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Giù
le mani dal Venezuela!
Stefano
Vernole
Mentre gli organi di
stampa occidentali ignorano come sempre tutto ciò che accade in America
Latina, il Venezuela sta conoscendo una nuova e autentica stagione
rivoluzionaria.
Il presidente Chavez sta infatti mettendo mano sempre più decisamente
all’architettura oligarchica di una nazione (egli ha infatti definito
il 2004 «l’anno del consolidamento della rivoluzione»), quella
venezuelana, per oltre 50 anni soffocata dal mortale abbraccio tra
l’alta borghesia industrial-finanziaria-sindacale e i padri-padroni di
Washington.
L’ascesa dell’ex comandante dei paracadutisti ha conosciuto finora
un cammino particolare e tormentato.
Le elezioni del 1998 furono vinte a sorpresa, grazie alla sua popolarità
di ufficiale raggiunta sei anni prima, quando egli aveva tentato un
colpo di stato per protestare contro la repressione militare del 1989;
Chavez si era allora rifiutato di partecipare alla carneficina di un
popolo disarmato (si calcola che i morti furono tra i 2000 e i 3000),
reo solo di manifestare contro un sistema politico che arricchiva i
soliti noti malgrado le cospicue materie prime contenute nel sottosuolo
venezuelano.
In un primo momento il suo programma di stampo «bolivariano» non andò
oltre il capitalismo e persino un determinato settore dell’oligarchia
pensò di poterlo utilizzare per riportare ordine nel paese.
Ma Chavez iniziò subito ad applicare le riforme promesse e in
particolare:
1)
Una Costituzione democratica molto avanzata, elaborata mediante
assemblee popolari e referendum (Assemblea costituente);
2)
49 nuove leggi nel solo 2001, delle quali tre molto importanti:
quella sulla pesca, a difesa dei piccoli pescatori contro le
multinazionali del settore; quella sulla terra, volta a distribuire ai
contadini le proprietà con più di 5000
ettari lasciate incolte; quella sugli idrocarburi, la più
importante.
Quest’ultima
stabilì il principio che le risorse petrolifere appartengono alla
Nazione e non possono essere privatizzate; l’industria petrolifera, già
nazionalizzata nel 1976, era però finita nelle mani di un’enorme
burocrazia, così potente da controllare i vari governi e talmente
oligarchica da destinare l’80% delle risorse alle spese di
funzionamento e solo il 20% allo Stato. Peraltro, poco prima
dell’ascesa di Chavez, era già pronto un piano destinato a
privatizzare l’industria petrolifera dopo averla smembrata in varie
parti, assecondando il desiderio delle multinazionali di Washington
(ricordiamo che il Venezuela è il terzo esportatore mondiale di
petrolio verso gli Stati Uniti d’America).
La “reazione” non si fece attendere e il tentato golpe dell’aprile
2002 venne immediatamente riconosciuto da Stati Uniti e Spagna che,
seguendo il modello-Pinochet, avevano direttamente partecipato al suo
finanziamento e alla sua organizzazione e potevano contare su tre
importanti sostenitori interni: la Confindustria, il Sindacato
“tradizionale” (Ctv) e la Chiesa cattolica.
Ma, rispetto al Cile del 1973, le cose andarono diversamente.
Centinaia di migliaia di persone si diressero quasi immediatamente verso
il palazzo presidenziale e favorirono il passaggio di una parte
dell’esercito verso posizioni filo-chaviste: in sole 48 ore il golpe
fallì e la “reazione” conobbe una sconfitta che ha pochi precedenti
nella storia.
Nonostante le pressioni contrarie dei suoi sostenitori, Chavez adottò
una politica conciliatoria e non imprigionò nessuno dei responsabili
del colpo di stato; lo stesso presidente golpista Carmona, messo agli
arresti domiciliari, riuscì a fuggire e oggi vive liberamente a Miami
…
Nessuna misura fu presa contro i mezzi di comunicazione a lui
sfavorevoli, al punto che nel dicembre 2002 l’opposizione iniziò a
preparare un nuovo golpe, stavolta da realizzarsi dopo una serrata
padronale e il sabotaggio dell’industria petrolifera: lo scopo era
quello di mettere il Venezuela in ginocchio economicamente e costringere
il presidente alle dimissioni(1).
