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I mercanti della paura e la fabbrica dei colpevoli
I servizi segreti costruiscono un nuovo nemico
Tratto da "Le Monde Diplomatique" aprile 2005

Con la scomparsa del «pericolo comunista» e dell'«impero del male», i servizi segreti europei e americani sono stati privati di un nemico che giustificava la loro esistenza e i fondi stanziati. Dopo l'11 settembre, facendo leva sulle attività dei gruppi terroristi, eterogenei e disparati, hanno costruito un nuovo nemico strategico, portatore di una visione globale e deciso a mettere in pericolo i valori fondamentali della libertà e della democrazia.
Laurent Bonelli

«Siamo entrati in un nuovo periodo della storia del terrorismo. Questa nuova fase, meno regionale e nazionale, è caratterizzata da un terrorismo suicida, da attentati ad opera di terroristi appartenenti a gruppi che non hanno alcun interesse al negoziato, e cercano volontariamente di infliggere danni gravissimi ai civili (1)». In questi termini, dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 negli Stati uniti, la direttrice generale del Security Service britannico (M15) Eliza Manningham-Buller ha fedelmente riassunto le difficoltà che i gruppi del tipo di al Qaeda presentano per le autorità politiche e i servizi d'informazione occidentali.
In effetti però, la lotta contro il terrorismo è assai meno univoca di quanto potrebbero far pensare le virili dichiarazioni di fermezza dei vari ministri degli interni (si ricorderà la frase di Charles Pasqua: «Bisogna terrorizzare i terroristi»). È piuttosto il risultato di molteplici transazioni tra i governi, le agenzie di informazione e i gruppi clandestini, ove ciascuno fa giocare i propri interessi politici e organizzativi e tenta di imporre la propria «verità».
Il termine «terrorismo» non descrive peraltro une realtà obiettiva e valida per tutti. Durante la seconda guerra mondiale, per le forze armate tedesche i combattenti della Resistenza erano terroristi; e oggi questo termine è applicato dai russi ai guerriglieri ceceni.
D'altra parte, i gruppi clandestini non rivendicano mai questa definizione, ma scelgono di definirsi, a seconda dei casi, «combattenti della libertà», «nazionalisti», «avanguardia del proletariato», «soldati dell'islam» ecc. L'etichetta di «terrorismo» non è dunque altro che uno strumento per delegittimare determinati movimenti e le loro rivendicazioni.

Ciò spiega da un lato l'impossibilità di arrivare a una definizione unanime del terrorismo, nel tempo e nello spazio, e dall'altro le diverse strategie usate dai governi per affrontare questo fenomeno: il non intervento, le pressioni, il negoziato, la repressione poliziesca o l'azione militare. Le risposte dipendono dai rapporti di forze politici tra le parti in campo, dalla loro evoluzione e da quella degli obiettivi dei gruppi clandestini, oltre che dalle diverse modalità d'azione. Nel confronto con questa violenza politica, i servizi di informazione giocano un ruolo centrale: quello di fornire alle autorità, attraverso la loro opera di reperimento, identificazione e sorveglianza, le conoscenze che consentano di anticipare le crisi e la loro evoluzione, di eleggere i propri interlocutori e di essere al corrente delle strategie di questi avversari. Ma il loro ruolo non è certo soltanto quello di semplici strumenti dei decisori politici. Le strategie che mettono in campo sono numerose, con azioni volte a squalificare pubblicamente taluni gruppi, a sabotarne le iniziative, a distruggere - moralmente e a volte anche fisicamente - i loro leader, a demoralizzare i militanti o a esacerbare le loro tensioni interne (2). Nel caso dei servizi di informazione francesi, noti con la sigla di Rg (Renseignements Généraux), queste pratiche erano addirittura assegnate come compito esclusivo di alcune sezioni, dai metodi discreti e a volte illegali: la sezione manipolazione, il gruppo delle inchieste riservate e altre cellule operative più informali. In Spagna, il Cesid dava il suo appoggio ai Gal (Gruppi anti-terrorismo di liberazione) che verso la fine degli anni '80 assassinarono alcuni baschi rifugiati in Francia. In Gran Bretagna, i servizi di informazione hanno partecipato all'elaborazione delle pratiche di «shoot to kill» per l'eliminazione di presunti militanti dell'Ira (Armata Repubblicana Irlandese). In altri termini, questi servizi funzionano come un vettore parzialmente autonomo dell'esercizio della violenza di stato; e influiscono con le loro azioni sia sulle strategie dei gruppi clandestini che su quelle delle autorità. Ma soprattutto, le loro attività consuete - selezione delle informazioni, analisi, interpretazione, prospettive - partecipano alla delimitazione del gioco politico. I servizi di informazione contribuiscono infatti ad ammettervi, o al contrario ad escluderne taluni interlocutori qualificandoli o squalificandoli in base alle loro proprie valutazioni.

