Home Page - Contatti - La libreria - Link - Cerca nel sito - Pubblicità nel sito - Sostenitori |
- Pagina
politica
- Video inedito di Paolo Borsellino
13
anni da Via D’Amelio – Le nuove piste
Andrea Cinquegrani – “
www.lavocedellacampania.it
Misteri di Stato. Misteri di casa (o Cosa) nostra. Dopo 13 anni esatti,
i mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio - che hanno segnato
le resa della giustizia di fronte alle Mafie - sono ancora sconosciuti.
“A volto coperto”, come si dice in gergo giudiziario, visto che
diverse inchieste per scoprire il terzo o quarto livello erano partite.
Alcune si sono perse, ovviamente, per strada, altre archiviate, o con
qualche brandello ancora in corso. E’ lo spaccato della giustizia
nostrana, sempre pronta ad assicurare alla galere il mafioso o il
camorrista che viene trovato con la pistola fumante in mano o col
pollice sul detonatore: mai in grado di colpire più in alto, vuoi sul
fronte degli affari (il mondo degli appalti), vuoi, soprattutto, su
quello politico, storicamente e strettamente legato agli altri due. Ora
si riparte dell’agendina rossa. Quella che Paolo Borsellino
portava sempre con sé, nella sua borsa. Anche quel 19 luglio 1992,
quando la sua auto saltò in aria. Scrive Marzio Tristano
su Antimafia 2000, una delle poche, battagliere riviste rimaste
sul campo nel contrasto alla delinquenza organizzata: «Di quella borsa,
affumicata e bagnata dagli idranti dei vigili del fuoco, esiste
un’immagine, scattata da un fotografo professionista palermitano, che
è stata appena acquisita dalla Dia di Caltanissetta. La foto ritrae un
ufficiale dei carabinieri nell’inferno di via D’Amelio. Dietro si
notano le auto ancora in fiamme, in mano l’uomo ha una borsa di cuoio.
La procura di Caltanissetta - prosegue Tristano - vuole adesso
ricostruire a ritroso il percorso della borsa fino alla sua apertura,
descritta nel verbale di sequestro che attesta l’assenza
dell’agendina rossa di Borsellino». Aggiunge Tristano: «E’ la
prima volta dopo tredici anni che si indaga sui misteri di quella
agendina di Borsellino, la cui sparizione venne immediatamente
denunciata da colleghi e familiari. Un’agenda da tutti ritenuta
importante per ricostruire incontri, spostamenti e attività di quei
frenetici 56 giorni, dalla strage di Capaci, in cui Borsellino si tuffò
nelle indagini antimafia con la consapevolezza del martirio». «Un’agenda
che potrebbe contenere la verità sulla morte di Borsellino», è il
commento di Carmelo Canale, il più stretto
collaboratore di Borsellino, accusato a sua volta di collusioni mafiose,
assolto (ma la procura ha presentato appello).
UN LUNGO CANALE
Così ricostruisce Simone
Falanca nel suo volume Alfa & Beta: «L’ufficiale
(Canale, ndr) ha ricordato che Borsellino, una settimana prima
dell’attentato, era stato da lui visto mentre scriveva “nella stanza
di un albergo di Salerno dove eravamo andati per il battesimo del figlio
di un suo collega. Era preoccupato - prosegue il racconto di Canale
ripreso nel suo libro da Falanca - avevo capito che quell’agenda era
il suo testamento. In quell’agenda, ne sono sicuro, c’era anche la
verità su chi e perché aveva ucciso Falcone”». Continua Falanca: «Il
dato interessante è che quell’agenda non può essere stata sottratta
dagli attentatori, che agirono da lontano, con un telecomando. E’
stata certamente sottratta da qualche investigatore giunto tra i primi
sul posto. Anche in altri atti degli inquirenti che indagarono sulle
stragi del 1992-1993 ricompare il nome di Lorenzo Narracci,
vicecapo del Sisde a Palermo fino a 9 anni fa. Narracci, oltre ad essere
stato raggiunto da una telefonata di Bruno Contrada
partita 80 secondi dopo lo scoppio della bomba che uccise Paolo
Borsellino, è anche l’utente cui apparteneva il il numero di
cellulare annotato su un biglietto, trovato dagli investigatori sulla
montagna dove fu premuto il telecomando per uccidere Giovanni
Falcone. Una ulteriore coincidenza vuole che proprio in via
Fauro, teatro dell’attentato a Maurizio Costanzo,
abiti proprio lui, Lorenzo Narracci».
