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Volta la carta
di Carlo Bertani – 8 marzo 2007

E al Dio degli inglesi, non credere mai…
Fabrizio De André – Coda di lupo

Fabrizio de André mi scuserà se ho preso a prestito titolo ed incipit, ma è la concomitanza del Festival di Sanremo che scatena reazioni incontrollate fra antichi e recenti neuroni, minuscoli recettori d’informazioni apparentemente dimenticate e che affiorano appena, come foglie di loto sull’acqua.
Verrebbe da dire che esiste ed è esistita un’Italia dimenticata, mai vissuta: probabilmente, i futuri storici faranno fatica ad identificarla. Saranno gli attuali mattatori della scena dell’Ariston ad ottenere un posto nei libri, nelle future cronache? Oppure quei versi mai accettati, mai ammessi, mai desiderati…i tanti DICO della cultura italiana che non si vogliono considerare?

Perché, una nazione che si dice moderna e democratica, scientemente, costantemente, risolutamente nega la parte più avvincente della sua cultura?
Perché dobbiamo ricordare “fin che la barca va” di Orietta Berti e smarrire l’urlo di Venditti – dopo Seveso – quel “risarciteci i cuori!” che sciabolava violento ed inarrestabile, fino agli orizzonti del tempo?
Dobbiamo però riconoscere che la “barca” s’addice all’italico stivale più delle urla: meglio il tran tran che la novità; sì, meglio adagiarci nella normalità e non chiedere molto.

Poi, un giorno, un plebeo Turigliatto – si narra milanese – s’alza e rifiuta d’avallare per l’ennesima volta il solito andazzo: lancia un siluro e la barca si salva soltanto gettandosi in secca. Catturato, viene esposto al pubblico ludibrio e condannato alla perpetua gogna.
Potremmo dissertare all’infinito se sia meglio accettare una mortadella bolognese per arrestare la corsa di un piduista milanese, oppure se era meglio voltare la carta per vedere – come narrava Jannacci – “l’effetto che fa” e rimandare per l’ennesima volta Tremonti a Bruxelles a fare delle brutte figure. Francamente, sono dubbi che non m’appassionano.

E’ rimasta però una carta che nessuno ha voltato: il governo è caduto sulla politica estera. Mio Dio – contessa – si può scivolare su qualsiasi buccia di banana, ma non sulla politica estera!
La politica estera di una nazione non è previsto che sia sottoposta alla lente della democrazia: è un vagone piombato che corre, solitario, autoreferente ed auto-dotato di freni e motori. Una sorta di locomotore impazzito che sceglie da solo gli scambi, accelera, chiude ed apre i passaggi a livello.
Così, fa parte della politica estera permettere che un cittadino straniero sia arrestato con un’operazione “coperta” da servizi segreti stranieri, che dopo 27 anni si dichiari che l’aereo di Ustica è stato abbattuto da una cerbottana, affermare che il povero Calipari ebbe solo la sfortuna di passare troppo vicino al grilletto di una 20 mm .

Dubbi? Perplessità? Non sia mai! Monsieur, si faccia da parte: deve transitare la politica estera! Signora Costituzione, si volti per un attimo dall’altro lato…ecco, così, brava…non vorremmo che la politica estera la travolgesse…
Già fatto: il Kosovo, sentitamente ringrazia.

Nella foga di correre verso la piazza delle esecuzioni, per non perdere il privilegio di scagliare una pietra al condannato, ci si è scordati di voltare la carta di D’Alema, ossia proprio di capire perché il governo si è arenato sulla politica estera.
Massimo D’Alema è uomo esperto e navigato: ha fatto di tutto per catturare lo sguardo della pattuglia di dissidenti. Ha usato corde di liuto angeliche, benedette, dal suono soave per ipnotizzare quei quattro, assurdi casellanti che pretendevano di manovrare lo scambio, di dirigere in altri luoghi il treno dei desideri catto-comunisti, margherito-rifondati, social-mastelliani.

Perché, miei cari – affermava candido – ci dev’essere mutamento nella continuità, ma nulla deve turbare il manovratore che non manovra nulla, perché tutto è già scritto. Ah, splendido Omar Sharif – in Lawrence d’Arabia – che si rivolge a Peter O’Tool/Lawrence: “Non t’affannare, sahib, tanto tutto è scritto”!
Non sappiamo se i due si distrassero, cessarono di fissare il ministro negli occhi per un solo istante, ma va da sé che decisero altrimenti.