E in questo senso, facendo pesare le loro specifiche modalità di percezione, essi giocano un ruolo, spesso misconosciuto, di guardiani dell'ordine politico.
Al di là delle differenze, tutti i membri dei servizi di informazione hanno in comune la tendenza ad assegnare un ruolo centrale ai rapporti di forze politici. In questo senso, i princìpi che informano la loro azione sono opposti a quelli dell'apparato giudiziario, il cui punto di riferimento centrale è il diritto (la legge). Anche quando sono poliziotti, gli agenti dell'informazione si distinguono dai loro colleghi della polizia giudiziaria o urbana, e non solo per la diversità della loro missione. Nella misura in cui la loro carriera professionale si svolge essenzialmente nell'ambito dei servizi di informazione, essi finiscono per interiorizzarne la prassi e la consuetudine burocratica, e una visione del mondo che è retaggio della loro storia. 
E questo apprendistato forma in loro propensioni specifiche, caratterizzate dall'interesse per il gioco politico, da una notevole competenza pratica dei suoi meccanismi e obiettivi, nonché dall'attaccamento all'ordine costituito e alla sua conservazione. Così la logica del sospetto, che caratterizza in genere la figura del poliziotto, viene importata nell'attività politica: e ciò aiuta a comprendere il frequente ricorso alle spiegazioni in termini di «complotto» e di «manipolazione».

Il controllo dei gruppi più radicali Una delle manifestazioni più esplicite di queste propensioni è la tendenza dei servizi di informazione a prestare ai propri avversari un grado di organizzazione che nelle loro relazioni o sintesi è spesso sopravvalutato. Ogni minima iniziativa locale viene interpretata come parte integrante di una strategia globale, e non di rado si attribuisce ai gruppi o agli individui autonomi il ruolo di agenti di una ben strutturata organizzazione clandestina. Ad esempio Yves Bertrand, che ha diretto gli Rg dal 1992 al 2004, ha commentato il servizio di sorveglianza nelle moschee nei seguenti termini: «Siamo stati, ad esempio, particolarmente vigili dopo gli attentati dell'11 settembre 2001. Vari osservatori si aspettavano numerosi atti di sedizione (...). Curiosamente, i responsabili delle moschee e delle associazioni hanno controllato benissimo le loro truppe - cosa che peraltro non dovrebbe affatto rassicurarci. Ciò significa (...) che la comunità è assai ben controllata da queste associazioni (3)».

