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Liberté,
Égalité, Fraternité!
La vicenda del giudice Luigi Tosti e la laicità dello Stato
di Carlo
Bertani
C'est
la force et la liberté qui font les excellents hommes. La
faiblesse et l'esclavage n'ont jamais fait que des méchants.
[ Sono la
vitalità e la libertà che formano gli uomini eccellenti. L’impotenza
e la schiavitù non hanno creato altro che uomini malvagi ]
Jean-Jacques
Rousseau, Les rêveries du promeneur solitaire
Nel silenzio assordante della campagna elettorale, qualcuno
ha provato a mettere in gioco il significato della laicità dello Stato:
gli interventi della Conferenza Episcopale sui valori che i cattolici
devono tenere presenti nel voto, l’ora di religione nelle scuole, i
limiti della sperimentazione della scienza, l’eutanasia.
Argomenti di grande spessore e difficili da dibattere perché
coinvolgono l’uomo nelle sue ansie più intime, lo obbligano a dare
(ed a darsi) risposte anche quando è coperto di dubbi.
C’è però un uomo, in Italia, che ha scelto d’iniziare da qualcosa
di più semplice: il giudice Luigi Tosti di Camerino ha chiesto che
fosse rimosso il crocifisso dall’aula dove amministrava la giustizia.
Una richiesta semplicissima, per non voler e dover confondere
l’amministrazione della giustizia ordinaria con altre giustizie, alle
quali ciascuno di noi (giudice, avvocato, testimone od imputato) può
credere oppure no.
Quando la sua richiesta non fu accolta, Luigi Tosti si
rifiutò di celebrare processi (civili) sotto un simbolo religioso e fu
sospeso dal servizio. Oggi, il giudice Tosti è coinvolto a sua volta in
procedimenti giudiziari che lo vedono ricorrere contro provvedimenti che
ritiene incostituzionali, e che come tutti gli iter della giustizia
italiana rischiano di terminare alle calende greche.
Lasciamo correre la giustizia per la sua interminabile via, e
domandiamoci cosa ha chiesto di così irriguardoso ed impertinente Luigi
Tosti.
Ha forse chiesto l’abolizione del Concordato? Non mi risulta. La
chiusura di chiese o luoghi di culto? Manco per idea. Vuole istituire
dei “Tribunali del popolo” rivoluzionari? Ma non facciamo ridere.
Ha semplicemente chiesto che ciò che è di Cesare sia di Cesare, e ciò
che è di Dio sia di Dio, come del resto affermano anche i Vangeli.
La vicenda del giudice Tosti viene colpevolmente elusa da
tutti i media televisivi non perché “non fa notizia” bensì per il
suo esatto contrario, ossia perché “è” la notizia.
Approfondire questo argomento ci porta a delle amare conclusioni, giacché
non si tratta di un semplice crocifisso, ma del concetto stesso di
laicità dello Stato, della sua non-appartenenza ad una sola parte dei
cittadini e – in definitiva – ad uno Stato del quale facciamo parte
tutti, con eguali diritti e doveri.
Italia e Spagna sono i paesi dove più è evidente la divisione fra chi
propugna una laicità dello Stato “senza se e senza ma” e coloro i
quali credono che il valore del cattolicesimo sia fondante per lo Stato
stesso, e dunque che i simboli religiosi siano da mostrare ovunque.
Anche altre nazioni – Austria, Portogallo, Irlanda e Polonia – per
ragioni storiche sono coinvolte nel dibattito, ma senza la virulenza che
appare a Roma ed a Madrid.
Potremmo liquidare la faccenda con la semplice
constatazione che il Vaticano è a Roma, mentre
Entrambe le nazioni hanno vissuto il totalitarismo fascista, ma con
aspetti diversi: in Italia Mussolini stipulò nel 1929 il Concordato con
In Spagna, invece, il franchismo fu un fascismo che nacque dall’uovo
del clericalismo spagnolo: forse gli spagnoli hanno più scheletri
nell’armadio di noi italiani, giacché durante
Molti preti spagnoli furono fucilati dalle forze rivoluzionarie, ma è
anche vero che i preti spagnoli stavano tutti da una sola parte, ossia
da quella di Francisco Franco.
