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La
verità velata
di
Carlo Bertani – 27 ottobre 2006
Viene
quasi da piangere ad osservare i dibattiti televisivi: difatti, si
cambia presto canale per non farsi inondare dalla noia più che
dall’angoscia. Viene invece da sorridere nell’osservare
l’esibizione di Bruno Vespa a mezzo busto e di Daniela Santanché a
mezza coscia, con a fianco una giovane musulmana velata fino al midollo.
Cosa dobbiamo ancora sopportare?
Niente, del dibattito, merita d’essere ricordato: un tritatutto di
facezie, di probabili citazioni coraniche, di profusioni
d’illuminismo; come contorno qualche strillo e quelle che vorrebbero
essere battute al vetriolo. Dotte citazioni, professori rampanti,
giornalisti esimi, parlamentari “consapevoli”. Del nulla incombente.
Se
potessimo riavvolgere il nastro del tempo, tutto questo non esisterebbe.
Sarebbe bastato non desiderare fino in fondo al cuore che gli italiani
diventassero degli azzimati britannici, grigi come la nebbia delle
Midland, freddi come il vento delle Highlands.
Per decenni tutti ci hanno provato, ce lo hanno ripetuto: “L’Italia
non potrà essere mai
Nel
dopoguerra tornarono a tuonare – da destra e da sinistra – che
eravamo un popolo indisciplinato, credulone, trasformista. La
metamorfosi dell’Italia in una potenza industriale doveva
corrispondere in pieno alla rinascita degli italiani: non più
visionari, fantasiosi, prolifici amanti bensì ordinati cittadini in
cerca d’equilibrio, assennatezza, contenimento.
Ci
sono riusciti, con il tempo e tanta ostinazione oggi siamo diventati un
placido gregge che pascola ordinato fra uno steccato e l’altro del Bedfordshire,
troppo “corretti” per alzare lo sguardo oltre la siepe ed osservare
altri greggi.
Sta
calando l’inverno ed il grigio – gli ostinati anti-orgoni di Reich
– offuscano la vista alla mia finestra. Vorrei poter celebrare un rito
di purificazione, sciamanico e selvaggio, per allontanare le nubi
incombenti: una cerimonia, una Danza del Sole in cima ad un colle
slabbrato dal vento e deriso dalla pioggia per disintegrare – io solo
– il buio incombente. Follia.
Fra poche settimane le foglie oramai rosse e gialle si rassegneranno a
staccarsi dai rami ed il paesaggio diventerà un’anonima scia di
scheletri neri, impalati sui colli a testimoniare la nostra resistenza
al gelo, la nostra ostinazione a non cedere un metro.
Nella
Lucania del secolo scorso, uomini come noi, italiani, contadini,
celebravano il rito del capro espiatorio, per allontanare –
all’inizio dell’inverno – il timore del “vuoto vegetale”,
ossia di quel deserto che rimaneva dopo i raccolti, dopo il fuoco del
Sole sulla terra riarsa dell’estate. Folli.
Oggi siamo così sicuri del ritorno della primavera che non sentiamo il
bisogno di corteggiarla con un rito, non avvertiamo la necessità
d’evocarla per tacitare la nostra paura del vuoto e del buio
invernale, del tetro avanzare del freddo che ci ricaccerà nei nostri
cubicoli superbamente arredati – CD, DVD, CCD, DVX, DDT, ADSL, USB, DS,
AIDS – con tutto quel che serve per fare spallucce al gelo
dell’inverno.
Ma,
siamo così certi che il nostro corpo lo sappia?
Nonostante
la nostra modernità, s’ostina a prepararci il rito della
purificazione per il prossimo Febbraio – Februarius,
mese delle febbri – quella che oggi preferiamo chiamare
“influenza”. E da chi? Chi ci “influenza”? Chi soffia – in
flato, afflato – sui nostri corpi per costringerci a letto? Perché
– ancora dopo secoli – serbiamo memoria della purificazione dopo il
sabba di cacce dell’inverno, dopo il sangue delle prede sulla neve ed
i fegati mangiati crudi per sopperire al bisogno (inconscio) di
vitamine?
Aggrappati
al termosifone saccentemente proclamiamo sentenze, scriviamo facezie,
ridiamo di nulla:
tous va bien, madama
La
cosa ha funzionato al punto – curiosità! – che gli italiani non
trombano quasi più: almeno, lo fanno più “correttamente”,
“coscienziosamente”, “responsabilmente” e “consapevolmente”.