In questo tipo di analisi, la calma è peggiore della tempesta: si pensa che dissimuli qualcosa di anche più inquietante. Nel prisma di questa visione minacciosa del mondo, in cui l'occulto predomina sul visibile, la riprovazione quasi unanime espressa per quei sanguinosi attentati diventa un ulteriore motivo di preoccupazione, e quindi una giustificazione in più per intensificare l'attività di sorveglianza.
Ecco perché la tendenza a «gonfiare» la minaccia, anche se non è necessariamente cinica, va indubbiamente a tutto vantaggio dei servizi e dei loro agenti, ai quali assicura vantaggi tanto materiali (in termini di stanziamenti di mezzi e di fondi) quanto simbolici (importanza attribuita ai servizi, riconoscimenti personali).
Per quanto riguarda l'islam, la sorveglianza sulle comunità musulmane, e in particolare sui luoghi di culto, sui leader e sulle associazioni religiose è iniziata assai prima degli attentati che hanno colpito il World Trade Center di New York e il Pentagono. Per il controspionaggio è un'attività abituale. Peraltro, i servizi di informazione di vari paesi d'emigrazione (in particolare del Maghreb) si servono da tempo delle infrastrutture religiose per controllare i loro esiliati.
Ma l'interesse delle agenzie occidentali per la comunità musulmane ha preso una piega molto diversa in seguito a vari eventi internazionali legati all'islamismo politico. In Francia, le principali tappe dello sviluppo delle sezioni specializzate dei servizi informativi coincidono con la rivoluzione iraniana del 1979, gli sviluppi della situazione in Medio oriente, gli attentati della rete Fouad Ali Saleh del 1985-86, e soprattutto con la guerra in Algeria dopo il giugno 1991, sfociata nel 1995 su una nuova ondata di attentati. L'attenzione si era concentrata allora sulle attività di gruppi islamisti armati (essenzialmente algerini) sia per contrastare le loro velleità di azioni violente sul territorio che per scompaginarne la logistica (propaganda, reclutamento, circuiti di finanziamento ecc.).

In Gran Bretagna, l'attenzione dei servizi di informazione per i musulmani è suscitata dapprima dall'afflusso di rifugiati pakistani e dei Fratelli musulmani braccati nelle ex colonie britanniche; ma resterà marginale a lungo, finché l'attenzione sarà focalizzata sul conflitto con l'Irlanda del Nord. In Spagna il cambiamento è ancora più recente, dato che fino a poco tempo fa le energie dei servizi di informazione spagnoli sono state quasi totalmente assorbite dalla questione basca. Gli attentati dell'11 settembre 2001 e dell'11 marzo 2004 hanno però ridefinito, anche se non in maniera uniforme, l'attività di queste agenzie; e hanno soprattutto modificato radicalmente le abituali modalità d'azione, storicamente costituite, nei confronti della violenza politica. Improvvisamente, in tempi di pace, sul territorio di uno stato occidentale si è perpetrato un massacro di massa, senza riguardo alcuno per la qualità (sociale, politica o confessionale) delle vittime. E soprattutto, questi attentati hanno sovvertito i principi fondamentali che erano stati alla base della visione e della suddivisione dell'arena politica. I loro autori non si richiamano alle rivendicazioni etno-nazionaliste o di classe che in passato avevano caratterizzato la violenza politica, e danno prova dello stesso atteggiamento in un gran numero conflitti, compresi quelli che coinvolgono (ad esempio in Palestina o in Cecenia) i movimenti radicali musulmani. I rapporti con i movimenti che si richiamano ad al Qaeda, al di là del loro disdegno per il negoziato politico tradizionale, sono resi anche più complessi dall'autonomia tattico-strategica di questi gruppi, privi oltre tutto di una precisa base territoriale o sociale. A differenza di altri gruppi politici clandestini, per i quali i servizi di informazione avevano interlocutori identificabili - sia all'interno stesso di quei movimenti, sia presso entità politiche di facciata o in seno ai governi che li sostenevano - le organizzazioni di questo tipo si presentano come «un nemico anonimo e senza volto (4)». Si tratta dunque di reperire, in seno alle comunità musulmane, gli individui suscettibili di entrare a far parte dei gruppi radicali.