In Italia la vicenda fu più sfumata: vi furono preti che
furono uccisi dai fascisti per la loro opposizione al regime – come
don Minzoni – ed altri che furono uccisi dai partigiani perché non si
fecero scrupoli di segnalare a tedeschi e repubblichini i partigiani in
fuga o feriti, come don Pessina.
Gli altri paesi europei non vissero queste vicende, perché avevano già
vissuto
Pur con queste doverose premesse storiche, è difficile capire perché
semplici principi di parità e di rispetto non trovino ragion d’essere
in Italia, perché qualsiasi polemica politica – dai PACS ai
crocifissi – debba ogni volta scatenare dei clamori da guerra civile.
In altre nazioni a noi vicine – come
E’ bello vivere in un paese dove non sei “signor” o
“mister” – ossia vieni identificato come “signore” di qualcosa
– ma sei “cittadino”, ossia appartenente ad una comunità nella
quale hai precisi diritti e doveri.
Non si tratta – come potrebbe apparire ad un’analisi superficiale
– di una mera questione linguistica o semantica, ma di un diverso
approccio sociologico nella struttura sociale.
Il “signor” italiano deriva dal dominus latino, la signora è
l’antica domina, ossia il padrone e la padrona della casa –
intesa come comunità che vive sotto lo stesso tetto, e che un tempo
comprendeva anche gli schiavi e poi i servi – e non si può non notare
che la radice di dominus è la stessa di dominio, di
potere esercitato nella casa (identificata come luogo di vita della
famiglia) nei rispettivi ambiti dal maschio e dalla femmina dominanti. Domini,
appunto.
Ma questa non è forse la stessa struttura che troviamo in alcune specie
animali, in quelle che vivono in branco? I leoni ed i lupi, ma anche
cervi e pecore, non riconoscono forse nel maschio dominante il capo del
branco? L’ariete dominante guida gli spostamenti del gregge, ma è la
leonessa che guida e decide la tattica del branco quando va a caccia.
Ovviamente i comportamenti variano da specie a specie – e
non è questa la sede per parlare d’etologia – ma dobbiamo
riconoscere che la struttura che identifica il nostro ruolo sociale
partendo dalla nostra posizione nella famiglia deriva dal nostro antico
ruolo nella famiglia patriarcale, nel clan, fino all’antica tribù.
Perché “cittadino” è un termine che taglia il filo che ci lega al
neolitico e rinnova lo scacchiere sociale?
Nella Francia dei secoli scorsi la “città” è spesso stata
identificata con Parigi, tanto che tutti gli esegeti di Nostradamus –
pur dividendosi sul significato da attribuire a quartine e sestine delle
note Centurie – concordano nel tradurre la parola ville non con
città, bensì con Parigi1.
Possiamo verificare nella storia e nella letteratura francese come le più
importanti vicende della nazione – almeno negli ultimi cinque secoli
– siano nate, cresciute e passate quasi soltanto nella capitale.
Ci furono – nei confusi e sanguinosi anni della rivoluzione – molte
incomprensioni sull’estensione di quel cittadino a tutta
Parigi dunque, la ville, la cité ed i suoi
abitanti non furono più paysan (che riduce l’identificazione
all’ambito agreste), bensì citoyen: cittadini. Essere
cittadini significava appartenere ad una comunità, anzi, alla comunità
più elevata, quella dei parigini.
Oggi possiamo sorridere sul tentativo di cambiare anche i nomi dei mesi
per rompere con la tradizione, ma infrangere quei tabù secolari dovette
essere difficile, faticoso, e si rischiava addirittura d’esser irrisi.
