie che non esistono e che vengono create a colpi di convegni e articoli «scientifici» ratificati da rinomati professori. Una creazione particolarmente facile quando la frontiera tra il normale e il patologico è così sottile. A partire da quali soglie bisogna prendere in considerazione il tasso di colesterolo o la tensione arteriosa?

La minima flessione può creare un mercato immenso…
Philippe Pignarre, che ha lavorato per diciassette anni nell’industria farmaceutica, ci ricorda che quest’ultima costituisce il «gioiello della corona del capitalismo». I suoi tassi di profitto sono più alti di quelli di qualsiasi altro settore, banche comprese. Ma per mantenerli, tenendo conto della scadenza dei brevetti, bisogna innovare di continuo e spingere con urgenza, a dispetto di ogni prudenza, al consumo di nuovi prodotti. Pignarre ci spiega in dettaglio le strategie impiegate: si pubblica uno stesso articolo, sotto firme diverse, per aumentare la notorietà di una nuova molecola e suggerire ai medici che i suoi vantaggi sono stati davvero confermati; poi la si può addirittura commercializzare sotto due nomi diversi per imporla più rapidamente (strategia detta di co-marketing); infine si fa pressione per farla prescrivere in prima battuta, ecc. Quando le molecole divengono di pubblico dominio, si procede alla «cosmesi» dei medicinali, scommettendo sulla celebrità del nome di marca; ad esempio, si fa di tutto per far dimenticare che la Tachipirina non è altro che paracetamolo. C’è anche la «strategia di nicchia »: i laboratori propongono il loro medicinale nel sottodominio limitato di una patologia e in seguito «lavorano per allargare questa nicchia, preparando i medici al depistaggio e sensibilizzando sia la stampa che il grande pubblico. Si sono così visti nascere alcune ‘nuove’ turbe psichiatriche», come certe forme di depressione breve o di schizofrenia precoce.

Davanti alla difficoltà di trovare nuovi medicinali, i laboratori si accingono dunque a inventare nuovi pazienti per vendere i loro vecchi prodotti. A questo fine, essi ricorrono a tutti gli stratagemmi del sistema pubblicitario, utilizzando le tattiche di comunicazione che si indirizzano direttamente alle masse per il tramite dei media. Negli Stati Uniti è così improvvisamente comparsa una nuova malattia: «la turba da fobia sociale». Tra il 1997 e il 1998 vi si fa riferimento, nei media, una cinquantina di volte ma, nel 1999, l’epidemia sembra dilagare tanto che vi si fa riferimento più di un miliardo di volte. Cosa è successo? Niente, se non lo sviluppo di una vivace strategia di relazioni pubbliche per conto di un laboratorio che cerca nuovi sbocchi per un antidepressivo, il Paxil, le cui vendite aumentano del 18% nell’anno 200024.

Queste strategie sono pericolose, perché i medicinali possono innestare una caterva di effetti indesiderabili, che vanno dagli effetti collaterali benigni a quelli mortali. Ad esempio, un laboratorio propone degli ormoni per occuparsi della «menopausa maschile»; le sue pubblicità giocano sul desiderio degli uomini di «restare giovani» e di conservare tutta la loro libidine. Ma c’è da temere che il testosterone proposto comporti a lungo termine un drammatico aumento dell’incidenza del cancro alla prostata. Allo stesso modo, anche sul breve termine, i sondaggi clinici su un campione di 2.500 persone sono statisticamente troppo deboli per accertare eventuali effetti negativi gravi (con i laboratori che, in caso di problemi, fanno tutto il possibile per spiegarli tramite le caratteristiche delle cavie piuttosto che delle molecole). Un farmaco tagliafame ha ottenuto nel 1985 l’autorizzazione alla distribuzione sui mercati (AMM): trombe e tamburi, congressi sul prodotto miracoloso che migliorerà l’alimentazione di milioni di persone, malate per aver troppo consumato o più spesso schiave di un conformismo fisico propagandato proprio dalla pubblicità.

