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Un Sindona senza silenziatore
di Alberto Mazzucca -  «Domenica» de «Il Sole 24 Ore» 30/09/1984

Dieci anni di fatti e misfatti sono già sufficienti per dare un giudizio sulla vicenda del finanziere siciliano e sull' intreccio di complicità che lo sostennero.
Capelli bianchi, calvizie accentuata, occhi affossati e arrossati dalla stanchezza, volto pallido e emaciato, fisico rinsecchito. L'immagine di un vecchio. I cronisti raccontano che Michele Sindona abbia sorriso quando, martedì 25 settembre, è apparso in cima alla scaletta dell'aereo che da New York l'aveva portato in Italia. Ha sorriso quando è sbarcato a Milano (ore 12.18) e ha sorriso quando nel pomeriggio (ore 17.05) è arrivato a Roma. E dal momento che indossava solamente un paio di pantaloni e una camiciola marroncina a righe con tanto di penna che sbucava dal taschino, Sindona ha mormorato quel che era giusto mormorasse: «Accidenti che freddo!». Più tardi, in carcere, gli hanno dato non uno ma due maglioni. Sindona è così tornato in manette in Italia dieci anni dopo esserne fuggito in maniera piuttosto frettolosa. Era il 27 settembre del '74 quando fu deciso il ricorso alla liquidazione coatta amministrativa della Banca Privata Italiana, una banca nata morta neppure due mesi prima, all'inizio di agosto, dalla fusione tra la Banca Unione e la Banca Privata Finanziaria. Ed era nata morta perché, nonostante un prestito di 100 milioni di dollari effettuato dal Banco di Roma, Sindona era già con l'acqua alla gola. Il crack sarà di 268 miliardi di lire, lire del '74, anche se poi sembreranno poca cosa rispetto ai mille e passa miliardi di lire '82 del crack Ambrosiano.

Appena Sindona ha messo piede in Italia, un po’ tutti quanti hanno sentito il dovere di dire la loro: c’è chi lo vuole sentire alla commissione antimafia, chi vorrebbe conoscere i nomi della famosa lista dei 500 esportatori di valuta, chi vorrebbe vederci più chiaro in alcune operazioni un tantino oscure. Insomma, tutti hanno da chiedere qualcosa, anche se il vero problema non sta nell’elenco delle domande che Tizio e Sempronio possono rivolgere a Sindona ma nelle risposte che Sindona è disposto a fornire. Fino a che punto, cioè, Sindona ha intenzione di parlare? Un interrogativo che non deve creare eccessive illusioni. E per due buone ragioni.
Il primo motivo è questo: cosa può ancora raccontare quest’uomo, soprattutto oggi che non ha neppure più il potere ricattatorio che aveva una volta, quando ormai sono già noti gli aspetti più importanti dell’intera vicenda, quelli che in definitiva contano? Sappiamo per esempio che sono stati dati 2 miliardi alla Dc e che gli atteggiamenti della Dc sono stati influenzati da quel finanziamento. Sappiamo, altro esempio, che nella lista dei 500 c’erano nomi di ministri e di alti personaggi del Vaticano e che si è agito proprio per rimborsare prima questi di tutti gli altri. Sappiamo ancora che a livello di Governo, addirittura di presidenza del consiglio, è stato fatto il possibile e l’impossibile per cercare di salvare Sindona. Sappiamo ancora, e se ne è avuta poi conferma col crack dell’Ambrosiano, del legame che ha unito la finanza degenere del Vaticano con avventurieri del calibro di Sindona e Calvi. Sappiamo dei suoi legami con la P2; sappiamo dei suoli legami con la mafia siculo-americana; sappiamo (e lo ha confermato il recente processo sul crack della Banca Privata Italiana) che Sindona ha messo le mani nelle casse delle sue ex-banche e le ha saccheggiate. L’unica cosa seria ancora da appurare è se vero o non è vero che Sindona sia stato il mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli. Lui sostiene di essere innocente, i magistrati sono di tutt’altro avviso.