Oltre a sorvegliare le moschee, i luoghi di predicazione, le associazioni culturali ecc., alcuni servizi di informazione ricorrono sempre più spesso all'elaborazione di «profili» considerati tipici in questo senso. Si tratta di mettere a punto, prendendo le mosse dallo studio di una serie di casi di individui coinvolti in azioni clandestine, modelli di traiettorie sociali, per poi sottoporre le persone rispondenti a quelle caratteristiche a una particolare sorveglianza. Ad esempio, l'attenzione delle agenzie scatta quasi automaticamente in presenza di un insieme di dati quali l'origine straniera (soprattutto se di un paese musulmano), un livello di studi relativamente elevato, la frequentazione di una determinata associazione o moschea (in particolare se «fondamentalista» o «salafista»), oltre a frequenti viaggi o soggiorni all'estero e interruzioni dell'attività professionale. Ciò vale anche per i «convertiti», vera e propria metafora del nemico invisibile: confusi tra la popolazione, beneficiano di tutti i vantaggi della nazionalità (libera circolazione, protezione giuridica, agevolazioni amministrative ecc.). La legittima preoccupazione dei governi, presi in contropiede da questa minaccia, e le difficoltà incontrate nel fronteggiarla sono invocate per spiegare e giustificare l'adozione di mezzi straordinari e di norme limitative della libertà, nel campo della polizia come in quello giudiziario (5). Per molti aspetti, siamo in presenza una riconfigurazione dell'equilibrio tra la logica dell'informazione (il sospetto) e quella del mondo giudiziario (l'esibizione della prova). La figura del sospettato prende così il sopravvento su quella del colpevole. Il campo di detenzione di Guantanamo incarna l'esempio più sconvolgente di questa logica dell'informazione: rinchiudere gli individui sospetti per estorcere loro notizie, fuori dalla tutela di ogni più elementare garanzia giuridica. Ma per quanto estremo, questo esempio non rappresenta affatto un caso isolato. In Gran Bretagna, l'Anti-terrorism, Crime and Security Act, modificato nel dicembre 2001, ha consentito la detenzione illimitata di persone sospettate di essere coinvolte nel terrorismo internazionale, senza che la loro colpevolezza sia mai stata giuridicamente accertata (vedi box).

In Francia, un'applicazione molto estensiva (in particolare per quanto attiene al capo d'imputazione di «associazione a delinquere in relazione con un'impresa terroristica») della normativa anti-terrorismo del 1986, consente un tipo di strategia denominata «calcio nel formicaio»: l'arresto in massa di individui sospettati di intrattenere legami con gruppi clandestini allo scopo di «disorganizzare le reti». E poco importa se al processo, dopo una detenzione preventiva durata magari 24 mesi, la stragrande maggioranza degli arrestati risulta innocente. Come regola generale, per quanto riguarda il «terrorismo islamista», si nota un'enorme sproporzione tra il numero degli arresti e delle ipotesi di reato e quello dei casi accertati di colpevolezza.
Questo clima di sospetto, lungi dal limitarsi alla lotta al terrorismo, mette oltre tutto in forse, soprattutto in Francia, la lealtà delle comunità musulmane. Nell'ottica dei servizi di informazione, condizionata dalla loro predisposizione antisovversiva, ogni elemento, evento o attività culturale o religiosa è visto in relazione all'ipotesi di velleità politiche di sovversione dell'ordine costituito da parte di organizzazione strutturate che agirebbero sotto mentite spoglie.

Ad esempio, i servizi di informazione francesi sono particolarmente attenti ai gruppi musulmani dediti al proselitismo e alla predicazione nei quartieri popolari (quali ad esempio la Jama'a at-Tabligh), e persino al ruolo conciliatorio di talune associazioni o da leader religiosi in situazioni di tensione in qualche quartiere suburbano.
Ma data l'impossibilità di misurare l'impatto diretto di queste influenze, si ricorre alla nozione alquanto vaga di «comunitarismo», percepito come minaccia all'unità repubblicana attraverso l'esaltazione di un'identità «musulmana».