Cosa proponeva il buon D’Alema? Tutti si sono sperticare nel sottolineare il “grande coraggio” del suo discorso, i tanti “elementi di rottura” con il precedente governo, le molte “novità” del suo agitarsi sulla scena internazionale. Parlano i fatti.
E’ un fatto che il governo Prodi ha ritirato le truppe dall’Iraq: qualcuno continua ad affermare per “precedenti accordi” con il centro-destra, ma Prodi lo ha fatto, Berlusconi lo aveva solo detto. Bisogna essere onesti e riconoscerlo, perché il Cavaliere di frittate ne ha voltate tante.
L’Afghanistan, invece, sembra la maledizione divina scesa in terra: prosciugò il sangue dei Lancieri di Sua Maestà Britannica e quello dei tovarish inviati da Mosca per avviare al sol dell’avvenire gli statici afgani. Non contento, si prende la rivincita a migliaia di miglia dalle sue pietraie e cerca di mandare a fondo anche il governo italiano.

Massimo D’Alema ha però pronta la contromisura, il suo personale giubbotto antiproiettile: una conferenza internazionale, grande, bella, con tanti bei nomi altisonanti per preparare una vera pace fra quelle montagne. C’è da chiedersi se quelli che vengono da Gallipoli lo sono o lo fanno.
Oddio, ad organizzare una bella conferenza non ci vuole molto, ma rimangono altre carte da voltare: si possono identificare nei paesi confinanti importanti attori della rappresentazione – ma rimangono altre carte nel mazzo – infine, si può mettere d’accordo la Banca Mondiale con i Boys Scout per gestire la faccenda, ma rimane sempre l’ultima carta.

L’ultima carta da voltare è un jolly – che può significare tutto o nulla – perché porta impresso un punto interrogativo dopo il classico “che fare”?
Se volessimo organizzare una vera conferenza di pace gli elementi ci sarebbero tutti, ma dubito che D’Alema (in gran compagnia) intendesse ciò che io intendo.
Perché una vera conferenza di pace, prima di giungere alla sintesi, dovrebbe abbeverarsi abbondantemente alla fonte dell’analisi, ossia della pacata riflessione su cosa accadde da quelle parti.

Perché “saltano per aria” due nazioni come l’Iraq e l’Afghanistan? Due a caso? Non poteva capitare al Pakistan ed alla Siria? Eh no, c’è un perché: uno fra i tanti, per carità, mica si pretende d’avere l’esclusiva.
Basta il petrolio? Non c’è petrolio in Afghanistan. Ci devono passare gli oleodotti? Gli oleodotti passano ovunque, come la politica estera.
E’ proprio vero che non dobbiamo mai credere al Dio degli inglesi…quante ne sanno raccontare…quelli che recitano la parte dei neocon e quelli che vestono i panni dei democratici, i laburisti corazzati ed i conservatori paracadutisti…
Se dobbiamo essere onesti, l’Arabia Saudita è il “boccone” petrolifero più invitante di chiunque altro… la Siria un vero e proprio crocevia d’oleodotti…no: è toccato all’Iraq ed all’Afghanistan.

Quando – durante la Seconda Guerra Mondiale – gli Alleati decisero di dare l’assalto alla “fortezza Europa”, dominata dai nazisti, non scelsero di sbarcare ad Ostenda od a Calais: presero terra presso Noto e Pachino, sulla costa sud siciliana, in un assolato giorno di luglio del 1943.
Il litorale era difeso da una divisione costiera italiana armata con mitragliatrici di burro, ma non fu quello il motivo che condusse alla scelta: l’Italia era “l’anello debole” dell’alleanza, e prima di far crollare Germania e Giappone era meglio iniziare a tagliare loro le ali.

Nel 2000, i neocon americani entrano nella “stanza dei bottoni” e possono finalmente mettere in pratica la strategia che da anni sostengono tramite i loro think-tank, New American Century in primis.
Siamo rimasti i soli padroni del pianeta: vogliamo rendercene conto? Tutto può diventare nostro, a patto di desiderarlo. L’economia non brilla, la tecnologia americana non è più la punta di diamante dell’umanità, ma abbiamo navi ed aerei per dominare il pianeta: anzi, abbiamo una forza tale da convincere i nostri alleati a fare la guerra per noi, praticamente gratis, nutrendoli con le briciole.

Giunge l’11 settembre e si dà inizio alle danze: ricordiamo che l’avventura afgana vede tutti d’accordo e si prefigge – almeno sulla carta – di sgominare le centrali del terrorismo internazionale.
Tutti sappiamo com’è andata a finire: nessun controllo del territorio, nessun terrorista di spicco catturato, nessuna ripresa economica. Un fallimento totale.
Se la vittoria ha sempre molti padri, mentre la sconfitta è orfana, in Afghanistan si rimane (a fare che?) perché si contraddirebbe il proverbio: ad essere padre della sconfitta sarebbe il gotha della politica internazionale, ed allora si rimane. Finché la barca va.