Per meglio dire, con troppa “mente” e poco corpo, meno sudore e più
docce, poca passione e tanto calcolo. “Posso invitarti a cena” è
diventato quasi sinonimo di “forse, possiamo farci una scopata”: un
tempo, queste cose si lasciavano al linguaggio non scritto dei corpi
aggrappati nel ballo, attratti, sfregati dalla voglia e sfrenati nella
passione.
Dal momento che, se si tromba poco o male non si fanno figli, gli
italiani sono destinati nell’arco di un secolo all’estinzione: bene
fanno le competenti autorità e l’esimia società “Dante
Alighieri” – insieme ai Lincei ed alla Crusca – a difendere
l’italico idioma, perché sarà la sola cosa che rimarrà della
cosiddetta “Italia”, od “Ausonia”, oppure “Enotria” che dir
si voglia. Insieme alla pizza ed alla lupara, che diventeranno
“patrimonio dell’umanità”.
«Ciò
che è vuoto è destinato inevitabilmente a riempirsi, e ciò che è
pieno a vuotarsi»
affermava nella notte dei tempi Lao-Tze, forse mentre osservava
l’acqua scorrere nelle risaie a terrazza dell’antica Cina, oppure
mentre ascoltava fremere il corpo dell’amata.
Ci
siamo riempiti le case di cazzate e le abbiamo svuotate di figli, di
parenti, d’amici. Non sapremmo più vivere nelle vecchie case a
ballatoio, con il cortile a fare da teatro per tutte le passioni e le
miserie del caseggiato: avremmo paura. La privacy:
ah già, più il tempo passa e più mi sembra sinonimo del fascista
“me ne frego”.
Svuotati
di passioni, privati di sentimenti, annegate persino le idee nel nome
del “politically correct”, ci coaguliamo – statici – di fronte
ad uno schermo di vetro dove scorrono gli stereotipi della nostra vita,
l’ammaestramento che ci è necessario per continuare a morire di noia.
“La demografia italiana ne soffre” sussurrano dal più alto Colle
fino all’ultima sacrestia dello Stivale: non ci sono più stuoli di
ragazzini che riempiono gli oratori ed i campi di calcio – quelli
“liberi”, ovviamente – perché quelli “targati” qualcosa –
fosse anche la squadra del Ranuncolo Rampante – diventano subito il
sogno dei genitori, quello di vedere trasformati i polpacci del proprio
figlio in dobloni. Con i quali comprare subito l’ultimo modello di
cellulare che invia nell’etere anche frecce, chewing-gum e pannolini.
Cellulari
e viaggi “last minute”, portatili dei quali useremo il 5% delle
risorse e televisori in ogni angolo della casa: soldi, servono soldi,
lavorare, mungere, sfruttare, vincere per avere altri cellulari, altri
viaggi…
A questo ci siamo ridotti: via, non voltiamo il capo dall’altra parte.
E poi non si fanno figli?
Gli italiani sono civilmente divisi in due grandi squadre: la prima –
quella dei “posso” – non fanno figli perché i figli – quando
“puoi” – sono un ingombro. Come fai ad acchiappare l’ultima
offerta di volo per Puerto Escondido se devi cambiare i pannolini ogni
tre ore?
L’altra squadra – quella dei “vorrei, ma non posso” – in
genere ha altri grattacapi cui pensare invece di fare figli: sono la
popolazione più strapazzata d’Europa da tasse e gabelle, da circa
quindici anni sono bersagliati da Finanziarie che tolgono anche
l’aria. Sono diventati il tiro al bersaglio delle classi politiche:
provate a fare figli quando vi tocca giocare la parte dell’orso nel
tiro al bersaglio del Luna Park. Scopate e fate “Booo” quando vi
centrano: sincronizzati, mi raccomando.
Il
risultato?
Ecco alcune risultanze sulla demografia italiana.
L’ISTAT ha comunicato nei giorni scorsi i dati sull’andamento
demografico italiano aggiornati al 1/1/2006: si tratta di una
rilevazione intermedia fra i due censimenti, quello del 2001 e quello
che ci sarà nel 2011.
Un dato ha attratto la mia attenzione: non quello bruto sul numero degli
abitanti, ma quello che si riferiva al saldo demografico della
popolazione italiana (ossia dei cittadini d’origine italiana residenti
in Italia) e quello degli immigrati.
Risultato:
nel 2005, il saldo demografico per gli italiani è stato negativo per un
-62.120, mentre quello degli immigrati è stato un +48.538. Questo non
significa che la popolazione sia diminuita – in realtà rimane grosso
modo stabile, perché sono cittadini comunitari anche polacchi, lituani,
ecc – ma cambia, e in fretta, la composizione della società italiana.
Mancano all’appello circa 62.000 bambini italiani, ed al loro posto ne
sono giunti più o meno 48.000 figli d’immigrati: oramai, il 10% circa
delle nuove generazioni non è più figlia d’italiani.