La stragrande
maggioranza delle imprese, però, continuò a funzionare regolarmente,
anche perché i lavoratori che trovarono la fabbrica chiusa minacciarono
i padroni di occupazione in caso di mancata riapertura.
L’unica a trovarsi in difficoltà fu la strategica industria
petrolifera (Pdvsa), dove l’enorme burocrazia parassitaria al soldo di
Washington distrusse le chiavi informatiche delle varie raffinerie.
Ma anche qui i lavoratori recuperarono
gradualmente il funzionamento dell’impresa, grazie all’appoggio dei
settori rivoluzionari dell’esercito venezuelano.
Così nel 2003 si utilizzarono i profitti dell’industria petrolifera
per ridistribuire alle comunità contadine milioni di ettari di terreno
non coltivati e si finanziò un grande piano per l’istruzione: 1
milione di venezuelani venne alfabetizzato, 200.000 giovani avviati
all’università e 3 milioni di persone furono inquadrate nei settori
dell’istruzione pubblica.
Fu inoltre lanciato un piano d’assistenza sanitaria al quale
parteciparono 3.500 medici cubani;
esso consentì di fornire copertura medica a milioni di cittadini
che ne erano prima sprovvisti ma provocò le farneticazioni
dell’opposizione che parlò di “deriva castristo-comunista”(2).
Peraltro tutti questi piani non furono “assistenzialisti”, nel senso
di aumentare la dipendenza del popolo dallo Stato, ma favorirono l’autorganizzazione
delle masse, al punto che gli antichavisti persero fiducia e videro la
propria base sociale sempre più decomporsi.
Smacco testimoniato dal fatto che rispetto alle manifestazioni degli
anni precedenti – con la partecipazione di circa 200.000-300.000
persone, l’ultima protesta nell’aprile 2004 vide in piazza a Caracas
solo 10.000 oppositori.
Fallita l’arma
del referendum a causa delle migliaia di firme false presentate(3), gli
avversari di Chavez ricorsero ai metodi più brutali: boicottaggio
economico, licenziamenti di lavoratori, blocco delle reti di
distribuzione alimentare, bombe contro il palazzo presidenziale e le
ambasciate spagnola e colombiana, volte a provocare un incidente
diplomatico o un intervento straniero, assassinio di oltre 120 dirigenti
contadini (Chavez arrivò al punto di prendere in considerazione
l’idea di armare il popolo per difendere la rivoluzione).
Oppure scatenando false accuse, millantando cioè la presenza
nell’Isola Margherita dei Caraibi di un campo di addestramento di Al
Qaida (Chavez alleato di Bin Laden??!!) o “testimoniando”
collegamenti tra il presidente venezuelano e le FARC colombiane.
Si arriva così ai nostri giorni; quotidianamente avvengono provocazioni
militari lungo la frontiera Colombia-Venezuela ad opera di paramilitari
del governo di Bogotà(4) e il Senato colombiano si è spinto fino ad
approvare una risoluzione che chiede l’applicazione della Carta
democratica americana contro Chavez: essa permetterebbe un embargo
economico e un intervento militare degli Stati Uniti nei confronti di
Caracas (nel frattempo la Spagna di Aznar vende 46 nuovissimi carri
armati alla Colombia).
La situazione di crisi costringe invece Chavez ad arrestare circa 100
paramilitari colombiani che si addestrano all’interno dei confini
venezuelani, mentre Bogotà fa orecchie da mercante … e nega qualsiasi
coinvolgimento in quest’operazione.
Da tutto questo quadro possiamo allora trarre alcune conclusioni
significative.
In Venezuela si assiste da anni a un braccio di forza tra due
schieramenti contrapposti: da una parte - con il presidente Chavez -
registriamo la stragrande maggioranza dei lavoratori, dei poveri, dei
salariati, dei soldati e alcuni importanti ufficiali dell’esercito,
dall’altra - contro di lui - troviamo una porzione significativa delle
classi medie, il grande capitale e le potenze imperialistiche, Stati
Uniti in primis.
Il progetto iniziale di Chavez era quello di costruire un “capitalismo
dal volto umano”, attraverso una dottrina economica mista
pubblico-privato che non intaccasse minimamente la proprietà, ma dopo
la ribellione del grande capitale la sua strategia si è decisamente
approfondita.