Passiamo al
secondo, nuovo elemento sul fronte delle inchieste per le stragi di
Capaci e Via D’Amelio. E’ fresco del 14 maggio il decreto di
archiviazione con il quale il gip del tribunale di Caltanissetta, Giovanbattista
Tona, mette una pietra sulla pista del Castello di Utveggio,
secondo non pochi la chiave dei misteri per l’assassinio di Borsellino
e della sua scorta. Proprio su quella pista, scrive ancora Falanca, a
proposito di Gioacchino Genchi, l’esperto informatico
al quale la stessa procura di Caltanissetta aveva affidato le indagini
per decodificare i traffici telefonici (su rete fissa e cellulare) dopo
la strage di via D’Amelio. «Genchi scopre che diverse persone (non
mafiosi) hanno tenuto sotto controllo i telefoni di Borsellino, che
erano stati clonati, e forse hanno controllato dall’alto, dal monte
Pellegrino, la zona della strage». Continua Alfa & Beta:
«Il Sisde - in quegli anni controllato a Palermo da Bruno Contrada -
secondo Genchi aveva un suo centro all’interno del Castello Utveggio,
un centro che operava sotto la copertura di un misterioso centro studi,
il Cerisdi. Pochi secondi dopo l’esplosione (dell’auto in via
D’Amelio, ndr), dalla sede Sisde di Utveggio - sempre vuota la
domenica, tranne quella - parte una telefonata che raggiunge il
cellulare di Contrada».E’ lo stesso Tona a rammentarla nel
provvedimento di archiviazione del caso Contrada (ed è sempre Tona,
poi, a firmare le archiviazioni per Silvio Berlusconi e
Marcello Dell’Utri, sulla scottante inchiesta dei
mandanti a volto coperto delle due stragi).
TONA ARCHIVIATUTTO
Nel recentissimo decreto di
archiviazione, Tona ricorda come «la sentenza della corte d’assise
d’appello segnalava l’esigenza di approfondire ulteriormente ipotesi
ed elementi sin qui trascurati, nella prospettiva di individuare
complici o mandanti esterni all’organizzazione mafiosa cosa nostra».
E proprio Tona ribadisce: «A seguito di tale sentenza divenuta
irrevocabile, il pm riprendeva le indagini, partendo proprio dalle
dichiarazioni del Genchi. Rispondendo ad apposita delega
L’ennesimo
colpo di spugna. Ma restano, pesanti come macigni, gli interrogativi
sulle due stragi. Irrisolti. Con la sola condanna per gli
“esecutori”, tutti “regolarmente” condannati. La manovalanza di
Riina e Provenzano, a partire da Brusca & company. Per i mandanti,
è ancora tutto “coperto”… Raccontano alla procura di Palermo: «Hanno
parlato i pentiti, Giovanni Brusca e Nino
Giuffrè. Le verbalizzazioni in parecchi punti coincidono, in
altri no. Sostanzialmente, c’è una differenza tra i due: Brusca parla
soprattutto della “trattativa“ che sarebbe intercorsa con lo Stato,
a inizio anni ’90, per ottenere vantaggi legislativi dalla nuova
classe politica in favore di Cosa nostra; Giuffrè parla soprattutto di
appalti, di rapporti tra imprenditori, politici e mafiosi».
Ecco cosa scrive
il sito antimafia Città Nuove Corleone: «Il procuratore di
Caltanissetta, Francesco Messineo, che coordina
l’inchiesta contro ignoti, ipotizza che le motivazioni delle due
stragi del ’92 siano coincidenti, ma l’attentato a Borsellino
avrebbe subito un’accelerazione perché Riina era alla ricerca di
nuovi referenti politici che tardavano ad arrivare». Continua, nella
sua minuziosa disamina, il sito siciliano: «Gli inquirenti si chiedono
ora se la ricostruzione di Giuffrè possa rappresentare un movente
aggiuntivo, rispetto a quello indicato da Brusca, o se un’ipotesi
esclude l’altra. I magistrati della Dda vogliono accertare il motivo
per il quale Provenzano avrebbe ordinato la morte di Borsellino, se ciò
sia legato agli appalti o alla “trattativa”. I pm sottolineano anche
il fatto che Riina, come emerge delle dichiarazioni di numerosi pentiti,
in quel periodo non sarebbe stato “in sintonia” con Provenzano.