In pochi anni viene consumato da sette milioni di persone e qui ci si accorge della sua pericolosità: 200 persone moriranno o subiranno gravi conseguenze. L’ingegnosità dispiegata per massimizzare la redditività del triangolo medico-malato-laboratorio è terrificante. Il predominio dell’immagine sulla verità è un tratto indiscutibile della pubblicità, ma nel campo della salute è criminale, perché i medicinali sono potenzialmente delle vere e proprie mine antiuomo.
Il principio di precauzione va a farsi fottere grazie a un’ondata di pubblicità che stimola l’iperconsumo dei medicinali, il quale a sua volta comporta 1.300.00 ricoveri (cioè il 10% del totale!) e 18.000 decessi all’anno solo in Francia. Coccolando l’illusione ossessiva della salute perfetta, della bellezza e della gioventù eterne, Big Farma ha creato di fatto delle nuove malattie.

Il cinismo dei laboratori trova l’eguale solo presso i loro marketers, che sacrificano coscientemente la nostra indipendenza, e anche la nostra vita, al Dio Profitto. Eppure sarebbe sbagliato e ingiusto imputare al solo sistema pubblicitario questa deriva del mondo della medicina. Di nuovo, essa non fa che svelare, aggravandole, le insufficienze di una concezione della medicina come assistenza focalizzata sulla prescrizione di composti chimici la cui aggressività è causa di patologie e dipendenze. Ora, le statistiche provano che i progressi della salute pubblica non sono legati in modo decisivo ai medicinali moderni, ma molto più al miglioramento delle condizioni di vita e specialmente dell’alimentazione, vale a dire a cose che gli individui possono controllare da sé. Un’altra concezione della salute si profila a questo punto, una concezione fondata sull’autonomia personale e garantita da una sana igiene di vita che prevede il ricorso all’assistenza medica solo in certi casi particolari.

Gli «spettacolari progressi» della tecnica medica non solo non hanno contribuito granché all’aumento della speranza di vita, ma hanno avuto effetti nefasti non voluti o previsti dai medici. Da un lato questi effetti, invece di spingere gli individui a prendere in mano la loro salute per costruire un modo di vivere più sano, hanno rinforzato l’idea che la salute è assicurata al meglio tramite il consumo quotidiano di cure prodigate da istanze specializzate. Dall’altro lato, sono stati sistematicamente usati per giustificare le condizioni di vita moderne: condizioni che sono sempre più patogene! Il cancro, causa di morte per 150.000 francesi ogni anno, è un’epidemia legata all’industria, più precisamente a quella chimica, che è anche alla base della farmacopea. Come scriveva Ivan Illich, “la civiltà industriale crea nuove malattie e il sistema medico stesso è ben lungi dall’essere sano: Una struttura sociale e politica distruttiva trova il suo alibi nel potere di appagare le proprie vittime con terapie che esse hanno imparato a desiderare. Il consumatore di cure diviene impotente a guarirsi o a guarire chi gli sta vicino”.

CONCLUSIONI
Era ora che la pubblicità provocasse una reazione proporzionata alla ripugnanza che ispira a molti di noi: la pubblicità è in sé infame, è propaganda industriale che si spaccia per informazione e talvolta passa per tale. È infame per ciò che promuove: l’edonismo adulterato, il narcisismo delle apparenze mercantili, la noncuranza cool e il disprezzo del passato che sta dietro alla beata nostalgia della «vera vita campestre». È infame soprattutto perché è un potente motore di quel consumismo e di quel produttivismo che sono all’origine del saccheggio della natura e delle società, al quale contribuisce in misura ancora maggiore mascherando la devastazione del mondo che ne consegue e che, malgrado tutto, salta agli occhi.

Non ci si può che rallegrare del lavoro di tutte quelle associazioni che si sforzano di sensibilizzare la popolazione su questa peculiare nocività e che lottano compatte contro il suo imperialismo. Ma questa battaglia resta troppo spesso parziale; condotta per vie legali e giuridiche, essa è simile a quella di Sisifo contro il suo masso, che rotola sempre giù dal pendio. Non ci si può limitare a criticare la pubblicità, come ha ben capito l’associazione Casseurs de pub che, traendo le dovute conseguenze dalla sua attività iniziale, oggi pubblica un giornale intitolato « La Décroissance » ( La Decrescita ). La pubblicità è in effetti intrinseca all’organizzazione della vita di cui tutti facciamo parte e che bene o male sopportiamo: essa ne è quindi inscindibile, in tutte le sue dimensioni. Criticare la pubblicità senza criticare questa organizzazione e senza voler uscire dalla trappola della crescita è contraddittorio.
La pubblicità è una componente a pieno titolo di quella produzione industriale su cui poggia il nostro laborioso comfort.

