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Lo strano caso del dottor Fiat e di Mr. Luke
di Carlo Bertani – 3 luglio 2007

“Pensavo si trattasse di pazzia, ma ora comincio a temere che si tratti di una cosa ignominiosa.”
Robert Louis Stevenson

Il mondo dell’informazione è una vera macina, che tutto mastica, tritura e digerisce: se, poi, la digestione richiede parecchio bicarbonato, questi sono affari nostri, non dell’informazione.
Le recenti affermazioni di Mr. Luke di Montezemolo – “il sindacato dei fannulloni” – subito, peraltro, smentite dal dottor Fiat, sono state troppo presto gettate nel dimenticatoio: non tanto per il tono offensivo e terribilmente démodé dell’esternazione, quanto per la sottovalutazione delle cause che possono averla generata.
Qualcuno ha scorto in quella frase – sprezzante, da vera”razza padrona” – il ticket per un futuro ingresso in politica del signor Fiat: vuoi vedere che, alle prossime elezioni, potremo scegliere fra Fiat e Mercedes, Lancia ed AUDI? Poi, ripensandoci un attimo, ho scosso la testa: per operare simili scelte, basta recarsi da un concessionario auto.

Forse un nuovo partito? E quale? Il MENEF, Movement ENgeenering and Entourage Fiat, oppure il REGOF, Raggruppamento Esterno Giovani Operatori Finanziari?
Di certo, il primo problema del nuovo partito sarebbe la leadership: scartati la Moratti e Veltroni (entrambi parcheggiati nelle due capitali dell’impero, nell’attesa di future destinazioni) non rimarrebbero che il dottor Fiat e Mr. Luke.
La scelta sarebbe ardua perché i due individui – pur ammettendo una certa somiglianza fisica – divergono, e parecchio, per le loro impostazioni ideologiche.

Mentre il dottor Fiat sembra guardare più alla tradizione – meglio quattro soldi da Prodi, sopportiamo il sindacato, paghiamo qualche tassa in più e campiamo tranquilli – Mr. Luke, come un rinato Brenno, getta pesantemente la spada nella contesa: distruggiamo la Triplice , affondiamo Roma Ladrona, annettiamo l’Italia Meridionale alla Libia ed il resto come nuova stellina della Stars and Stripes.
Inutile ricordare che, da simili prodromi, la linea politica del futuro partito (d’ora innanzi, per comodità, nel testo sarà MENEF-REGOF) nasce viziata da frantumazioni laceranti.
Mai come oggi, per riuscire a dissipare almeno un po’ di nebbia che avvolge il futuro politico-industrial-finanziario del paese, conviene gettare lo sguardo indietro, capire come si è giunti a tanto.

In simili frangenti, quando l’oggi è così frastagliato da sembrare una ratatouille – e non distingui nemmeno una melanzana da un peperone – conviene affidarsi alla memoria. Sempre meglio dell’isteria vigente ed istituzionalizzata.
Ricordo, in anni molto lontani, intorno al 1980, un'intervista concessa da quello che allora poteva essere considerato un altro signor Fiat: oggi, sappiamo che quel signor Fiat non ci fu mai; a quell’epoca, però, non potevamo saperlo.
Non ricordo se la rivista era “Oggi” o “Gente”, chi fu il giornalista che raccolse l’intervista, ma ricordo bene quale signor Fiat rispondeva alle domande e ne fui molto, molto stupito.

Un giovane Edoardo Agnelli – prima di Malindi, prima del suo incomprensibile arrovellarsi su sé stesso – rispondeva alle domande di un giornalista sul futuro della FIAT. Non era forse l’erede dell’avvocato Agnelli?
Parlava di futuro industriale, di rapporti internazionali, del cugino Giovanni Alberto, che aveva appena terminato il servizio militare nei Carabinieri. Altra epoca.
Il fulcro dell’intervista era la visione che il giovane Agnelli aveva del futuro, dell’azienda di famiglia.
Qualcuno, in quegli anni, ipotizzava una rivalità fra i due cugini, ma era lo stesso Edoardo a dissiparla: «Sono contento che mio cugino desideri occuparsi della FIAT auto, della parte industriale, perché io vorrei occuparmi dei rapporti internazionali del gruppo.»

Insomma, ben lontano dall’icona del giovane debosciato che è passata alla storia (che dire, allora, del nipote Lapo e del suo amore per le “piste”?), Edoardo Agnelli spiegava qual era il suo pensiero, la sua visione della più grande azienda italiana. E c’è da stupirsi.
Erano anni nei quali si discuteva sul futuro dei trasporti – mica come oggi, che si decide soltanto per il diktat di questo o quel gruppo finanziario, per le vicinanze o per le divergenze con la burocrazia europea – e la FIAT , ovviamente, era il fulcro della discussione.
Il pensiero di Edoardo Agnelli, sinteticamente, era questo: ritengo la FIAT una grande opportunità per l’Italia. Il futuro tecnologico del paese, ovviamente, dovrà essere deciso dalla classe politica: il compito della FIAT sarà quello di farsi trovare preparata all’appuntamento.