I servizi francesi hanno persino elaborato una «griglia di valutazione contabile» del grado di ripiegamento comunitario dei vari quartieri, sulla scorta di otto indicatori: l'esistenza di un «numero rilevante di famiglie immigrate, talora praticanti la poligamia» e di un «tessuto associativo comunitario»; la «presenza di negozi etnici»; il «moltiplicarsi dei luoghi di culto musulmani»; la «diffusione dell'abbigliamento orientale e religioso»; la «presenza di scritte antisemite e antioccidentali sui muri»; l'«esistenza, in seno alle scuole, di classi separate per i figli degli immigrati più recenti che non parlano il francese»; e infine la «difficoltà per i francesi d'origine a rimanere nel quartiere».
Questi indicatori si rifanno all'immagine di un'integrazione repubblicana legata al modello storico di sviluppo dello stato, e caratterizzata dalla cancellazione delle differenze regionali e culturali. E servono quindi a richiamare all'ordine qualsiasi manifestazione che contrasti in qualche modo con quel modello di riferimento.
Terrorismo nelle zone sensibili Si impone però la massima prudenza: le adesioni religiose possono infatti rivestire le più diverse forme, che vanno da un polo spirituale a un altro più culturale, e si richiamano a motivazioni molto diverse, dando luogo in seno all'islam a pratiche, comportamenti e usanze sociali che non hanno alcun legame tra loro. Cosa può esserci in comune tra la passione per gli studi teologici di uno studente o di una studentessa, e il disagio di molti adolescenti in situazioni socialmente deteriorate, che cercano di ritrovare una qualche forma di dignità personale «fabbricandosi» un'identità più o meno legata all'islam (6)? Come si fa a omologare la demonizzazione dell'Occidente predicata da alcuni capi religiosi con le critiche alla politica israeliana da parte di associazioni comunitarie? E cosa ha a che fare tutto questo con il radicalismo di certi gruppi di giovani delle aree suburbane che votano per il Fronte nazionale - come del resto molti operai condannati al precariato - quasi a segnare un'ultima frontiera rispetto al gruppo nel quale temono di cadere? O di altri che incolpano della propria attuale situazione «le donne», «gli ebrei» o «l'Occidente»? Le logiche sono diverse, così come i movimenti e le manifestazioni. Certo, in ciascuno di questi casi si arriva a volte ad azioni o gesti intollerabili, che vanno combattuti, senza però fare di ogni erba un fascio.

Ma è proprio questo che stanno facendo i mercanti della paura, interessati a proiettare un'immagine apocalittica del mondo, al servizio dei loro interessi economici o politici. In netto contrasto con le ricerche su vari individui coinvolti in atti di violenza, dalle quali emerge la singolarità delle traiettorie e delle vicende biografiche all'origine di queste scelte (7), altri (ad esempio Alain Bauer o Xavier Raufer) non esitano a vedere in un incendio volontario un «attentato a bassa intensità»; o ad affermare che «a partire da aree di illegalità inaccessibili alle forze dell'ordine e formicolanti di armi da guerra, assicurare la logistica di una rete terroristica è un gioco da bambini, nel senso stretto del termine (8)». Spiegazioni del genere vorrebbero imporci un'immagine costruita in qualche cenacolo strategico alla ricerca di un nemico globale dopo la caduta dell'Urss (9): quella di una religione omogenea e guerriera, con ambizioni di conquista e un crescendo di rivendicazioni per l'esercizio del culto musulmano nei paesi occidentali. E tutto questo si presenta aggregato in un unico blocco minaccioso.
Quanto alla critica del «comunitarismo», quale si sviluppa nei discorsi ufficiali, potrebbe non essere altro che un facile espediente per lavarsi le mani dagli effetti devastanti della politica economica e sociale portata avanti da un ventennio a questa parte. Nel 2004, nelle zone urbane «sensibili» (Zus), i giovani tra i 20 e i 29 anni disoccupati e esclusi da ogni attività (anche di formazione) erano il 33%, contro una media del 12% a livello nazionale. Per gli immigrati non europei che risiedono in quelle zone la percentuale di opportunità di trovare un posto di lavoro è inferiore del 17,2 a confronto con i loro omologhi di nazionalità francese (10). Se a tutto questo si aggiunge l'assenza di diritti politici in buona parte dei casi, e in molti altri l'auto-esclusione dovuta alla distanza crescente tra i partiti (in particolare di sinistra) e gli ambienti popolari, e se si tiene conto del degrado dei servizi pubblici, delle molteplici forme di discriminazione quotidiana, dei reiterati controlli di polizia e della giustizia spesso negata, le alte strida che sentiamo lanciare sul pericolo «comunitarista» potrebbero far sorridere.