È indissolubilmente legata alla divisione del lavoro, alla concentrazione economica, al ruolo del denaro nella nostra società; in breve, al fatto cruciale che noi affidiamo alle grandi imprese, dietro pagamento, il diritto di occuparsi della nostra vita al nostro posto. Non ci si può dunque accontentare di rompere la vetrina pubblicitaria, perché dietro di essa c’è il potere ideologico e pratico che esercitano le grandi marche sul nostro quotidiano, ed è questo che va messo sotto accusa. Non bisogna aspettarsi nulla dalle marche, soprattutto quando, come sottolinea Stuart Ewen, recuperano le critiche per darsi un’immagine di «imprese responsabili» che s’ingegnano per mettere una spruzzata di etica sulle loro etichette, o per passare una mano di pittura verde sulle lamiere ondulate delle loro fabbriche:

La cultura di massa ci interpella nella stessa lingua della nostra critica, invalidandola giacché propone le soluzioni della grande impresa ai problemi della grande impresa. Finché non ci confronteremo con l’infiltrazione del sistema mercantile fin nei più reconditi meandri dell’esistenza, lo stesso cambiamento sociale resterà un prodotto della propaganda delle marche. Abbiamo assistito ai primi passi di una politica della vita quotidiana; ma questa politica è subito divenuta un pupazzo nelle mani della controparte. […] Bisogna restare vigili e rigettare ogni forma di progresso sostenuta dalle marche.
Una volta che si sia presa coscienza del carattere devastante del sistema industriale, cosa si può fare per evitare di essere complici della sua espansione? Oggi è impossibile non fare compromessi, tenuto conto delle costrizioni implicite nelle nostre condizioni di vita. Ma la necessità di fare tutto il possibile per riprenderne il controllo non è per questo meno pressante.

Bisogna cercare di uscire dalla nostra dipendenza quotidiana da una megamacchina statal-industriale che ci assiste in tutti i nostri atti. E dunque imparare a vivere altrimenti: lavorare e consumare diversamente, al tempo stesso meno e meglio; preferire, quando è ancora possibile, il mercato al supermercato, gli artigiani agli industriali, gli indipendenti alle catene e alle grandi case di produzione, il rigattiere e il mercato delle pulci agli asettici centri commerciali. Non è infatti risibile scandalizzarsi della pubblicità e degli abusi del sistema industriale che vi fa ricorso, continuando nel frattempo a favorire l’espansione di entrambi con i propri atti di consumo?

Ma per comprendere il fenomeno pubblicitario, e pretendere di opporvisi, bisogna vedere più in là della dittatura del profitto e del produttivismo; o meglio, bisogna sforzarsi di coglierne tutte le manifestazioni concrete, comprese quelle che intaccano, a causa della venalità generalizzata e della logica della redditività, il nostro quadro di vita e l’esistenza che vi conduciamo. Una critica seria della pubblicità non può inoltre esimersi da una critica dei mass media e della stampa contemporanei, progressivamente divenuti una gigantesca pagina pubblicitaria. Come non può tralasciare una critica all’urbanismo e all’organizzazione moderna dello spazio, con le sue reti di trasporti peraltro tanto propizie al martellamento pubblicitario.

E tale critica, non ci conduce forse a interrogarci sul valore di certe infrastrutture che il mainstream dell’oscurantismo sedicente «progressista» pubblicizza in maniera costante? Pensiamo a tante cose, e in particolare - per non esitare a rimettere in discussione un consenso tanto cieco quanto universale (soprattutto nei francesi) - agli aeroporti, alle autostrade, alle linee ad alta velocità, alle antenne per le reti di telefonia mobile, e ovviamente ai progetti internazionali per costruire in Francia nuove centrali nucleari a basso costo o sperimentali (progetti EPR e ITER). Non è il caso di interrogarsi, per ogni singola situazione e in modo preciso, sui «benefici» che queste infrastrutture ci apportano in relazione a quelle che rimpiazzano e in relazione alle alternative di cui impediscono lo sviluppo? Di domandarsi se questi benefici non si realizzano in realtà solo a vantaggio di una minoranza? Di confrontare tali presunti benefici con i costi di queste infrastrutture per la collettività in termini di budget colossali, di ricadute nocive, di risorse mobilitate e soprattutto di rischi indotti? Perché, di nuovo, il loro effetto è quello di favorire l’espansione dello sviluppo industriale e della logica concorrenziale, quando sembra invece urgente frenarli e deviarli per evitare il disastro ecologico e umano che si profila all’orizzonte.