Il giovane Agnelli portava anche degli esempi: se la classe politica deciderà di dotarsi di centrali nucleari (tema molto sentito in quegli anni), la FIAT dovrà essere in grado d’entrare in quel mercato. Se, invece, si sceglierà la ferrovia, l’azienda produrrà locomotori. Oppure navi, aerei: insomma, la visione di Edoardo Agnelli era quella di un’azienda che era al servizio del paese, mica quella di un gruppo che piegava il paese ai suoi desideri.
Aprendo una parentesi, notiamo che questa impostazione fu quella dei grandi gruppi industriali tedeschi (Krupp, Blohm & Voss, Thyssen, ecc) che – nel bene e nel male – seguirono le vicende politiche della nazione, nazismo compreso, compiendo la loro funzione di produttori di beni.

Anche il cugino Giovanni Alberto, che diresse per pochi anni la Piaggio , confermava quel modo d’intendere il futuro industriale del paese: il sindaco comunista di Pontedera dell’epoca, lo ricorda come una persona con la quale si riusciva sempre a ragionare ed a trovare una soluzione soddisfacente per tutti, un vero capitano d’industria, ma anche un sereno e pacato mediatore fra interessi non sempre convergenti.
Non sapremo mai se le riflessioni di Edoardo Agnelli e il comportamento del cugino avrebbero aperto una nuova stagione nei rapporti fra il potere politico e gli imprenditori, fra chi deve decidere cosa fare e chi deve attuarlo: un destino tragico si frappone fra noi e quelle risposte.

Ma la FIAT è a Torino, verrebbe da dire, e mai detto fu più vero.
A Torino regnava incontrastata Sua Maestà Giovanni Agnelli, che oscurò per decenni anche il fratello Umberto: lo inviò addirittura a Roma, a fare il senatore, mentre il destino industriale dell’azienda lo decidevano lui e Romiti. Già, Romiti.
Se ricordiamo la solidità dei modelli FIAT dell’epoca, possiamo comprendere che non si puntava certo sulla qualità, ma sul risparmio per accumulare capitali. Il Paese? Il futuro del gruppo industriale? Il primo era visto come un plebeo parco buoi: acquistate le nostre auto, altrimenti non trovate i pezzi di ricambio, e quando iniziano a marcire – quando le carrozzerie “fioriscono” di ruggine come cavolfiori – metteteci dello stucco. Così s’andava avanti.

Il Paese, inoltre, era considerato come un’entità informe, da piegare, dirigere, sostenere o cassare avendo come guida i soli obiettivi del gruppo FIAT. Memore dei tempi che furono, soltanto pochi anni or sono, il giovane Lapo si lamentò perché “lo Stato non acquistava solo prodotti FIAT”.
L’accoppiata Gianni Agnelli-Cesare Romiti fu vincente sotto l’aspetto finanziario: i due raggranellarono fior di quattrini, per l’IFI e per gli azionisti, ma non s’accorsero (?) che stavano scavando la fossa alla parte industriale dell’azienda.
Venne il 1989, e fu rivoluzione.

Per comprendere la portata del 1989, riflettiamo che il più esperto Ministro degli Esteri che mai l’Italia abbia avuto – Giulio Andreotti – prima del fatidico anno, giunse a dire che non avrebbe puntato il becco di un quattrino sull’unificazione tedesca.
Quel mondo, quelle persone – nate e cresciute nel mondo diviso in blocchi – non riuscivano nemmeno ad immaginare il cambiamento. S’aprirono le porte del Paradiso o dell’Inferno, secondo chi era sottoposto al giudizio di un mercato diventato internazionale, globale, nel quale chiunque vendeva ed acquistava senza più curarsi di frontiere e nazioni.
Il gruppo, in quegli anni, perse importanti collaborazioni ed accordi (pensiamo alla vicenda SEAT, prima consociata FIAT e poi finita nel gruppo Volkswagen) per giungere all’accordo con General Motors – che doveva sancire l’ingresso della FIAT nel “salotto buono” dell’industria automobilistica mondiale – e che terminò con un’ignominiosa “liquidazione” da parte del gruppo americano. Beccatevi ‘sti soldi ed andatevene: fate più danni ad esserci che a non esserci.