Passando sotto silenzio le condizioni di precarietà di quelle aree urbane (e le relative cause) si pronuncia la condanna morale di comportamenti che di fatto sono forme di adattamento, individuali o collettive, a quello stato di indigenza. E ci si mobilita in nome di un progetto repubblicano idealizzato, avendo cura di occultarne le carenze in termini di uguaglianza.
Comunque sia, che si parli di terrorismo o di «comunitarismo», l'islam appare oggi come un progetto di sovversione globale suscettibile di prendere il posto del comunismo, battuto dalla ristrutturazione del capitalismo post-fordista e dal tracollo dell'Urss. Di fatto, l'islam presenta le caratteristiche cumulate di una dimensione transnazionale e della presenza di importanti comunità insediate nei paesi occidentali, ai gradini inferiori della gerarchia sociale. Si tratta di interpretazioni che provengono direttamente dal lavoro dei servizi di informazione e dalla predisposizione dei loro agenti. E il loro successo si spiega da un lato con le posizioni istituzionali che occupano nella divisione del lavoro politico, e dall'altro con il discorso di taluni gruppi religiosi, anch'essi interessati a polarizzare le posizioni, ostentando un peso, una forza e una credibilità che di fatto non hanno. Ma con buona pace degli uni e degli altri, non tutti gli immigrati sono musulmani, e non tutti i musulmani sono militanti politici dell'islam.

Attraverso le riformulazioni interessate della questione sociale, in un'ottica religiosa o di sicurezza, si dissimulano le cause di fondo delle effettive difficoltà in cui versano oggi i ceti popolari, logorati, politicamente e socialmente, da decenni di riforme neo-liberiste.

Così si ridefiniscono o si suscitano al loro interno linee di frattura che rendono ancora più ardua la riconquista collettiva di un futuro migliore. Ma se fosse proprio questo il loro progetto?

note:
(1) Global Terrorism: Are we meeting the challenge? Conferenza al City of London Police Headquarters, ottobre 2003. Quest'inchiesta comparativa riguarda i servizi di intelligence francesi Renseignements généraux (Rg) e Direzione della Sorveglianza del Territorio (Dst) ; quelli britannici : Security service et Special branch (So12) e quelli spagnoli: Comisaría general de información (Cgi) e centro nacional de intelligencia (Cni), succeduto nel 2002 al Centro superior de información de la defensa (Cesid).
(2)
Gary T. Marx, Undercover. Police Surveillance in America. University of California Press, Berkeley, 1988.
(3) Souligné par l'auteur. Rapporto di Jean-Louis Debré sulla questione dei segni religiosi portati a scuola, (n° 1275) Assemblea nazionale, dicembre 2003.
(4) L'espressione è di Jorge Dezcallar de Mazarredo, direttore del Cesid spagnolo e quindi del Cni, dal 2001 al 2004.
(5) Un osservatorio delle pratiche e delle politiche in materia di anti-terrorismo nei diversi stati dell'Unione e a livello comunitario è stato istituito nel quadro del programma europeo Challenge. I dati e le analisi sono accessibili su www.libertysecurity.org.
(6)
Si veda Jocelyne Césari, Musulmans et républicains. Les jeunes, l'islam et la France, Bruxelles, Complexe 1998.
(7) Stéphane Beaud e Olivier Masclet, «Un passage à l'acte improbable? Notes de recherche sur la trajectoire sociale de Zacarias Moussaoui», French Politics, Culture and Society, vol. 20, n°2, New York Univerity, New York, estate 2002.
(8) Alain Bauer e Xavier Raufer, La guerre ne fait que commencer, J. C. Lattès, Parigi 2002.
(9) Segnatamente Samuel Huntington, Lo scontro di civiltà, Garzanti, 2001.
(10)
Observatoire des zones sensibles, Rapport 2004, Editions de la Div, 2004. Le Zus rappresentano 751 quartieri distribuiti sull'insieme del territorio e contano 4 672 089 abitanti.
(Traduzione di E. H.)


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