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L'America
in mano a chi non vota
Sergio
Finardi, da «Il Manifesto» 29 gennaio 2004
E'utile
oggi, mentre si rinnova la bagarre delle primarie, vedere più
oggettivamente e da un punto di vista spesso trascurato, quello dei
non-votanti, alcuni aspetti della precedente campagna presidenziale che
possono fornire indicazioni sul destino di un possibile blocco «democratico»
che superi la massa di voti raccolta allora da Al Gore e Nader. Quando,
nel 2000, George W. Bush ruba la presidenza ad Al Gore grazie ad un
indegno verdetto della Corte Suprema, quasi tutti i giornalisti e
analisti politici «liberal» statunitensi non hanno il minimo dubbio
sui colpevoli: la campagna elettorale deprimente di Al Gore, la
candidatura presunta ruba-voti di Ralph Nader, le demenziali macchinette
contavoto, i giudici della Corte che sono in maggioranza dei beceri
reazionari (vero), i brogli perpetrati in alcuni collegi elettorali
della Florida e di altri Stati dai sostenitori di Bush (altrettanto
vero).
1. C'è però un piccolo particolare, di cui non
parlano volentieri. Nel 2000, su una popolazione di 281 milioni di
abitanti, le persone in età di voto sono 206 milioni, i votanti 105
milioni, nemmeno il 51% o qualcosa di più se si considera che non tutte
le persone in età di voto vi hanno diritto. Proporzioni simili si
rintracciano in quasi tutte le elezioni del secondo dopoguerra, con
ancora minori e spesso risibili percentuali quando si scende al livello
delle elezioni nei vari Stati, nelle contee, o per i sindaci delle
metropoli (in quella in cui abito viene eletto solitamente con meno del
10% dell'elettorato).
Democratici tranquilli
La metà degli aventi diritto che non vota nemmeno
per le più importanti elezioni del proprio Paese (e per le conseguenze
che hanno, le più importanti del mondo) è un fatto ripetitivo che non
sembra aver mai agitato le notti degli strateghi Democratici, gli unici
che dovrebbero preoccuparsene, dato che ai Repubblicani meno gente vota
e meglio va. Si preoccupano del sex-appeal dei loro candidati, di farli
piacere ai moderati bianchi, all'elettorato femminile (o in futuro
maschile) e afro-americano ricco, a «quelli che» la bandiera se la
portano a letto, ai militari, ai bambini, ecc., ma chiedersi come mai
100 milioni di persone non considerano nemmeno la fatica di votare per
il loro presidente esce dal loro orizzonte mentale. E' un fatto della
vita, anzi un'espressione di quanto sia libero l'homo statunitensis. Sarà
che sono pigri (negli Stati uniti non si ha diritto di voto
semplicemente perché cittadini, come in quasi tutte le democrazie del
mondo, ma in quanto come cittadini ci si sia andati a registrare in
apposite liste sulla cui base si ha poi accesso al voto e bisogna farlo
ogni volta che si cambia Stato). Sarà che sono probabilmente gente che
non crede più, se mai ci ha badato o creduto, che per loro cambi
qualcosa con un Bush invece che un Al Gore. Sarà che è gente
anti-sistema, che è meglio non sollecitare troppo, casomai pretendesse
di discutere perché un Paese che ha avuto molti presidenti Democratici
abbia uno dei più discriminanti sistemi sanitari del mondo - con
quaranta milioni di persone che nemmeno si possono permettere
l'assicurazione di base - e le peggiori leggi sul lavoro tra tutte le
democrazie avanzate. Meglio lasciarli stare e scannarsi per conquistare
quel qualche milione di voti di «centro» che sono la preda ambita di
ogni Democratico.
2. Eppure, dentro quei cento milioni di non votanti
c'è la vera chiave di un Paese politicamente diverso. Chi sono?
Difficile osservarli direttamente, statistiche ed inchieste di ampiezza
generale non ce ne sono o sono saltuarie e confinate a situazioni
locali. Per poterne capire qualche loro caratteristica occorre lavorare
su altri dati, indirettamente, osservando il voto e la sua
distribuzione, un compito piuttosto arduo perché anche qui non sono
rose.
