- Dopo l'11 settembre

Chi bombarda non vende
di Naomi Klein - «Internazionale» nr. 514, 14 novembre 2003

Cancellare i contratti. Mandare a monte gli accordi. Queste sono alcune ipotesi di slogan che potrebbero unire il movimento che si oppone all’occupazione dell’Iraq. Finora i dibattiti si sono concentrati sul tipo di richieste da fare: il ritiro completo delle truppe o la cessione del potere alla Nazioni Unite. Ma il dibattito sul «via le truppe» trascura un dato importante. Se domani venisse ritirato dal Golfo anche l’ultimo soldato e andasse al potere un governo sovrano, l’Iraq sarebbe ancora occupato: dalle leggi scritte per l’interesse di un altro paese, dalle aziende straniere che ne controllano i servizi essenziali, dalla disoccupazione al 70 per cento causata dai licenziamenti nel settore pubblico.
Ogni serio movimento per l’autodeterminazione irachena deve invocare la fine non solo dell’occupazione militare dell’Iraq, ma anche della sua colonizzazione economica. Questo significa annullare le riforme modello «terapia d’urto» che il responsabile dell’occupazione statunitense Paul Bremer ha spacciato per «ricostruzione» e cancellare i contratti di privatizzazione seguita a queste riforme. Come? Facile: dimostrando che sono illegali. Violano la convenzione internazionale che regola i comportamenti delle forze occupanti, i Regolamenti dell’Aja del 1907 (che, come le Convenzioni di Ginevra del 1949, sono stati ratificati dagli Stati Uniti) e il codice di guerra dello stesso esercito americano. I Regolamenti dell’Aja stabiliscono che una potenza occupante deve rispettare, «salvo il caso in cui sia assolutamente impedita, le leggi in vigore nel paese». Il governo provvisorio della coalizione ha fatto a pezzi questa semplice regola con allegra noncuranza. La costituzione dell’Iraq vieta la privatizzazione dei beni fondamentali dello stato e proibisce la proprietà straniera di aziende irachene.

Il 19 settembre Bremer ha emanato un decreto, il famigerato Order 39. Ha stabilito che 200 imprese pubbliche irachene sarebbero state privatizzate; che le società straniere possono detenere il 100 per cento di banche, miniere e fabbriche irachene; e che queste aziende possono trasferire il 100 per cento dei loro utili fuori dall’Iraq. L’Economist lo ha definito «il sogno di un capitalista». Il decreto vìola i Regolamenti dell’Aja anche dove dicono che una potenza occupante «sarà considerata solo amministratrice e usufruttuaria degli edifici pubblici, del patrimonio immobiliare, delle foreste e dei fondi agricoli (…) situati nel paese occupato. Deve salvaguardare il capitale di queste proprietà e amministrarle secondo le regole dell’usufrutto». L’usufrutto è un contratto che garantisce a una parte il diritto di trarre beneficio da un bene altrui «senza alterarne la sostanza». Ma è proprio ciò che sta facendo Bremer: cosa altera di più «la sostanza» di un bene del trasformarlo in un bene primario? Questo punto è piuttosto semplice, ed è presente anche nei codici militari statunitensi: bombardare qualcosa non ti dà il diritto di venderlo. Non solo: Bremer lo sa benissimo. In una nota scritta il 26 marzo e trapelata sulla stampa, il procuratore generale britannico Lord Peter Goldsmith avvertiva il suo premier Tony Blair che «l’imposizione di importanti riforme economiche strutturali non sarebbe autorizzato al diritto internazionale». Finora gran parte della polemica sulla ricostruzione dell’Iraq si è concentrata sugli abusi e la corruzione nella stipula dei contratti. Non è questo il punto: anche se le cessioni fossero condotte con la massima trasparenza, continuerebbero a essere illegali per il semplice motivo che non spetta all’America vendere il paese.

Liberi mercati e liberi cittadini
Il fatto che il Consiglio di sicurezza abbia riconosciuto l’autorità dell’occupazione di Stati Uniti e Gran Bretagna non fornisce alcuna copertura legale. La risoluzione approvata dall’Onu a maggio chiedeva agli occupanti di «rispettare i loro obblighi in base al diritto internazionale, in particolare le Convenzioni di Ginevra del 1949 e i Regolamenti dell’Aja del 1907». Secondo molti giuristi questo significa che se il prossimo governo iracheno non vorrà che il paese sia in mano a multinazionali come Bechtel e Halliburton, avrà consistenti basi giuridiche per rinazionalizzare i beni privatizzati.
L’unica via d’uscita per l’amministrazione è far sì che il prossimo governo iracheno sia tutto meno che sovrano. Dovrà essere influenzabile al punto da ratificare queste leggi illegali, che saranno allora celebrate come il felice matrimonio dei liberi mercati con i liberi cittadini. Fatto questo, sarà tardi: i contratti saranno al sicuro e l’occupazione dell’Iraq permanente.
Ecco perché le forze contrarie alla guerra devono usare questa finestra temporale, che si sta richiudendo, per chiedere che il prossimo governo iracheno sia libero dalle catene di queste riforme. E’ troppo tardi per fermare la guerra, ma non per impedire agli invasori dell’Iraq di raccogliere i sostanziosi frutti economici per cui l’hanno voluta. E non è troppo tardi per cancellare i contratti e mandare a monte gli accordi.

 
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