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Prima di comperare un paio di scarpe (di marca) pensiamoci molto bene…

 Guida al consumo critico
Tratto dal libro “Guida al vestire critico”
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La maggior parte dei marchi più famosi hanno fabbriche in uno o più di questi paesi!

Costo lordo di un operaio dell'industria dell'abbigliamento (2002) generico 
 
Paese Costo orario($)
Italia 15,6 $
Messico 2 ,45 $
Rep. Dominicana 1,65 $
Malaysia  1,41 $
Colombia 0,98 $
Thailandia 0,91 $
Giordania 0,81 $
Cina   0,68-0,88 $
Filippine  0,76 $
Haiti  0,49 $
Sri Lanka 0,48 $
Pakistan   0,41 $
Bangladesh 0,39 $
Kenya 0,38 $
India 0,38 $
Madagascar 0,33 $
Indonesia   0,27 $

Fonte: Werner International Management Consultants, Spinning and Weaving Labor Cost Comparisons, 2002.

              
    Benvenuti alla Yue Yuen

I più grandi fabbricanti di scarpe sportive sono nomi a noi sconosciuti come Yue Yuen, Kingmaker Footwear o Feng Tay, gruppi industriali nati a Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud, ma ormai multinazionali a tutti gli effetti perché posseggono società e stabilimenti in molti paesi dell'Estremo Oriente.

Il più grande in assoluto è Yue Yuen, che fa capo alla famiglia Tsai di Taiwan tramite la società Pou Chen. Yue Yuen, che lavora per Nike, Adidas, Reebok, New Balance e varie altre marche mondiali, produce il 17% di tutte le scarpe sportive vendute nel mondo tramite 250.000 dipendenti sparsi in sei stabilimenti, di cui quattro in Cina, uno in Indonesia e uno in Vietnam. Lo stabilimento più grande si trova a Dongguan, una cittadina cinese a ridosso di Hong Kong. Più che di stabilimento bisognerebbe parlare di città nella città, perché si estende su vari chilometri quadrati. Ogni sabato pomeriggio, quando il colosso chiude per il riposo settimanale, 70.000 lavoratori, in gran parte giovani donne, si riversano nei viali lastricati e nei parchi del complesso industriale Yue Yuen.

Al suo interno ci sono dormitori e mense, uffici postali e telefonici, negozi e parrucchieri. Vi è anche un ospedale da 100 posti letto, un parco giochi, un teatro da 300 posti e una compagnia teatrale. Yue Yuen possiede un proprio sistema di trattamento delle acque e centrali elettriche proprie. Talvolta i vigili del fuoco si rivolgono all'azienda per avere in prestito la sua autopompa che ha la scala più lunga di tutta la provincia.
La nuova potenza industriale della Cina è alimentata da una delle più grandi migrazioni della storia umana. Il paese ha 114 milioni di migranti, persone che partono dai loro villaggi rurali per cercare lavoro nelle città. Anche la Yue Yuen è popolata da immigrati che formano una vera e propria babele di lingue e dialetti. La dirigenza distribuisce il personale in base alle provenienze geografiche, mentre scarta a priori tutti quelli che vengono da certe province perché ci sono pregiudizi contro di loro. Ad esempio quelli dello Henan sono considerati sleali, mentre quelli di Anhui sono ritenuti troppo furbi.

Quasi tutti i dirigenti della Yue Yuen sono migranti che hanno iniziato dalle mansioni più umili. Sono inquadrati in una gerarchia molto complicata. Ci sono 13 ranghi di dirigenti, dal caporeparto all'amministratore delegato. C'è una mensa per chi sorveglia la produzione e un'altra per i funzionari amministrativi, considerati di rango superiore. Solo agli alti dirigenti è consentito vivere nel complesso industriale con i propri familiari.
La vita dentro i muri della Yue Yuen è piuttosto turbolenta, con migliaia di giovani che non hanno più regole di riferimento. La piccola criminalità imperversa. Bande organizzate per provincia di provenienza contrabbandano componenti di calzature o derubano i lavoratori del loro stipendio. Tresche amorose e relazioni extramatrimoniali sono comuni, così come lo sono le gravidanze inaspettate e gli aborti. Non molto tempo fa, una lavoratrice si è suicidata per una storia d'amore finita male, mentre un'altra ha partorito prematuramente nel bagno e ha gettato il neonato nel gabinetto.

"Qui ci sono 70.000 persone. E’ una città", dice Luke Lee, un dirigente addetto alla sicurezza, "pertanto ci sono tutti i problemi tipici di una città".