Innanzitutto, dice la Federal Election Commission (FEC),
che presiede alle elezioni federali statunitensi e compila le relative
statistiche: «né l'Ufficio nazionale del censimento, né alcun altra
organizzazione, può definire con buona accuratezza quante persone
abbiano diritto al voto negli Stati uniti». Non c'è un'anagrafe quale
la conosciamo in Europa, né appunto un conto nazionale sul godimento di
diritti politici (c'è in ogni Stato una lista di quelli che li hanno
persi), i passaporti sono cosa rara (meno del 10% degli statunitensi ne
ha uno), le statistiche federali sulla popolazione riportano gli
abitanti in età di voto (VAP), ma non è loro compito dire chi tra
quelli vi abbia diritto; né dicono quanti lo abbiano perso perché
carcerati o privati dei diritti politici (in molti Stati, la Florida per
esempio, anche modeste condanne levano per sempre i diritti politici);
tantomeno riportano chi tra gli immigrati abbia acquisito la
cittadinanza e possa dunque votare e chi invece sia tra loro
semplicemente un residente e non vi abbia diritto; chi, infine, abbia
perso il diritto di voto perché insano di mente o per altre cause. «Secondo
una stima del 1994 - dice ancora la FEC nel 2003 - circa 13 milioni di
persone sopra i 18 anni non erano cittadini statunitensi». Nessuno sa
esattamente quanti siano oggi, ma si potrebbe stimarli in 16/17 milioni,
circa il 9% della popolazione in età di voto. Se, tuttavia, scontiamo
la forzata approssimazione dei dati e la difficoltà di mettere insieme
dati di varie fonti non sempre compatibili, qualche ragionamento
possiamo pur farlo sui grandi assenti della politica statunitense.
I lavoratori dipendenti
Alla data delle scorse elezioni presidenziali, gli
abitanti statunitensi erano come s'è visto, circa 281 milioni e la
forza-lavoro complessiva (da 16 anni in su) pari a circa 142 milioni di
persone. Di queste, 131 milioni erano lavoratrici e lavoratori
dipendenti, a tutti i livelli e per tutti i rami di attività non
agricola (la popolazione dipendente agricola è un altro mistero delle
statistiche Usa, «godendo» di una sua contabilità che ne rende
difficile l'assimilazione al resto della forza-lavoro).
Come pure detto, la popolazione in età di voto (VAP)
raggiungeva nel 2000 i 206 milioni e coloro che avevano una valida
registrazione al momento del voto (in quattro Stati non c'è necessità
di registrazione anticipata) erano significativamente 154 milioni,
ovvero il 75% dei VAP e un po' di più se si ricorda quanto detto a
proposito della differenza tra VAP e effettivi cittadini. Eppure, al
momento del voto, il 32% di quei 154 milioni che si erano registrati non
è andata poi a votare, una bazzeccola da 49 e passa milioni di persone
che si aggiungevano ai circa 50 milioni che la registrazione non
l'avevano fatta pur avendone il diritto, il tutto portando appunto ai
100 milioni circa di non votanti.
Se i non registrati avevano chiaramente espresso
l'indifferenza o il disgusto per le elezioni presidenziali, quei 49
milioni che almeno il desiderio di votare lo avevano espresso, ma non
erano poi andati alle urne, dicono qualcosa di più problematico.
Difficile ritenere che non fossero in buon parte lavoratori dipendenti o
studenti, statistiche sulle professioni alla mano.
Anche supponendo, erroneamente, che coloro che non
si sono mai registrati siano perduti «alla causa», quegli altri 49
milioni sono invece, per la più parte, cosa «nostra». Ovvero, è
problema di un lavoro dipendente o in formazione cui nessuno, né Al
Gore, né Nader, né il sindacato, è riuscito a dire qualcosa che lo
mobilitasse al voto dopo che pure vi si era registrato. E allora vediamo
un po' più da vicino, a livello di Stati e di sindacalizzati, come si
è mostrato il voto e il non-voto in quelle elezioni.
3. Un dato generale di cui occorre tenere in primo
luogo conto sono quei 131 milioni che vengono qualificati come
dipendenti, ovvero non sono né professionisti, né imprenditori. Di
questi dipendenti, poco più di 16 milioni (o il 12.5%) erano nel 2000
affiliati ad un sindacato qualsivoglia. Dato che il sindacato è
attivamente impegnato nel lavoro di sensibilizzazione alla registrazione
e al voto, è assai improbabile che ci sia molto da pescare - quanto a
non-votanti - in quest'area, mentre è invece interessante vedere il
rapporto possibile della sindacalizzazione per Stato con i dati delle
elezioni presidenziali.