Esiste poi anche un secondo motivo: in tutti questi anni Sindona non è stato muto, ha parlato e molto. A partire dal ’75, vale a dire da quando si opponeva alla sua estradizione in Italia e teneva conferenze nelle università americane dove dichiarava senza arrossire che «compito di un banchiere è di salvaguardare i quattrini che riceve dai risparmiatori», Michele Sindona ha ripetuto praticamente fino ad oggi lo stesso ritornello. E cioè: lui è la vittima di una cospirazione politica messa in piedi dai partiti di sinistra, è un innocente perseguitato dalla magistratura italiana, in particolare da quel Guido Viola che già nel processo per il crack della Banca Privata lo ha definito «un ladro di polli».
Ha parlato anche degli amici e degli ex amici, in sostanza di quelli che in un modo o nell’altro lo hanno aiutato. Licio Gelli? «Mi ha offerto il suo aiuto morale e materiale e, questo, mi ha permesso di sopravvivere. Con me si è sempre comportato correttamente». Imberto Ortolani?
«Bravo sul piano umano, simpatico, ma avevo detto a Calvi di non mettersi con lui negli affari in sud America. Era politico, troppo politico». Paul Marcinkus? «Un uomo avido ma onesto. Ha usato il denaro guadagnato dallo Ior, e cioè dalla banca del Vaticano, per impressionare il Papa e mettersi in buona luce». Roberto Calvi? «L’ho praticamente creato io. Ad un certo punto si è trovato solo, solo come ero io».
Soltanto pochi mesi fa, quando ha dichiarato senza mezzi termini di essere stato l’ideatore di tutti i programmi economici che la P2 aveva per l’Italia («Erano piani di risanamento economico, di lotta alla corruzione, concepiti e da proporsi nel più completo spirito democratico»), «Don Michele» ha leggermente corretto il tiro su Licio Gelli. Ha detto del «Venerabile maestro» della P2: «E’ un uomo modesto, un traffichino; l’enorme importanza che la stampa ha dato a quest’uomo è assurda». Niente di più: le parole di fuoco le ha riservate ai nemici di sempre (Enrico Cuccia e Ugo La Malfa) ed agli amici che hanno «tradito» (Carlo Bordoni).

C’è da chiedersi a questo punto: è pensabile che Sindona, il quale vive nel terrore di ricevere prima o poi un «caffè alla Pisciotta», si metta ora a raccontare qualche particolare inedito solo per porre in difficoltà qualcuno dei suoi più vecchi e altolocati amici? Tipo Andreotti, ad esempio. O qualche altro big della politica o di Cosa Nostra.
C’è da dubitarne. E c’è da dubitarne perché Sindona non è un anomalo genio del male, non è Lucifero come la stampa cattolica lo ha dipinto proprio in questi giorni, è solo un affarista come tanti altri, ben disposto a corrompere e a lasciarsi corrompere, con qualche amicizia giusta nel mondo politico romano ed in Vaticano, con vaste conoscenze nella massoneria, nella P2 e nella mafia. Un avventuriero, insomma. Un avventuriero - bancarottiere - fortemente indiziato di omicidio che, in definitiva, non è altro che il frutto del sistema, è il frutto di un sistema in cui sono ormai emersi chiaramente il legame, la collusione, l’alleanza che si sono creati tra malavita finanziaria, malavita politica e malavita comune.
Ha scritto Guido Viola nella sua requisitoria di 221 pagine in cui accusa Sindona di essere il mandante dell’omicidio Ambrosoli: «E’ una storia di intrighi, di minacce, di estorsioni, di violenze, di intimidazioni, di collusioni con ambienti politici, massonici e mafiosi. . . ne scaturisce uno spaccato estremamente inquietante della realtà italiana su cui occorrerebbe attentamente meditare. Di fronte agli sforzi e alle difficoltà di quanti erano impegnati a ricercare la verità per assicurare alla giustizia i responsabili di gravi reati, si sono sviluppate spesso manovre occulte, subdole, losche, a volte impalpabili. Finanzieri senza scrupoli, avventurieri della peggiore risma, faccendieri, magistrati poco corretti, mafiosi, esponenti massonici, delinquenti comuni, tutti spinti dalla potenza del denaro e dal germe della corruzione, si sono mossi freneticamente sullo sfondo di questa vicenda. Ma quel che è ancora più grave è il ruolo forse esercitato o solo promesso, nel perfezionamento del piano di salvataggio di Sindona, da taluni esponenti politici di primo piano. Con tali «padrini», Sindona aveva il diritto di sentirsi protetto e sicuro dell’impunità. Un onesto servitore della giustizia, Ambrosoli, fu lasciato solo, l’unico che con Mario Sarcinelli seppe dire di no ad un piano di salvataggio scandaloso. In un modo o nell’altro entrambi avrebbero pagato con la loro onesta fermezza: l’uno con la vita, l’altro con il coinvolgimento in una allucinante vicenda giudiziaria.