Il processo rivoluzionario francese corse quasi in parallelo con la
rivoluzione americana, ed anche nelle ex colonie inglesi si parlava una
nuova lingua: i diritti dell’uomo erano intangibili proprio perché
intrinsecamente legati alla stessa natura umana. Peccato che per molto
tempo furono soltanto i diritti dell’uomo bianco, ma vista
l’abitudine del tempo di codificare diritti e doveri in base al censo
era già un bel passo in avanti.
Ecco dove quel cittadino rompe con la tradizione, dove frantuma
secoli d’abitudini e di diritti acquisiti per censo: l’appartenenza
ad una comunità non è più generata dalla trasposizione sociale della
figura dominante nella famiglia, ma per l’esistenza stessa
dell’individuo nel corpo sociale.
Allargando l’orizzonte dalla famiglia all’intera società,
era evidente che la codifica dei diritti e dei doveri doveva espandersi,
per comprendere tutte le istanze del corpo sociale.
Vennero gli anni della Restaurazione e con essa si tornò all’antico monsieur,
che i piemontesi traducono in monssù nel loro dialetto e che
veniva usato generalmente (oggi il dialetto è spesso storpiato, ed ha
perso gran parte dei significati originari dei termini) per definire i
capifamiglia o, comunque, persone di un più elevato rango sociale.
Le parole però non sono vento e la storia non fluisce senza modificare
l’alveo dove scorre: ecco perché, nel terzo millennio, un presidente
francese di destra – di fronte al pericolo che le scuole francesi
diventino terreno di scontro fra fazioni religiose, o fra individui che
si servano della religione per alimentare tensioni – non trova altra
risposta che proibire tutti i simboli religiosi nelle scuole. A scuola
si torna ad essere semplicemente cittadini e le proprie opinioni
religiose rimangono fuori del portone, anche a costo di sfidare l’ira
degli integralisti.
Perché in Italia (ed in Spagna) è impossibile praticare
queste scelte?
L’impeto rivoluzionario francese attraversò anche lo Stivale, ma la
restaurazione colpì in modo ancor più duro di quanto non fece in
Francia, dove a pagare per tutti fu l’Imperatore, che si lasciò alle
spalle una pletora di riciclati.
Le truppe leali ai Borbone del cardinale Ruffo, che marciavano su
Napoli, cantavano:
«Sona, sona, sona carmagnola2,
sona li cunsigli’e, viva o’ Re cun la famigli’e»
L’ “aristocrazia rivoluzionaria” napoletana fu soffocata nel
sangue dal re Borbone, ed i primi atti pubblici dei Savoia dopo il
periodo napoleonico furono serrati embrassons nous con le
gerarchie ecclesiastiche. Gli austriaci s’affrettarono a cancellare il
ricordo dei francesi e lo Stato Pontificio continuò a vivere
nell’eterno limbo nel quale si cullava da secoli.
L’unificazione condusse finalmente ad un nuovo status
degli abitanti, a nuovi diritti di cittadinanza?
Ecco cosa cantavano – sempre a Napoli – i nipoti dei combattenti del
cardinale Ruffo:
«Se n’è fuiiut’e lu re Borbone, n’è arrivat’e n’altr’e
ancora cchiù putent’e, cagna o’ guvern’e cagna o’ padron’e,
solo ppe nui’e mai nun cagna nient’e»
Gli italiani finirono d’esser sudditi dell’Imperatore austriaco e
del Re Borbone, del Papa Re e del Granduca toscano, per diventare
finalmente sudditi del re Savoia.
Trascorse mezzo secolo e diventarono finalmente cittadini “a mezzo
servizio” del Duce fascista: dovettero così prestar attenzione a non
calpestare l’effige reale ed il fascio littorio, meno che mai qualche
simbolo ecclesiastico.