Se le cifre possono apparire aride, riflettiamo che – ogni anno che
passa – sparisce la popolazione italiana equivalente ad un piccolo
capoluogo di provincia – Vercelli, Teramo o Savona – e nasce una
cittadina di giovani africani ed asiatici di quasi pari grandezza.
Il fenomeno inizia ad apparire evidente perché svaniscono generazioni numerose, mentre i giovani italiani sono sempre più pochi. Il calo è iniziato in questi anni? No, il primo segno d’inversione demografica apparve intorno al 1970 quando – per la prima volta, ad eccezione degli eventi bellici – una generazione fu meno numerosa di quella precedente.
Popolazione italiana per età 2005 | Popolazione italiana per età 2050 |
Intorno
al 1970, ci fu la prima generazione che era minore della precedente –
le persone che oggi hanno circa 35 anni – e dopo ci fu il crollo:
intorno al 1995 si toccò il minimo, e dopo avvenne un modesto aumento.
La ragione? Gli immigrati, la prima generazione dei figli degli
immigrati nata in Italia.
Il primo grafico è riferito al 2005: si nota chiaramente il decremento
di prolificità degli italiani, che con l’avvento della TV a tutto
spiano, delle Finanziarie straccione, delle crisi economiche, delle
classi politiche incapaci, delle legioni di corrotti – da Tangentopoli
a Calciopoli – hanno smesso di credere nella vita, e non fanno più
figli. Il grado di felicità e, soprattutto, di speranza nel futuro è
direttamente proporzionale alla libido ed all’eros: vorrei sapere con
quale serenità scopa chi non sa se il mese dopo avrà ancora un posto
di lavoro, chi aspetta di sapere se la prossima Finanziaria gli toglierà
il sussidio per l’affitto, chi sa di dover emigrare soltanto perché
è nato dalla parte sbagliata.
L’altro
grafico è invece lo scenario immaginato dall’ISTAT per il 2050, che
già prevede un costante flusso migratorio! Senza di esso, l’Italia
non esisterebbe praticamente più!
Come si può notare dal confronto fra i due grafici, la “base” del
2050 è assai più larga (in termini relativi) di quella del 2005, anche
se in termini assoluti la popolazione è minore. Per riequilibrare la
demografia italiana dobbiamo rendere più omogenei i “numeri” delle
varie generazioni, altrimenti ci scontriamo con l’evidente squilibrio
del grafico per il 2005. L’unico rimedio? Più immigrati.
Tutti lo raccontano e riconoscono che l’unico modo per risolvere il
problema è l’arrivo di “carne fresca”, perché il nostro modello
è oramai fottuto: siamo andati troppo oltre – sia quelli che partono
per il Kenya sia coloro che sostano di fronte all’agenzia di lavoro
interinale – e per noi, intesi come “razza italiana”, non c’è
più speranza.
“Il
periodo critico economico inizia con il 2005 – sono presenti i molti
nati negli anni 1945-'58 ormai verso la pensione (13 milioni che si
assommeranno ai precedenti degli anni '30-'45, circa 7 milioni e ciò
significa maggiori spese di previdenza e di assistenza) – più quelli
altrettanto numerosi del 1960-'78 con poco reddito per il calo della
produzione, dovuta alla contemporanea carenza di soggetti della fascia
giovanile 1980-'99 (che sono i maggiori consumatori).
Nell'ambito della produzione si
accavallano quindi due fenomeni fortemente negativi: sono presenti i
morigerati consumatori della prima fascia demografica (quasi un terzo
della popolazione in pensione) che non dispone di grandi mezzi economici
per il consumismo, e contemporaneamente la presenza di una bassissima
fascia giovanile nella misura del 50% in meno rispetto agli anni
precedenti il 1980 (negli anni '60 e '70 nascevano circa 1.000.000
di italiani (l’anno,
n. d. A.), negli anni '90 la metà,
500.000, quindi in
entrambe le due fasce (tanti vecchi – pochi giovani) ci sarà un
numero bassissimo di consumatori, in particolare nei secondi (scuole,
divertimenti, sport, vestiario, consumismo tipico delle fasce in piena
vigoria fisica e antagonistica).”
(www.cronologia.it)
La
situazione preoccupa anche i Giovani Industriali:
“Intanto
nel nostro Paese cresce in modo esponenziale il “bisogno
demografico” di immigrati. I paesi europei sono tra i più vecchi al
mondo e tra questi il primo posto spetta proprio all’Italia, dove già
oggi il 24,5 per cento della popolazione è costituito da
ultrasessantenni.”