Certo, questa messa in discussione non deve essere fatta solamente in nome dei disagi e delle ricadute nocive subite dalle popolazioni locali, ma nella prospettiva di una critica globale di un sistema universalmente nocivo (e in che misura!) che esige queste infrastrutture per svilupparsi. I movimenti locali vengono così spesso sconfitti perché restano prigionieri di rivendicazioni troppo private che immediatamente li discreditano. Se è facilmente comprensibile che essi non abbiano voglia, e a buon diritto, di avere questi sconci vicino casa, perché altri dovrebbero invece volerli?
Da questo punto di vista, la lotta contro la pubblicità, in particolare nelle forme che ha assunto a partire dalle azioni dell’autunno 2003, è interessante a più livelli. Intanto ha consentito di prendere le distanze dalle rivendicazioni corporative avanzate dalla maggior parte dei sindacati. Poi si è affrancata, quanto meno nei discorsi dei suoi promotori più conseguenti, dalle contraddizioni classiche della critica della pubblicità, quella che si adombra pudicamente per i metodi più scandalosi come la «persuasione occulta», continuando però a ripetere docilmente l’assunto delle nostre operose élite: «La crescita non è il problema ma la soluzione». Se si pensa veramente che la crescita sia un obiettivo auspicabile, allora bisogna attrezzarsi con mezzi adeguati, e una scialba réclame utilitarista e informativa non ne fa parte. Se s’intende accettare il saccheggio del mondo da parte dell’iperconsumo, allora è meglio che esso venga mascherato con sfavillanti spot pubblicitari, tanto sensazionali quanto mistificatori.

Intendiamo denunciare con fermezza anche le altre illusioni di cui si nutrono le critiche ingenue della pubblicità. Allo stato attuale dei rapporti di forza, non c’è alcuna ragione perché la pubblicità arretri o fermi la sua avanzata. Non c’è alcuna ragione, ad esempio, perché i bambini delle scuole francesi sfuggano, quando sarà il momento, al trattamento pubblicitario shock che viene già somministrato ai loro coetanei negli Stati Uniti. Le riforme dell’istruzione pubblica hanno attivamente promosso tutte le condizioni affinché le scuole francesi abbiano sempre più bisogno del denaro dei poteri forti privati, e ben presto molte saranno attaccate a flebo commerciali. È possibile che talune iniziative riescano, almeno in certi istituti, a ritardare la scadenza, ma da sole non potranno cambiare il problema di fondo. Concentrandosi su un capro espiatorio facile come la pubblicità, esse anzi contribuiscono a occultare la funzione cui l’istruzione pubblica tende a restringersi, con la benedizione dei genitori preoccupati per il «futuro» dei loro bimbi: quella di preparare questi ultimi a diventare impiegati «competitivi» e consumatori «razionali».

La questione della pubblicità illustra in modo crudo quanto sia oggi difficile apportare dei miglioramenti a un aspetto particolare della vita sociale senza chiamarne in causa anche tutti gli altri. La pubblicità rappresenta perfettamente la vita che conduciamo! Il riflusso pubblicitario non potrà ovviamente risultare se non da un regresso della produzione mercantile e dall’emergere di altri rapporti sociali (dove sarà magari più consueto venire in aiuto dei propri vicini che accettare denaro per far installare un pannello pubblicitario in uno spazio di cui si è proprietari). Non potrà verificarsi se i rapporti di forza e l’organizzazione della vita non muteranno profondamente. E perché questo avvenga, non basterà certo invocare lo Stato, nella speranza che limiti il bombardamento in atto e difenda quei cittadini impotenti che ha largamente contribuito a espropriare di ogni potere sulle loro vite. Per arrivare a toccare questioni cruciali, la pubblicità non dev’essere contestata isolatamente, bensì usata come una interessante via d’accesso per arrivare a una critica radicale del capitalismo. […]