Allo stesso modo, i poveri marines americani continuano come zombie a pattugliare le strade irachene giocando ogni giorno la loro roulette russa: tre al giorno, in media, muoiono. Ogni alba si tira la stecca dal mazzo sperando di non prendere la più corta. Perché l’Iraq?
I due paesi hanno in comune la stessa disgrazia – che potrebbe diventare anche ricchezza – ma che di questi tempi non è certo un attributo vincente: nell’era del pensiero unilaterale e dell’attacco al relativismo di Ratzinger & soci, essere una realtà multi-etnica è una vera disgrazia.

Già, perché noi pronunciamo semplicemente i termini “iracheno” ed “afgano” senza renderci conto che la Svizzera mistilingue – ed addirittura i poveri Balcani – sono un’omogenea e solida roccia rispetto alle differenze che esistono in quei luoghi.
Esiste anche una differenza fra iracheni ed afgani: i primi hanno vissuto una lunga stagione nazionalista (ancor prima di Saddam) – la rivolta del 1941 fu un anelito di nazionalismo contro gli occupanti inglesi – mentre i secondi non hanno mai vissuto altro che la divisione fra i clan.
Proprio per questa ragione, l’Afghanistan era l’anello più debole nella collana dei debolissimi, e gli toccò in sorte il primo intervento armato. Qualche dato?

La maggioranza degli afgani appartiene all’etnia pasthun e parla la sua lingua, l’urdu. L’altra grande etnia è quella dei tagiki (al nord) che parlano, ovviamente, la loro lingua. Massud era tagiko, il mullah Omar un pashtun e la guerra afgana fu combattuta quasi esclusivamente fra di loro: gli americani si limitarono a bombardare da 20.000 piedi d’altitudine le linee dei taliban.
Nel sud, però, ci sono minoranze azere di fede sciita – più vicine all’Iran – e così il quadro è praticamente completo.

Anche l’Iraq non scherza: qui la lingua è comprensibile a tutti, ma è la fede religiosa a fare la differenza. Gli sciiti iracheni del sud custodiscono le due città sante, per tutto l’Islam sciita, di Najaf e Kerbala – un po’ come se la basilica di San Pietro, per noi, fosse in Francia – mentre i sunniti guardano verso La Mecca e Medina.
E i curdi? Loro, poveracci fra i diseredati, non hanno il diritto d’avere una loro terra soltanto perché siedono su importanti giacimenti petroliferi e, soprattutto, perché una loro nazione dovrebbe annettere una consistente porzione di territorio turco. Infine, i turcomanni del nord: i “resti” lasciati lungo tutta la “Via della Seta” dall’Impero Ottomano dopo il crollo del 1918.

Una teoria semplice – e le cose semplici spesso sono fuorvianti – è che una terra multi-culturale, multi-etnica e multi-religiosa sia per definizione una nazione instabile.
Quasi tutte le nazioni europee sono divise fra cattolici e luterani, con consistenti minoranze ebree: non prendiamo in considerazione altre fedi, perché sono fenomeni recenti (ad eccezione dei musulmani di Bosnia).
L’Europa ha vissuto la sua stagione di guerre di religione, che è terminata da secoli, e l’India è un vero puzzle religioso. In entrambi i casi, dobbiamo riconoscere che i fenomeni d’intolleranza religiosa non sono poi così eclatanti: in India – anche dopo la separazione con il Pakistan – vivono parecchi musulmani. E poi: sikh, buddisti, jainisti, cristiani. Ci sono tensioni, è vero, ma molto di meno rispetto a ciò che potremmo attenderci in una nazione di 800 milioni d’abitanti.

La domanda che potremmo porci è allora: è la differenza intrinseca alle popolazioni a scatenare una guerra oppure è la guerra che approfitta delle situazioni locali?
La guerra in Afghanistan non è scoppiata per un improvviso acuirsi delle endemiche tensioni interne: è stato l’intervento occidentale ad aprire il vaso di Pandora. Ancor peggio in Iraq: c’era Saddam Hussein? Vero. Non era uno stinco di santo? Verissimo. La gran maggioranza degli iracheni, però, intervistata da molti sondaggisti, oggi afferma candidamente che “si stava meglio quando si stava peggio”.