Perchè il boss latitante avrebbe dovuto aiutare Riina a dare un altro
colpetto dopo Falcone?». La risposta di Giuffrè sarebbe stata: «la
curiosità per i boss è l’anticamera della sbirritudine».
Le versioni di Brusca e Provenzano però non sono antitetiche, come
alcuni oggi sostengono. Ecco, ad esempio, cosa scriveva, un paio
d’anni fa, il giudice Paolo Tescaroli nel volume Perché
fu ucciso Giovanni Falcone. «In Cosa nostra, secondo Brusca,
esisteva la preoccupazione che Falcone potesse imprimere, diventando
procuratore nazionale antimafia, un impulso alle investigazioni nel
settore inerente alla gestione illecita degli appalti. Ha spiegato
(Brusca, ndr) che le indagini in quel settore non erano iniziate “in
quel momento”, Falcone aveva iniziato con i Costanzo e il comune di
Baucina e proseguito con l’indagine nei confronti di Angelo
Siino. Ha affermato che Falcone - attraverso questo tipo di
investigazioni, che nel passato avevano attinto anche Vito
Ciancimino - aveva la possibilità di indagare, oltre che nel
settore economico, nei confronti degli imprenditori e dei politici con i
quali i primi “andavano a trattare”. Specificatamente, Falcone aveva
contribuito a bloccare il progetto, che l’organizzazione aveva in
cantiere nel 1991, mirante proprio a impostare nuovi collegamenti
istituzionali per il tramite di strutture imprenditoriali». Secondo la
minuziosa ricostruzione di Tescaroli, dunque, le verbalizzazioni di
Brusca non solo non indeboliscono, ma addirittura rafforzano la
pista-appalti quale movente primo per l’eliminazione di Falcone (e,
quindi, di Borsellino).
Ma esiste un
testimone ben più importante per dimostrare la determinazione di
Falcone sul fronte delle commesse arcimiliardarie che sanciscono il
patto politica-mafia-imprese. E’ Antonio Di Pietro, a
quel tempo sconosciuto pm alla procura di Milano, che da mesi ha puntato
i riflettori sulle “portappalti”, imprese cioè create - o rilevate
- ad hoc per fare man bassa di commesse sotto l’ala protettrice di un
politico (se possibile, un ministro). Le strade investigative dei due
magistrati, quindi, a un certo punto viaggiano su binari paralleli. Ecco
cosa dichiara Di Pietro, sentito come teste al processo di via
D’Amelio: «Cercammo di immaginare un meccanismo investigativo che
potesse far capire cosa succedeva per gli appalti che le grosse imprese
nazionali avevano non solo in Sicilia, ma anche in Calabria e in
Campania. Aprii, per esempio, su Foggia, aprii su Napoli, aprii su
Reggio Calabria. Mi resi conto che bisognava guardare su tutti gli
appalti». Di Pietro, su questo fronte, comincia a lavorare sia con
Falcone che con Borsellino. L’attuale leader dell’Italia dei Valori
ricorda, davanti ai giudici, una frase che Falcone pronunciava spesso:
«E’ inutile che perdi tempo con le rogatorie, te lo ricordi com’è
andata con il conto protezione…. Invece, individua l’appalto,
individua l’appalto. Me lo ripetè anche due o tre giorni prima di
morire».