Possiamo al proposito di raggruppare i 51 Stati
dell'Unione (Porto Rico è solo associato) per il loro grado di
sindacalizzazione e vedere come agisce il voto e il non-voto nei
risultati elettorali combinati di Al Gore e Nader. Solo 4 Stati (New
York, Hawaii, Alaska e Michigan) hanno nel 2000 un tasso di
sindacalizzazione dei dipendenti che supera il 20% ed è compreso il 21
e il 26%. Ce ne sono poi 25 il cui tasso è compreso tra il 10 e il 20%;
e 22 con un tasso tra il 9 e il 3%. Tra gli Stati della seconda fascia,
prevalentemente della Costa Est e del Centro, quelli che hanno i tassi
più alti di sindacalizzazione sono sede di grosse concentrazioni
produttive (New Jersey, Illinois, Washington, Minnesota, Ohio). Negli
Stati della terza fascia, prevalentemente del Centro Ovest e del Sud,
quelli che arrivano almeno al 9% (Alabama, Kansas, Wyoming, Colorado,
New Mexico, Oklahoma) hanno situazioni produttive molto varie,
dall'agricolo all'industriale avanzato. Buone ultime la North e South
Carolina, con il 3/4%, a buona memoria del loro passato (?) razzista e
segregazionista.
Come ha funzionato nelle tre fasce il rapporto
lavoro dipendente/sindacalizzati, voto «a sinistra» (si fa per dire) e
non-voto?
Nei 4 Stati della prima fascia, abbiamo circa 22
milioni di persone in età di voto (VAP), poco meno di 18 milioni di
registrati, 14 milioni di dipendenti, 11,7 milioni di votanti, 3,2
milioni di sindacalizzati: ad Al Gore/Nader vanno 6,9 milioni di voti
(59% dei votanti) ed è abbastanza chiaro il peso della presenza
sindacale. Se consideriamo i registrati ma non votanti, abbiamo circa 6
milioni di persone di cui almeno 2 milioni potrebbero essere lavoratori
dipendenti (la cosa non è probabile a livello statistico)
riconquistabili «alla causa».
Nei 25 Stati della seconda fascia, i VAP sono nel
2000 circa 105 milioni, i registrati al voto quasi 79 milioni, i
dipendenti 67 milioni, i votanti 55 milioni, i sindacalizzati 10,2
milioni. Al Gore/Nader raccoglie 30 milioni di voti (quasi il 55% dei
votanti). Tra registrati, 24 milioni hanno scelto il non-voto ed una
buona parte di essi è probabilmente un lavoratore dipendente. Nella
fascia, la presenza sindacale generale è troppo esigua per funzionare
da volano altro che in quegli Stati già ricordati, ove la
concentrazione industriale e di servizi è forte. Se però andiamo al
livello delle aree metropolitane degli Stati di questa fascia, troviamo
tassi di sindacalizzazione che nel privato raggiungono anche il 38% e
nel pubblico si aggirano tra il 50 e il 60%. Anche solo una frazione, i
dipendenti, di quei 24 milioni di registrati non-votanti potrebbe
portare il blocco «democratico» a una maggioranza ancora più solide
di quella del 2000.
Infine, nei 22 Stati della terza fascia, i VAP
arrivano in quell'anno a 79 milioni, i registrati al voto a 57 milioni,
i dipendenti a 50 milioni, i votanti a 38 milioni, i sindacalizzati a
solo 3 milioni. Al Gore/Nader prende 17 milioni di voti (meno del 45%
dei votanti). Fuori luogo pensare in questi Stati ad un ruolo trainante
della presenza sindacale per riportare al voto quei 19 milioni di
registrati che non hanno poi votato, ma in alcuni di tali Stati le
premesse per un superamento del voto repubblicano certamente vi sono:
nella «vexata» Florida, Al Gore/Nader prendeva nel 2000 il 50,5% dei
voti; in New Mexico il 51,5% e in alcuni altri Stati (Tennessee,
Arizona, Virginia) era molto vicino al 50% e, nell'impossibile Texas,
con i suoi più di 9 milioni di dipendenti, di cui solo il 5%
sindacalizzati, il 40% dei voti espressi. Che i Dean e i Clark o i Kerry
siano davvero intenzionati a, o capaci di, mobilitare quelle decine di
milioni di quasi-elettori e portarli dalla propria parte si può
fortemente dubitare. Ma, considerando i dati esposti in queste note, si
potrebbe almeno smetterla di parlare dei «100 voti (di Nader) che hanno
cambiato il mondo».