Durante
l’esperienza dell’autogestione, i lavoratori dell’industria
petrolifera si sono convinti sia della possibilità di un controllo
operaio sulla produzione(5) sia della necessità di nazionalizzare le
proprietà dei golpisti - cioè le principali banche venezuelane - e di
approfondire la lotta al capitalismo imperialista.
Così lo stesso Chavez parla oggi apertamente di “lotta contro il
capitalismo”, vista anche la sua forte empatia nei riguardi dei reali
desideri delle masse popolari.
All’interno del movimento nazionalrivoluzionario venezuelano vi sono
comunque posizioni diverse: da quelle più graduali, favorevoli a
continuare il cammino riformistico a quelle desiderose di assestare con
forza un colpo decisivo a un imperialismo capitalistico ancora troppo
attivo.
Sicuramente, finché gli Stati Uniti rimarranno con le loro truppe in
Iraq, non potranno inviare soldati in Venezuela e continueranno a
utilizzare la Colombia in funzione anti-chavista, ragione in più per
solidarizzare con la resistenza baathista.
Con altrettanta sicurezza, possiamo affermare che i tentativi di
Washington di destabilizzare la presidenza Chavez, si scontreranno con
la ferma reazione del popolo venezuelano!
Stefano
Vernole
Fonte per
l’articolo: “Topo obrero”, rivista della “sinistra operaia”
venezuelana.
Note
(1)
L’oligarchia venezuelana e le imprese multinazionali
controllano in pratica i mezzi di comunicazione, l’industria privata e
il sistema bancario.
(2)
Grazie ai progetti del governo 680.000 persone hanno potuto
terminare la scuola elementare ed ottenere un’educazione di base. La
sanità è diventata un diritto e nel solo mese di gennaio 2004 più di
6 milioni di cittadini hanno avuto accesso gratuito alle cure mediche.
L’economia si sta riprendendo dal duro colpo infertole dalla serrata
padronale, la produzione industriale nel 2003 è cresciuta del 18%,
mentre la disoccupazione è scesa dal 20 al 16%.
(3)
La nuova Costituzione venezuelana prevede la possibilità di
revocare tramite referendum ogni carica pubblica eletta a metà del
mandato; sono sufficienti il 20% delle firme dell’intero corpo
elettorale per convocare un referendum revocatorio, una procedura così
democratica da non trovare paragoni. Malgrado ciò la commissione
elettorale nazionale (Cen) ha controllato le firme raccolte, ed ha
annunciato che solo 1.800.000 degli oltre milioni consegnate
dall’opposizione erano effettivamente valide. Più di 377.000 sono
state direttamente annullate poiché appartenenti a minori, privati dei
diritti elettorali o addirittura deceduti. Decine di migliaia sono state
apposte con la stessa calligrafia, ma i dirigenti dell’oposizione –
spalleggiati dall’Organizzazione degli Stati Americani e dagli
osservatori del Centro Carter hanno rifiutato il verdetto e incitato
alla “disobbedienza civile” contro il governo. Un’indagine
giudiziaria è stata aperta contro Ernesto Villegas, un giornalista
accusato di aver pubblicato la trascrizione di una conversazione
telefonica fra due dirigenti dell’opposizione, nella quale questi
ultimi ammettevano di non avere raccolto le firme necessarie, malgrado
la registrazione fosse ormai di dominio pubblico e la sua veridicità
fosse stata ammessa da una delle persone coinvolte. Sono inoltre state
trovate prove di come “Sumate” – l’organizzazione
dell’opposizione che ha coordinato la raccolta di firme – abbia
ricevuto dei finanziamenti dall’ “US National Endowment for
Democracy” (Fondo nazionale USA per la Democrazia …).
(4)
Nello stato di Zulia il governatore antichavista sta utilizzando
la polizia locale contro il governo centrale, minacciando di dichiarare
l’indipendenza della regione e provocando così un intervento
dell’esercito venezuelano. Qui entrerebbe in gioco l’esercito della
Colombia, con la quale Zulia confina, che correrebbe in soccorso della
regione “ribelle” e della democrazia (do you remember Kosovo?).
(5)
Nell’agosto 2003, 1.200 delegati si sono riuniti a Caracas per
il primo congresso dell’UNT (Unione nazionale dei lavoratori), nella
Dichiarazione dei Principi si legge: “Il nostro obiettivo è
trasformare la società capitalista in una società autogestita per
creare un nuovo modello di sviluppo autonomo e indipendente …”.