Insomma, ci sono tanti modi di far soldi, di fare l’imprenditore, ma non tutti portano alla buona manutenzione ed alla crescita del pollaio: taluni, finiscono per vendere tutto al macellaio, chiudere la porta alle loro spalle ed andarsene. Gli esempi si sprecano: De Benedetti e Olivetti, Gardini e Montedison, Tanzi, la Parmalat e “l’hobby” di falsificare i certificati di credito con uno scanner.
Non sapremo mai se le risposte di Edoardo Agnelli era puri idealismi oppure meditate analisi, così come non potremo mai verificare se la “concordia” sviluppata a Pontedera da Giovanni Alberto sarebbe migrata senza danni nei tetri corridoi di Corso Marconi.

Di certo, sappiamo che il giovane Agnelli fu “beccato” a Malindi, in Kenya, a farsi delle canne o altra roba locale. Che strano, viene da pensare. Mezzo Parlamento si fa le canne, sniffa e non ne beccano mai uno: se lo prendono, gli danno un buffetto.
Nell’aria di Roma è presente la cocaina e, stranezza, nessun rampollo di nobile lignaggio incappa in un pattuglia antidroga. Nei paradisi delle vacanze, il fior fiore della gioventù italiana si reca per dedicarsi a sontuosi festini, dove la droga non è certo estranea. Oh, ne beccassero mai uno!
Se chiamassimo a raccolta i commissari Maigret, Montalbano, Sarti ed altri famosi inquirenti della tradizione letteraria, sono certo che sarebbero insospettiti dalla veemenza e della risonanza che ebbe, su tutti i media dell’epoca, la vicenda di Edoardo Agnelli. Manco fosse stato il figlio di un impiegato dell’anagrafe.

Probabilmente, chiederebbero un supplemento d’indagine, seguirebbero qualche pista legata ai servizi segreti internazionali: Maigret, alla fine, tormenterebbe la pipa, Sarti si farebbe l’ennesimo caffé e  Montalbano, probabilmente, finirebbe per scrivere su un bigliettino spiegazzato un indirizzo.
Di chi? Ah, saperlo.
Certo, non depone a favore di un tranquillo tran tran familiare sapere che Margherita Agnelli – figlia di Giovanni e sorella di Edoardo – sia ai ferri corti, carte bollate ed avvocati in campo, per questioni d’eredità con i figli. I quali, guarda a caso, si chiamano Elkann.

Questi rampolli Elkann, poi, sembrano d’acciaio inossidabile: Edoardo fu preso a farsi le canne a Malindi, e fu spiaccicato come il peggior debosciato della Terra su tutti i tabloid dell’epoca. Lapo è stato preso, colmo di cocaina e quasi in catalessi, in casa di un noto transessuale, in compagnia di persone che definire “poco affidabili” è solo un eufemismo: eppure, è già rientrato dello staff FIAT. Miracoli dei tempi che cambiano? No, qui i miracoli sono altri, solo che dovremmo chiederlo a Montalbano.
Se, da un lato, troviamo John e Lapo Elkann, dall’altro ci sono il dottor Fiat e Mr. Luke, ai quali l’azienda è stata affidata in extremis, prima del definitivo tracollo.

Forte dell’esperienza maturata in Ferrari, il dottor Fiat ha trovato un buon amministratore delegato – Marchionne – e si è ricordato che la sua “guida”, Gianni Agnelli, andava a vedere la Juventus insieme a Luciano Lama.
Ha acconsentito alla politica sparagnina di Prodi: si potrà togliere, forse domani, qualche punticino di tasse, ma in cambio vogliamo la pace sociale. Insomma, il dottor Fiat vivacchia, s’accontenta di quel che passa il convento: non ride, ma nemmeno si dispera.
Talvolta riflette, e medita che quelle vecchie idee di Edoardo – una grande azienda, moderna ed al servizio di un paese avanzato – non erano poi tanto male, sì, non c’era malaccio. Poi, sospira e se ne dimentica.

A volte – nessuno però ne conosce la ragione – s’arrovella e si tormenta: non sappiamo dove finisca in quelle notti di sofferenza, dove anneghi i suoi tormenti. Come per magia, alla sua scomparsa, riappare Mr. Luke.
Costui ha la forza di Ulk e l’arroganza di un vero capopopolo: arringa le folle imprenditoriali scatenando gli appetiti più viscerali: siano schiavi! Noi, razza eletta!
Il giorno seguente il dottor Fiat smentisce, riunisce capannelli di giornalisti per stemperare le follie notturne del suo alter ego, ma il risultato non è sempre all’altezza delle aspettative
Forse, la ragione di tanta sofferenza è tutta in quell’antico dilemma: un gruppo industriale che punta solamente a soddisfare gli azionisti – ma allora non bisogna mai chiedere soccorso allo Stato, soprattutto quando le cose vanno male – oppure una collaborazione sugli obiettivi e sui percorsi da attuare – paritaria, con la verifica dei piani industriali – con lo Stato e il sindacato?