Che tristezza!.
E’ una strategia ad ampio respiro quella che si muove già a metà degli anni Settanta con l’obiettivo di salvare Sindona. Una strategia portata avanti da alcuni uomini di spicco della Loggia P2 di Licio Gelli e da alcuni uomini politici della Dc, tra cui Giulio Andreotti, Gaetano Stammati, Franco Evangelisti, Massimo De Carolis e, sia pure per taluni aspetti marginali, Amintore Fanfani.
Dall’agenda di Rodolfo Guzzi, uno dei tanti difensori di Sindona ma anche uno, scrive Viola, «che seguirà Sindona nelle iniziative più temerarie in aperto contrasto con gli altri avvocati del collegio di difesa», emerge un tourbillon di incontri, spesso convulsi e incrociati, di vari personaggi: Fortunato Federici, influente consigliere d’amministrazione del Banco di Roma, Phiip Guarino, uomo di punta della massoneria americana, amico di Gelli e membro influente del partito repubblicano, Roberto Memmo, un italo-americano al quale i vertici del Banco di Roma chiederanno ad un certo momento di recuperare in Svizzera la lista nominativa dei 500 dietro compenso di centomila dollari. E poi Mario Genghini, Piersandro Magnoni, Mario Barone, L’on. Delfino, Paul Rao jr.
E agli incontri si aggiungono i famosi «affidavit», vale a dire le dichiarazioni giurate in difesa di Sindona. Dichiarazioni rese da Gelli, da Anna Bonomi, da Edgardo Sogno, da Flavio Orlandi, da Carmelo Spagnuolo, all’epoca procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Per quell’«affidavit» Spagnuolo sarà in seguito espulso dalla magistratura. E poi ci sono le pressioni sulla parte sana della Banca d’Italia, le pressioni per far estromettere i magistrati incaricati del caso, le pressioni su Enrico Cuccia, il mago della finanza laica.

Sindona considerava Cuccia all’origine di tutti i suoi mali ma riteneva anche che il progetto di salvataggio non avrebbe potuto avere possibilità di successo senza un concreto appoggio dell’allora potente amministratore delegato di Mediobanca. A Cuccia minacciarono di rapire la figlia, un’altra volta di sterminare l’intera famiglia, per due volte gli appiccarono persino il fuoco al portone di casa. E così Cuccia, che Sindona chiamava con il nome convenzionale di Ermanno, sarà costretto ad andare a New York. Vedrà Sindona ma non aprirà bocca.
Scrive Viola nella requisitoria: «Se Cuccia avesse avvertito le autorità del tenore dei discorsi che Sindona gli aveva fatto nell’aprile ’79 a New York a proposito di Ambrosoli, probabilmente saremmo stati in grado di proteggere adeguatamente l’eroico commissario liquidatore. E’ un dubbio che ci ha sempre assillato, perché se fossimo stati informati a tempo di quanto da anni stava accadendo, avremmo avuto sicuramente un quadro più preciso della situazione e forse avremmo potuto salvare una vita umana».
Il piano di salvataggio di Sindona non è andato in porto. Era un piano di salvataggio che sarebbe stato effettuato a spese della collettività e in cui il bancarottiere avrebbe avuto garantita l’immunità penale. E non è andato in porto per un motivo che rappresenta poi la morale positiva della vicenda Sindona e anche della vicenda Calvi: questo Paese ha avuto dei seri servitori dello Stato i quali hanno resistito nel loro ufficio alle pressioni con la stessa forza con cui ha resistito Ambrosoli. Scrive ancora Viola: «Fu il coraggio civico dell’avvocato Ambrosoli e la determinazione della dirigenza della banca d’Italia, che dopo la discutibile gestione della vicenda Sindona da parte di Carli, seppe ritrovare la sua gloriosa e antica tradizione di autonomia e di rigore morale, ad impedire la commissione di un’ulteriore truffa ai danni dei contribuenti».