Il 25 aprile del 1945 terminò l’incubo, ma a salire in
cattedra fu un partito di maggioranza relativa che si chiamava niente di
meno che Democrazia Cristiana: l’anelato raggiungimento dello status
di cittadini appartenenti ad uno stato democratico passava solo
attraverso quell’aggettivo, cristiana. Da sudditi del re Savoia
e del Duce fascista a cittadini nuovamente “a mezzo servizio”, perché
l’attribuzione dei diritti era condizionata dai valori di una
religione – sì largamente maggioritaria nel paese – ma pur sempre
una religione che non ammetteva comportamenti che ne tradissero i valori
fondanti.
Nel codice penale di quel tempo esisteva ancora il reato di concubinato,
ossia il trascorrere una notte sotto lo stesso tetto con una persona che
non fosse il proprio marito o la propria moglie era considerata
un’infrazione penale. Per avere la libertà di divorziare fu
necessaria una durissima battaglia referendaria, che fece riapparire gli
spettri di secoli addietro e frantumò nuovamente la società italiana
quasi come ai tempi dei guelfi e dei ghibellini.
Il danno maggiore, l’ancora alla quale siamo avvinghiati
e che non ci consente di navigare liberamente non è lo scontro fra due
o più interpretazioni del vivere sociale, ma la frattura che esso
genera e che complica – dato l’arroccamento della Chiesa su
posizioni assolutistiche – qualsiasi tentativo di sciogliere i nodi.
Come si può essere cittadini liberi e compiuti, se si sottopone una
rilevante parte del vivere civile all’osservanza di canoni che non
sono accettati da tutta la popolazione? Alcune statistiche indicano i
cattolici praticanti in un terzo della popolazione italiana, ma non è
molto importante sapere se sono di più o di meno: il punto focale della
vicenda è ammettere che i cattolici sono una parte della popolazione,
non tutta la popolazione.
Essere sottoposti a canoni che non sono universalmente accettati genera
una morale che deriva dal diritto divino, e quindi nuovamente un potere
che si riflette dall’alto su tutti.
Siccome ciò che viene considerato come proveniente dalla divinità è
forzatamente acritico, ecco nuovamente gli italiani esser sudditi non più
di una persona fisica – sia pure un Re per diritto divino – ma della
divinità stessa, che non è in alcun modo criticabile né discutibile,
giacché – parallelamente – si garantisce la libertà religiosa.
Un bel trucco “delle tre carte” per far apparire come
unica ed incontrovertibile una morale, per poi negare che essa sia
dominante giacché (nel privato) ciascuno di noi può scegliere come
crede. Se questo diritto fosse anche pubblico, non si vede perché non
sia possibile – a richiesta – rimuovere un simbolo religioso.
Non sottovalutiamo questa abitudine alla sudditanza sviluppata nei
secoli, perché è proprio sull’a-criticità che si basano molti
processi d’accettazione del potere, anche quando il potere si
trasforma in sopruso ed il sopruso in violenza: una volta sviluppato il
processo, esso non ha fine e genera danni e frammentazione sociale a non
finire.
Non si tratta quindi – come subdolamente qualcuno sostiene – della
presenza o meno di un crocifisso o dall’accettazione di quel
crocifisso per i valori che porta con sé, ma del valore stesso di
qualsiasi simbolo che trascenda da quelli menzionati nella Costituzione
Repubblicana.
Il sentirsi sudditi – in definitiva – preclude l’affermazione dei
propri diritti ed affoga in un mieloso paternalismo la nostra capacità
di camminare in un solco ben definito, laddove il diritto diventa invece
favore e la comunicazione raccomandazione.
Un caro saluto a tutti coloro che ambirebbero esser
cittadini, e che in questo fumoso stato di diritto non possono esserlo,
ed uno – molto caloroso – al cittadino Luigi Tosti.
Carlo Bertani bertani137@libero.it
www.carlobertani.it
1
Questa tesi è sostenuta dai più noti esegeti di Nostradamus:
Maximilien de Fontbrune ed il figlio Jean Charles, fra i più seri
studiosi del veggente francese.
2
Danza e canto dell’epoca, importata dalla Francia attraverso il
Piemonte.