In un contesto storico in cui il sabotaggio ci sembra nuovamente chiamato a ritrovare i suoi titoli nobiliari, le azioni contro la pubblicità hanno anche saputo riallacciarsi alla critica dello spettacolo. Iconoclaste e profanatrici, esse hanno aggredito - spesso inconsapevolmente, ma talvolta in modo del tutto cosciente - il cuore del capitalismo: il feticismo della merce. Al capitalismo non basta sfruttare gli uomini dall’esterno, con l’appoggio dello Stato e delle sue coorti armate; esso è anche una religione, e il suo principale supporto, oggi, è ognuno di noi, persi come siamo nella massa dei fedeli-consumatori ammaliati dai miracoli dell’industria hi-tech.
Nel 1921, Walter Benjamin aveva già capito che il capitalismo è «la celebrazione di un culto senza sogni e senza pietà». Tale culto è quello del denaro e della sua incarnazione in forma di merce: «senza pietà», cioè inesorabile e permanente, «senza sogno», cioè senza utopia e senza speranza. Un culto che non promette alcun superamento verso un altrove, ma soltanto la propria intensificazione; che organizza un mondo chiuso nel «qui e ora» mercantile, un mondo esposto in un presente senza memoria. Per dirla con Herbert Marcuse, si tratta di un mondo unidimensionale nella misura in cui è privo di ogni ideale che lo trascenda e che permetta dunque di uscirne per giudicarlo e criticarlo. L’uomo a una sola dimensione che gli corrisponde non fa altro che proiettarsi verso nuove spese. E non potrà mai ribellarsi: senza sogni, non c’è rivolta.

I grandi sacerdoti di questo culto senza tempi morti sono indubbiamente i pubblicitari. San Cathelat considera le sue contorte opere come le vetrate di quelle «cattedrali moderne» che sono gli ipermercati. San Séguéla, profeta esaltato della pubblicità «divina», «missionaria» e «immortale», ci assicura che essa è precisamente «l’eucarestia di quella grande messa pagana che è il consumo». La prova dell’«essenza divina» del sistema pubblicitario, ci spiega, è che esso «fa il mondo a sua immagine». E così «ipnotizza la nostra infanzia, manovra la nostra gioventù, abbrutisce la nostra maturità». Nessun sacrificio è sufficiente per questo idolo, tanto vorace quanto spietato. Evangelizzatori delle masse, questi pastori dei centri commerciali guidano le loro pecorelle verso le casse, santificando da bravi curati al passo coi tempi un capitalismo ipersviluppato.

Davanti alla miseria umana che questo propaga, loro promettono ciò che può solo intensificarla: la consolazione attraverso il consumo, fondamento di questo miserabile surrogato di religione che è appunto il consumismo, nuovo oppio dei popoli. Blando euforizzante e potente narcotico, questo procura soddisfazioni illusorie e instilla una rassegnazione reale. I pubblicitari sono mercanti di sabbia che lavorano per espandere il deserto.
Nei secoli XVIII e XIX, i pensatori illuminati ritenevano che la critica della religione fosse la premessa di ogni critica. In un opuscolo situazionista del 1966, intitolato De la misère en milieu étudiant, Mustapha Khayati delineava una nuova configurazione storica, nella quale ci ritroviamo oggi più che allora:

«Nell’epoca del suo dominio totalitario, il capitalismo ha prodotto la sua nuova religione: lo spettacolo». Il sistema pubblicitario è solamente il vettore più manifesto di questa contemplazione medusea provocata dalla vita autonoma di un’economia che si rivela mortale per ogni vita decente. Criticarla è la condizione preliminare di ogni altra critica sociale. Preliminare, perché bisogna essersi già liberati di questo contesto di accecamento per poter aprire gli occhi sul mondo immondo generato dalla crescita mercantile. Ma solo preliminare, perché una volta rotto l’incantesimo resta da ricostruire, negli interstizi e sulle rovine della devastazione, un mondo umano. Ciò che è infame ha cambiato maschera, ma la parola d’ordine di Voltaire non ha perduto nulla della sua attualità: «Schiacciate l’infame!».

Fonte: MISERIA UMANA DELLA PUBBLICITA’. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo, Gruppo MARCUSE, Elèuthera, 2006, 144 pp., € 12,00