Vorremmo fornire alla coppia una risposta univoca, ma ciascuno faccia il suo: chi scrive, espone soltanto dei fatti e delle idee. Ognuno, poi, ne tragga le conseguenze.
Di certo, però, in un momento nel quale s’appressano grandi mutamenti – bisognerà passare, prima o dopo, dai combustibili fossili alle rinnovabili, dalle auto a benzina a quelle ad idrogeno – una maggior collaborazione fra lo Stato e le grandi aziende produttrici sarebbe auspicabile.
In Germania, dove questa tradizione è più viva, sono già riusciti a compiere il primo giro di boa: là, centinaia di migliaia di persone lavorano nell’alta tecnologia legata alle rinnovabili.

I nomi? Alcuni nuovi, come Wuerth o Vestas ma altri sono quelli di sempre, Siemens, ad esempio. E’ addirittura rinata la Zeppelin , quella dei dirigibili, che oggi si chiama Zeppelin NT (Neue Technologie), perché la rivoluzione nei trasporti che porteranno i nuovi modelli tecnologici potrebbe trovare nicchie di mercato anche per i vecchi “sigari volanti”, che consumano pochissima energia.
Qualcuno si diverte a dissertare che i “numeri” delle energie rinnovabili sono ancora troppo esigui per assicurarci il futuro in campo energetico: in parte è vero. Le stesse persone, però, dovrebbero riflettere in una prospettiva storica (che non tutti sanno attuare): la marineria velica continuò ad esistere per quasi un secolo dopo l’avvento del vapore.

Anche se l’oggi non è completamente soddisfacente sotto l’aspetto dei rendimenti energetici ed economici, sappiamo che questi processi, una volta avviati, conducono a regolari miglioramenti delle tecnologie utilizzate man mano che scorre il tempo. Finché, un giorno, diventano economicamente vantaggiosi e tutti richiedono quelle soluzioni.
Domanda: quando ciò avverrà, chi sarà a beneficiarne? Chi avrà alle spalle decenni di studi e realizzazioni, oppure chi si sarà soltanto divertito a cassare tutte le ipotesi, senza proporre nulla? Le “nuove” proposte sarebbero il carbone e il nucleare?
Qualcosa del genere sta già avvenendo: la Cina ha ripartito equamente i suoi investimenti in campo energetico fra il nucleare e l’eolico. Chi sarà a ricevere quei contratti, se quasi tutte le aziende del comparto eolico sono tedesche e danesi?

E ritorniamo al nostro dilemma: perché l’imprenditoria italiana piange miseria, s’arrabbia, ricatta, foraggia e cerca appoggi nel mondo politico? Queste schizofrenie non servono a niente: sarebbe meglio stendere dei piani industriali convincenti.
L’indiana Tata produrrà dal prossimo anno auto ad aria compressa, negli USA si studiano accumulatori d’energia elettrica (batterie) che funzionano con reazioni biologiche al posto delle tradizionali pile chimiche, per ovvi e convincenti vantaggi di rendimento, e soprattutto, ecologici.

Tutto il mondo della trazione ad idrogeno è da esplorare: dalla captazione d’energia alla trasformazione, per giungere alla distribuzione ed all’utilizzo. BMW ed Honda sono già un passo avanti rispetto agli altri.
Sull’energia, ci sono settori ancora poco studiati: la geotermia – in Islanda hanno iniziato lo sfruttamento delle caldere dei vulcani, non dei soli geyser – oppure le correnti sottomarine. Inglesi e norvegesi hanno affondato degli aerogeneratori modificati per sfruttare i passaggi obbligati, dove la corrente marina è più forte, ma siamo ai primordi, e chi trovasse valide soluzioni in quel campo assicurerebbe al suo paese consistenti contratti e ricadute tecnologiche.
E’ mai possibile che nessuna azienda italiana sia presente in questi settori? Nemmeno una produzione su licenza? In Austria, esistono oramai consorzi ed associazioni che promuovono il “fai da te” per la costruzione dei collettori solari (acqua calda)! In Italia, il nulla.

Ci piacerebbe sognare una nuova Italia, dove lo classe politica sapesse indicare le direttive da seguire e l’imprenditoria facesse il suo mestiere, ovvero produrre ciò che serve, privilegiando la qualità sulla quantità. Forse, era il sogno di quel ragazzo che si gettò da un cavalcavia autostradale – difficile affermarlo con certezza, forse si trattò solo di un sogno di mezza estate – ma, anche se così fosse, sarebbe l’unico sogno che ci condurrebbe fuori dalle peste, e che farebbe sparire finalmente i pessimi incubi, quelli di Mr. Luke.

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Carlo Bertani articoli@carlobertani.it www.carlobertani.it

 

 

 

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