Una dichiarazione, quella di Viola, che fa riflettere, deve far riflettere sui significati istituzionali della vicenda Sindona. Perché, in definitiva, la storia di Sindona è la storia di un avventuriero che ha saccheggiato le casse di due banche grazie a una legislazione arcaica, concepita agli albori del capitalismo italiano, e grazie alle manchevolezze della Banca d’Italia, e quella Banca d’Italia a quel tempo guidata dall’attuale senatore democristiano Guido Carli. Una storia che per molto tempo non ha insegnato nulla, dal momento che qualche anno più tardi è stata ripetuta e ampliata da Roberto Calvi con l’Ambrosiano.
Il crack di Sindona non rappresenta la semplice disavventura di un affarista. è i il culmine di un certo modo di fare finanza, di un certo modo di fare politica, di un certo modo di fare economia. Pochi mesi fa ha scritto Giulio Andreotti sulla vicenda Sindona: «Far sì che chi di dovere, senza pressione alcuna, esamini se sia giusto o meno che un qualsiasi complesso fallisca, a mio avviso non è un diritto di chi governa, ma un dovere. Se così non fosse, dovremmo lapidare tutti i governanti - presenti, passati, futuri - per aver ascoltato sindacati, parlamentari, sindaci, comitati di risparmiatori, eccetera, nei quotidiani tentativi di scongiurare crolli».
Una frase molto infelice. Perché Andreotti non sembra fare nessuna distinzione tra i normali interventi per affrontare le crisi aziendali e questi postumi (quando ormai sul piano aziendale non c’era più nulla da salvare) effettuati solo per evitare al signor Michele Sindona gli incomodi di una procedura per bancarotta fraudolenta. Sindona non era un angioletto e lo si sapeva. Cerare Merzagora, senatore a vita e presidente delle Generali, già nel ’72 aveva messo in guardia la Banca d’Italia dall’attività del finanziere di Patti con una lettera indirizzata al Governatore. Ma pur sapendolo, le autorità monetarie e politiche, la Banca d’Italia e il Parlamento, hanno permesso ad un avventuriero di penetrare tanto profondamente nel sistema bancario italiano pur avendo il potere e il dovere di fermarlo per tempo. Già nel ’72 (e quindi due anni prima che le autorità decidessero il ricorso alla liquidazione) la Banca Unione e la Banca Privata Finanziaria si trovavano in una grave crisi di liquidità. Nel ’72 gli immobilizzi raggiungevano infatti i 250 milioni di dollari e nel ’73 sfioravano i 262 miliardi di lire, erano cioè addirittura superiori al 50 per cento dell’intera massa fiduciaria delle due banche. Una crisi di liquidità che aveva costretto Sindona e soci a realizzare grosse speculazioni di dimensioni sempre più grosse, come quelle sulle commodities compiute da Bordoni tramite le società estere dell’Edilcentro.

Si dirà: ma Carli ha bloccato l’espansione di Sindona quando Sindona, nel ’69, aveva acquistato un pacco di azioni dell’Italcementi con l’idea di impossessarsi dell’intero impero di Carlo Pesenti. E quindi dell’Italimobiliare, della Ras, della Provinciale Lombarda, del Credito commerciale e dell’Ibi. è vero, ma era solo il vecchio establishment che difendeva uno dei suoi piuttosto che una difesa del risparmio dall’attacco di Sindona. Tanto è vero che, mentre Sindona veniva bloccato su questo fronte, nello stesso tempo veniva lasciato libero di fare quello che voleva nelle sue banche. 
Scrive Viola di Michele Sindona: «Per la sua fantasia criminale, per la sua abilità mistificatoria, per i modi contorti di agire, per la fredda determinazione con cui era solito portare a termine i suoi disegni, Sindona è indubbiamente uno dei criminali socialmente più pericolosi che la storia giustiziaria ricordi. Le componenti costanti che hanno animato le sue azioni, in tutti questi anni, sono state quelle della vendetta, della ritorsione, della menzogna. Fornito di un’intelligenza viva, ma dedita al male, Sindona è un uomo pronto a tutto, a truffare, a ricattare, a ingannare, a minacciare, a mistificare la realtà, a tramare, a uccidere. Un uomo che non si è fermato di fronte a niente, animato solo dalla voglia di rivincita, a tutti i costi, pronto a macchiarsi dei più terribili delitti pur di affermare se stesso. è giunto il tempo che egli risponda dei suoi crimini dinanzi alla giustizia».
La morte di Giorgio Ambrosoli non è stata inutile.

 
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