Un altro esempio lo possiamo trarre da qualcosa a noi più vicino: la Jugoslavia. Furono le tensioni interne a scatenare il massacro?
Esistevano malumori interni, ma quando il Fondo Monetario Internazionale (leggi: Washington) decise – nel 1990, prestiamo attenzione alla data – che il debito interno jugoslavo sarebbe stato negoziato soltanto dalle singole repubbliche, la via della secessione fu inevitabile.
Sarei curioso di sapere cosa succederebbe in Italia se la Banca Mondiale – o qualsiasi altro zimbello della Casa Bianca – decidesse di suddividere il debito italiano su base regionale. No, meglio non avere mai la risposta.

Tornando indietro nel tempo, in Europa, furono le tesi di Lutero a scatenare un secolo di guerre o le mire espansionistiche dei vari regnanti? Non stiamo a rinvangare pagine di storia assai note, perché credo che tutti sapranno la risposta.

Spicchiamo un salto nel Parlamento italiano e torniamo a Massimo D’Alema che propugna – intenzione nobilissima – la creazione di un organismo (conferenza o che altro) per ridiscutere la questione afgana. Cosa potrebbe fare la conferenza?
Per prima cosa dovrebbe far capire ai paesi occidentali che quelle divisioni – i confini – non furono decisi dalle popolazioni ma dai cartografi di Sua Maestà Britannica.
Basta osservare una carta del Vicino Oriente (e dell’Africa) per rendersi conto che quelle linee così diritte sono abbastanza strane: tagliano in due pianure e montagne, fiumi e deserti. Ci abita qualcuno in quelle terre? Not important, sir.

Eppure, se ricordiamo un po’ di storia, rammentiamo un popolo definito degli “Assiro-Babilonesi”: difatti, ancora oggi, la fazione sunnita irachena è più legata a Damasco che a Teheran. Nel tempo, si sono sovrapposte altre questioni di carattere nazionalistico: la divisione fra i due, distinti partiti Baath e la disputa sulle acque del Tigri e dell’Eufrate (che comprende, come terzo incomodo, anche la Turchia ), ma l’appartenenza etnica, avvertita dai sunniti iracheni, è verso la Siria.
E la Siria ci presenta su un piatto d’argento un altro esempio illuminante: gli USA hanno attaccato la Siria ? Faceva parte del cosiddetto “Asse del Male” oppure no?
No, Israele attacca il Libano: guarda a caso altra nazione multi-etnica e multi-religiosa.

Soltanto la debolezza dei cristiano-maroniti libanesi ha impedito finora che il Paese dei Cedri precipitasse nuovamente in un inferno di sangue: in questo caso, la fazione prevalente è quella sciita – più prolifica di quella cristiana – e, seppur non dominante, in grado d’impedire a qualsiasi altra fazione che abbia potenti appoggi internazionali di prendere il sopravvento.
La conferenza tanto agognata da Massimo D’Alema – se veramente desiderasse rimettere ordine in quelle terre – potrebbe iniziare come prima cosa a ridisegnare una carta del Vicino Oriente più consona alla realtà delle popolazioni che vi abitano.

E’ inutile credere che i pashtun ed i tagiki afgani trovino un accordo che duri più di una primavera, perché per questioni infinitamente meno gravi – i baschi, l’Irlanda del Nord, l’Alto Adige – abbiamo avuto (ed in alcuni luoghi continua) grane a non finire.

Se l’Italia è riuscita a trovare un accordo soddisfacente con le popolazioni di lingua tedesca, la Gran Bretagna continua ad occupare un pezzo d’isola che geograficamente non le appartiene: quanti morti dovremo ancora contare per l’ostinazione dell’ultima, vera casa regnante del globo?
Se i pashtun prendono ordini dal Pakistan ed i tagiki da Dusciambé, riconosciamo che la situazione è questa. Se gli sciiti iracheni si sentono persiani quanto un iraniano, ed i curdi di Mossul hanno parenti in Turchia, perché non cercare soluzioni che sanino alla radice il problema, anche se ciò dovesse significare la nascita di nuove entità statuali e la fine d’altre?
Vorrei chiarire che non stiamo parlando del tanto agognato “Nuovo Medio Oriente” vagheggiato dai neocon americani: qui non si tratta di suddividere per appartenenza “petrolifera”, ma di correggere gli errori combinati dai britannici, che se ne andarono senza nemmeno capire il disastro che avevano combinato.

Esistono delle alternative?