Ma ci sono anche quelli tipici di tutte le fabbriche cinesi. Nei primi anni di insediamento, Yue Yuen faceva lavorare gli operai fino a mezzanotte e concedeva il giorno di riposo in maniera saltuaria. Ma, verso la fine degli anni '90, venne sollecitata da alcuni clienti come Nike e Adidas a migliorare le condizioni di lavoro. Così Yue Yuen ha ridotto la giornata lavorativa a 11 ore e garantisce la domenica libera. Inoltre ha istituito un ufficio reclami al servizio dei lavoratori, ha migliorato le misure di sicurezza e ha abolito le uniformi stile militare. Ma non è facile proseguire lungo questa strada, perché le multinazionali hanno un atteggiamento contraddittorio. A parole chiedono il rispetto dei diritti fondamentali, ma nei fatti impongono prezzi e tempi di consegna così stretti che non lasciano margini per aumenti salariali e ritmi di lavoro più umani
Oggi le multinazionali concedono 30 giorni per la consegna degli ordini. Tre anni fa ne concedevano 60. Dieci anni fa 90. Le ordinazioni sono sempre più ridotte e ravvicinate, perché gli strateghi della moda puntano su piccoli quantitativi rinnovati di continuo.

Davanti ad ogni postazione di lavoro c’è un cartellone che indica in quanti secondi deve essere eseguita ogni operazione. I lavoratori sono cronometrati dai supervisori

 Il costo di un paio di scarpe Nike

Trymun è una ragazza indonesiana di 19 anni che lavora in una fabbrica di scarpe. Due anni fa lasciò il suo villaggio piena di ottimismo. Sperava di guadagnare abbastanza per mantenersi e mandare a casa un gruzzoletto. In realtà non ce la fa neanche a coprire le sue spese personali. Riesce a sbarcare il lunario condividendo la stanza con altre nove compagne e facendo un sacco di straordinari. Ecco il suo racconto: «Ogni giorno lavoriamo dalle otto fino a mezzogiorno, poi facciamo pausa per il pranzo. L'orario del pomeriggio dovrebbe andare dall'una alle cinque, ma dobbiamo fare gli straordinari tutti i giorni. Durante la stagione di punta lavoriamo fino alle due o le tre di notte. Anche se siamo sfinite non abbiamo scelta. Non possiamo rifiutare gli straordinari perché le nostre paghe di partenza sono bassissime. La mia corrisponde a 50 dollari al mese, che in realtà diventano 43 perché il datore di lavoro ci trattiene 7 dollari per le tasse di registrazione. Quando ci ho tolto le spese per il dormitorio, l'acqua e la corrente elettrica, mi rimane molto poco per mangiare".

La fabbrica in cui Trymun lavora appartiene a un sudcoreano, ma le scarpe che produce sono destinate a Nike. Nonostante mezzo miliardo di dollari all'anno di profitti, Nike si lamenta: «Con i tempi che corrono rimanere sul mercato è una battaglia continua. Per vincerla bisogna investire in pubblicità». E cosi fa. Abitualmente dedica a questa voce l'l’11% del suo fatturato, e non solo per spot televisivi e annunci sui giornali, ma anche per sponsorizzazioni.
Strano mondo il nostro. Nel 2003 James LeBron, un atleta americano di pallacanestro neanche diciottenne, ha firmato un contratto di sette anni che lo obbliga ad indossare maglie e scarpe col marchio Nike bene in vista. In cambio riceve 90 milioni di dollari. Trymun, che produce il bene su cui è costruito tutto il castello pubblicitario e commerciale, dovrebbe lavorare 150.000 anni per guadagnare la stessa cifra. Tutti si arricchiscono sul lavoro di Trymun, tranne lei. Su un paio di scarpe che in negozio paghi 70 euro, a Trymun va solo mezzo euro, poco più poco meno, a seconda dei cambio col dollaro. In definitiva, il prodotto di Trymun è come le patatine fritte: un bene insignificante che fa da pretesto per vendere una confezione ingombrante e permettere a pubblicitari, imprenditori, supermercati e altri parassiti di avere la loro fetta di guadagno.

Verificare per credere. 
Sul prezzo finale di un paio di scarpe Nike, il lavoro di assemblaggio incide per lo 0,4%, il materiale e le altre spese di produzione per il 9,6%, il trasporto per il 5%. Il resto sono balzelli privati e pubblici: tasse governative 20%, profitti del produttore 3%, pubblicità e marketing 8,5%, progettazione 11%, profitti di Nike 13,5%, quota del rivenditore 30%.

 
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