Ma quali appalti, quali “imprese” potrebbero
essere finite al centro delle indagini di Falcone e Borsellino (e poi
anche di Di Pietro, che dopo solo tre anni ha, guarda caso, abbandonato
la toga)? Una chiave del mistero può essere rintracciata nel dossier
mafia-appalti, una montagna investigativa di 900 pagine commissionata al
Ros di Palermo e finita sulla scrivania di Falcone - con tutto il suo
carico, è il caso di dirlo, esplosivo - a febbraio ’91. Dopo un giro
per la verità un po’ tortuoso: lo “intercetta” l’allora
procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, il quale
pensa bene di smistarlo subito (senza un plausibile motivo) non a chi lo
aveva commissionato, Falcone, ma al ministro della Giustizia Claudio
Martelli, che un paio di mesi dopo chiamerà lo stesso Falcone
a Roma. Misteri di Palazzo…
Ironia del destino, parecchie imprese che fanno capolino del maxi
dossier “mafia-appalti” redatto nel ’90 e recapitato a Falcone a
febbraio ’92, sono le stesse sulle quali sta indagando, sul versante
milanese (con diramazioni svizzere per le esportazioni di capitali
all’estero e i lavaggi di danaro) Di Pietro, e sulle quale poi punterà
l’indice, in un infuocato intervento alla commissione Antimafia, nel
’95, l’ex magistrato Ferdinando Imposimato. E una
maxi commessa, in particolare, entra nel mirino degli investigatori:
quella per i lavori dell’Alta velocità, “decisi” a livello
governativo nel ’90. A dieci anni esatti dal terremoto da 70 mila
miliardi di vecchie lire che ha significato il decollo per tante
portappalti e parecchi politici di casa nostra. Stesso copione per
Ecco cosa scrive
Sandro Provvisionato nel volume Corruzione ad Alta
Velocità, che ha raccontato per filo e per segno il saccheggio
perpetrato alla casse dello Stato: «Il 2 marzo 1994 il processo
mafia-appalti, che ha visto alla sbarra solo cinque imputati, si
conclude con una serie di condanne. Il dato singolare è che nel ’95
Imposimato, occupandosi di ben altre vicende, torni ad inciampare in
alcune di quelle stesse società oggetto delle attenzioni della
magistratura di Palermo. Ed è anche singolare che sulla sua scrivania
finisca un rapporto, quello dello Sco, che, trattando dell’oggi,
riguarda ancora fatti di ieri». «In sostanza si afferma - continua
Provvisionato - che nell’Alta velocità ci sono anche società, come
Precise le dichiarazioni di Angelo Siino, il “ministro dei lavori
pubblici” di Cosa nostra, minuziosamente ricostruite da Tescaroli. «Siino
ha posto in rilevo di ritenere che le indagini promosse da Falcone nel
settore della gestione illecita degli appalti avevano “creato dei
presupposti” che hanno portato alla sua eliminazione. Ha anche
evidenziato che Borsellino, nel periodo immediatamente successivo
all’uccisione di Falcone, aveva pubblicamente affermato che una pista
da seguire era quella degli “appalti” e che “senza dubbio c’era
stato un qualcosa che aveva determinato l’uccisione di Falcone a causa
del suo volersi filare sulla questione degli appalti”». Nelle
verbalizzazioni di Siino torna alla ribalta il nome di un’impresa,
Ma leggiamo
altre dichiarazioni di Siino, questa volta raccolte dai magistrati
partenopei nell’ambito di una grossa inchiesta (ora passata a Roma),
su massoneria, mafia & appalti. In particolare, Siino ricostruisce
il contenuto di diversi colloqui intercorsi con un confratello massone,
il siculo-napoletano Salvatore Spinello (il cui nome ha
fatto capolino anche nel caso Telekom Serbia). «Spinello mi parlò -
dichiara il ministro di Cosa nostra - dei finanziamenti che dovevano
affluire per la realizzazione dei lavori per la terza corsia (della
Napoli-Roma, ndr) e della Tav. Mi disse nel 1991 che lui poteva decidere
sui lavori della Tav perché aveva collegamenti con i personaggi che
avevano tutti in mano. In occasione dei vari incontri, vantò rapporti
di conoscenza con Craxi e Martelli, mi preannunziò il trasferimento di
Falcone (al ministero della Giustizia, ndr), mi disse in particolare che
aveva rapporti con gli onorevoli Pomicino e Di Donato, mi segnalò
l’impresa Icla (la regina del dopoterremoto e non solo, ndr) che
all’epoca aveva problemi in un lavoro sull’autostrada
Messina-Palermo