Continuando su questa strada, la situazione irachena potrà trovare una soluzione soltanto con la rinascita di un forte nazionalismo – in pratica, si passerà da un Saddam Hussein ad un Hussein Saddam, sunnita, sciita o curdo – ma questo continuerà a provocare repressioni interne ed instabilità.
Riteniamo che Ahmid Karzai – il presidente più “marionetta” che ci sia sulla faccia della terra – riesca a sanare la situazione afgana? Là non bastano gli eserciti, là dovremmo inviare il Genio della Lampada.
Nonostante tutti i nostri sforzi – anche ammettendo una nostra molto improbabile buona fede – saranno gli afgani stessi, a breve termine, a sanare la situazione: già oggi, le truppe occidentali sopravvivono soltanto rinchiusi nei vari “Fort Apache”. Bombardiamo da 20.000 piedi d’altezza perché non siamo in grado di percorrere 20 chilometri a terra senza incocciare in una mina od in un razzo. Le forze occidentali sopravvivranno fino a quando i taliban o chi altro non avranno sufficienti forze per attaccare i fortini: in quell’istante scoccherà l’ora della Dien-Bien-Phu afgana.

Se si avesse il coraggio d’affrontare la situazione, bisognerebbe convincere la Turchia a cedere una parte del suo territorio per la nascita della nazione curda, ridefinire i confini della Siria e dell’Iran, del Tagikistan e del Pakistan. Siamo al libro dei sogni: non c’è nessuna speranza che gli USA regalino il petrolio iracheno agli iraniani, anzi, pensano d’acchiappare anche quello di Teheran.
Spacciare un “libro dei sogni” per una realtà – caro D’Alema – non è un’onesta operazione politica: o si vende, o si spaccia, e lo spaccio è spesso punito dalla legge. Quando vengono scoperti – ed il re mostra al mondo le sue nudità – il secondo giubbotto antiproiettile di D’Alema e degli altri leader europei è il grande freddo, la cosiddetta teoria “del congelatore”.

La teoria del “congelatore” nasce in Kosovo ed è prevalentemente europea: coerente con una demografia che è quasi estinzione, l’Europa non seppellisce o crema più i suoi cadaveri, li iberna.
E’ la famosa teoria dei “contingenti di pace”: per carità, sono veri contingenti di pace – nel senso che non agiscono apertamente a fianco di uno dei contendenti – ma il loro compito è soltanto quello di mantenere lo status quo. Nell’attesa che il cadavere resusciti.
Quando il treno della politica estera attraversa scambi sconosciuti – come quando non comprese le ragioni per le quali Tito concesse l’autonomia al Kosovo ed alla Vojvodina (per indebolire la Serbia nella Jugoslavia federale), mentre Milosevic la abolì (per rafforzarla nella separazione fra le repubbliche) – quasi deraglia, perde qualche pezzo e riesce a mala pena a rimanere sui binari.

Siccome passato lo scambio sarebbe difficile rimediare, allora si va al “congelamento”: quanti contingenti ONU ci sono oramai nel pianeta? Chi ne ha la voglia li conti.
Bosnia, Kosovo, Libano…e per il futuro si prospettano il Sudan, forse la Somalia
Anni ed anni di permanenza in territori lontani – con costi astronomici scaricati sulle popolazioni – per non saper risolvere la situazione. Ad otto anni dalla fine della guerra in Kosovo, il 2 marzo 2007, l’ennesimo incontro fra le delegazioni serba ed albanese ha condotto all’ultimo nulla di fatto. Già, perché il frutto di quella guerra sarebbe oggi solo la certificazione della supremazia albanese, che potrebbe dedicarsi tranquillamente a perseguitare serbi e Rom. Bella riuscita: tanta fatica per passare da “testa” a “croce”.

I caschi blu francesi pattugliano ancora oggi – dopo 12 anni – il centro di Mostar, in Bosnia. Il Libano, sono trascorsi pochi anni da quando se ne andò l’ultimo italiano e siamo di nuovo là. A quando il ritorno in Somalia?
Alla fine, quando volteremo l’ultima carta del mazzo, farà un freddo cane: magari bisognerebbe chinarsi ed osservare se non sia caduta una carta a nostra insaputa, che giace abbandonata a terra.
Su quella carta troveremmo scritto: “Non c’è pace senza giustizia, e non c’è giustizia fino a quando cinque nazioni pretenderanno di dominare il pianeta”. Ci sarà anche un consiglio: “Abolite il Consiglio di Sicurezza ed affidatevi – come si fa in democrazia – al voto dell’Assemblea delle Nazioni Unite”.

No, nessuno posa lo sguardo sotto il tavolo: si mescola e si taglia nuovamente il mazzo, in un gelo che attanaglia oramai le ossa.

Carlo Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it

 
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