E
ancora:
“A
determinare questa inversione della piramide demografica, in Italia, è
– prima ancora che il rapido allungamento della vita media – il
crollo della natalità degli ultimi decenni e quindi, negli ultimi anni,
della popolazione in età lavorativa.”
Infine:
“Uno scenario del genere
traccia un’unica strada per il mantenimento degli attuali livelli di
benessere del nostro Paese: governo e integrazione dei flussi migratori.
Né si può riporre troppa fiducia in politiche tese a favorire la
fecondità degli italiani, politiche che potrebbero solo rallentare il
declino della popolazione giovane in età lavorativa.”[1]
Come
si può notare, Confindustria non crede in un ribaltamento della natalità
degli italiani – anche prevedendo misure economiche “ad hoc” – e
non sposa affatto le teorie isolazioniste e xenofobe di certi ambienti
politici nostrani: i grandi difensori della piccola e media impresa –
con
Perché lor signori pensano soltanto a salvare quel modello economico
che si è rivelato perdente, al punto da condurre intere generazioni
alla sterilità psicologica!
I
consumi, per Dio! Non sia mai che crollino i consumi, altrimenti
l’anno prossimo mi potrò solo sognare il trekking sulle Ande ed il
safari fotografico in Kenya! La produzione, per Dio! Se non c’è
nessuno che lavora, come produciamo per consumare?
E poi noi saremmo dei folli, soltanto perché predichiamo da anni che
l’economia liberista non solo conduce al collasso ecologico del
pianeta, ma ci sta uccidendo nella psiche e nel corpo? Quale segnale
attendere ancora, quale messaggio è più forte di una specie che non si
riproduce più? Non basta riflettere che metà della popolazione – chi
più e chi meno – fa uso di psicofarmaci?
Come
delle serpi, ipnotizziamo le future prede che attraversano il mare su
malferme barchette dopo aver morso l’esca fatta di talk-show e
telefonini, oppure sospinte come branchi d’acciughe verso la rete
dagli squadroni della morte che seminiamo nel mondo, dal Kurdistan al
Sudan, dalla Colombia alla Cecenia.
Siamo i colonizzatori culturali del pianeta, ovvero coloro che predicano
un modello vincente per l’accumulazione capitalista e perdente per la
biologia dell’essere umano. Che gran premi Nobel siamo.
Quando le nostre prede sono finalmente giunte da noi – perché senza
di loro andremmo a fondo in mezzo secolo – vogliamo che acquisiscano
– e in fretta! – i nostri usi e costumi, abbandonando immediatamente
le loro tradizioni.
Così
mandiamo in scena i mezzi busti e le mezze cosce per tentare
l’ennesima operazione di colonizzazione culturale, deridendo chi ha un
imprinting culturale diverso dal nostro. Migliore? Peggiore? Limitiamoci
a ricordare che da mezzo millennio siamo noi che andiamo per il pianeta
con le cannoniere, non gli africani e gli asiatici. Inoltre, ricordiamo
che la parola “stupro” non esiste nei linguaggi primitivi del
pianeta, ma solo nei cosiddetti paesi “civili”.
Proporrei
per le prossime trasmissioni d’inserire, oltre ai mezzi busti ed alle
mezze cosce, anche le “Veline” – ovviamente velate – per
completare il tripudio di stupidità con il quale cerchiamo
d’affrontare un problema semplice, ma serio, come quello
dell’immigrazione.
Se
ne abbiamo bisogno, perché fare tante storie?
Una volta stabiliti alcuni punti fermi: il viso scoperto, ed io
aggiungerei la laicità della scuola, ciascuno potrà professare come
meglio crede la propria fede, senza scatenare battaglie fra mezze cosce
e mezzi veli.
Vorrei
concludere con le parole di un grande giornalista italiano – Paolo
Rumiz – che così sintetizzava ciò che avvenne in Bosnia – primo
sentore della frattura dei due mondi, prima dell’11 settembre –
quando fu distrutto il ponte di Mostar, simbolo e crocevia di più
culture.
“Ripensando a quel crollo col senno di poi, vedi che il conflitto di civiltà nacque allora, e non fu uno scontro fra Cristianesimo e Islam. Non fu nemmeno una resa dei conti fra democrazia dell'Ovest e assolutismo dell'Est, moscovita o ottomano che fosse. Fu l'aggressione della modernità contro un mondo che si ostinava a credere nell'invisibile, la rabbia di una civiltà senza più miti e senza più fede contro un Oriente che condensava troppi simboli.”[2]
I figli, più che il prodotto del denaro, sono il frutto dei nostri sogni, oramai azzerati. A futura memoria.
Carlo Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it