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Gli
Usa e la corsa all'oro nero africano
Stefano
Liberti
Ricco
di petrolio e più stabile del Medioriente, il golfo di Guinea è una
regione di interesse strategico per gli Stati uniti. Che stanno pensando
di installarci una base militare.
Mentre si impantanano nel golfo persico, gli
Stati uniti stanno portando avanti un'altra battaglia strategica ben più
silenziosa in un altro golfo a qualche migliaio di chilometri da lì: il
golfo di Guinea, fulcro dell'Africa occidentale. Ricca di petrolio, più
facilmente controllabile dal punto di vista politico, questa regione sta
infatti suscitando interessi crescenti da parte dell'amministrazione
americana. Tutto è cominciato all'indomani dell'11 settembre, quando da
più parti si è invocato un allentamento della dipendenza energetica
dall'Arabia saudita, da cui provenivano 13 dei 19 attentatori suicidi
responsabili degli attentati a New York e Washington.
Ad aprire idealmente le danze è stata una conferenza organizzata il
25 gennaio 2002 dall'Institute for Advanced Strategic and Political
Studies (Iasps), un think tank con sede a
Gerusalemme attivamente impegnato nel cementare l'alleanza tra i falchi
del Likud e gli estremisti neo-conservatori in quota al Pentagono.
La conferenza, tenuta nella sede distaccata dello Iasps a Washington, ha
visto la partecipazione di funzionari dell'amministrazione, membri del
congresso, responsabili delle compagnie petrolifere Usa e degli
ambasciatori di quasi tutti gli stati produttori di greggio del
continente nero. Nell'allocuzione iniziale, Walter Kansteiner, all'epoca
sottosegretario di stato incaricato di questioni africane, decretava con
toni solenni che il petrolio sub-sahariano era ormai «un interesse
strategico degli Stati uniti». Così, alla fine dei lavori veniva
decisa la formazione di un «Gruppo di iniziativa sulla politica
petrolifera africana» (Aopig, nel suo acronimo americano), una vera e
propria lobby che vedeva riuniti allegramente, senza timore di conflitti
di interessi, responsabili dell'amministrazione Bush, rappresentanti del
Congresso, compagnie petrolifere, società di investimento e consulenti
internazionali. Guidato da Paul Michael Wihbey, membro di spicco dello
Iasps e convinto sostenitore della necessità di abbandonare il petrolio
mediorientale perché serve a finanziare i nemici di Israele, il gruppo
si sarebbe poi presentato in pubblico con un libro bianco dal titolo «African
oil, a priority for Us national security and african development». Un
testo che si poneva l'obiettivo di far passare tra i dirigenti Usa
l'idea che l'Africa occidentale, fino ad allora trascurata, doveva
diventare una zona di interesse primario. Nel perseguire questo
obiettivo, lo Iasps si trovava peraltro tutt'altro che isolato; appena
quattro giorni dopo la conferenza di Washington, l'influente Council on
foreign relations organizzava un seminario dai toni simili - «La
risposta dell'America al terrorismo: gestire i profitti del petrolio
africano in un clima globale mutevole».
Il clima globale mutevole imponeva un
raddrizzamento di rotta, che l'amministrazione Usa, dominata dai
petrolieri, imprimeva lentamente ma decisamente alla propria agenda. Nel
rendere pubbliche, il maggio successivo, le linee guida della politica
energetica nazionale, il vice-presidente Dick Cheney dichiarava che «il
petrolio africano, a causa della sua alta qualità e del suo basso tasso
di zolfo, rappresenta un mercato in sviluppo per le raffinerie della
costa est».
La Guinea equatoriale, colonia americana
Da allora, la presenza americana
nella regione ha subito un'impennata. Nel luglio 2002, una delegazione
dell'Aopig si è recata in visita in Nigeria, dove si è intrattenuta
con il presidente Olusegun Obasanjo, cercando di convincerlo della
necessità di uscire dall'Opec e dai suoi meccanismi di controllo della
produzione e dei prezzi. Nel settembre successivo Colin Powell è andato
in Gabon, per la prima visita di un segretario di stato Usa in quel
paese; nell'estate scorsa Bush è sbarcato in Nigeria, dopo aver
incontrato a più riprese a Washington gli ambasciatori dei paesi
dell'Africa occidentale; a metà ottobre gli Stati uniti hanno riaperto,
dopo otto anni di chiusura, la propria ambasciata a Malabo, capitale
della Guinea equatoriale, che sta diventando una vera e propria colonia
americana. Tenendo conto della produzione giornaliera di 500.000 barili
di greggio (uno per abitante), Bush non ha avuto remore a riattivare i
contatti con il dittatore guineano Teodoro Obiang, già descritto dalla
Cia come un «dirigente fuorilegge che ha saccheggiato l'economia
nazionale». Oggi i due terzi delle concessioni petrolifere guienane
sono affidate a compagnie Usa e i giacimenti sono difesi da guardiacoste
formati dalla Military Professional Ressources Inc, società privata
guidata da ex ufficiali del Pentagono.
Poco
più a nord, l'attivismo non è minore: nel giro di un anno è stata
ultimata a tempo di record la costruzione di un oleodotto di poco più
di 1000 km da Doba, nel Ciad meridionale, alla città costiera
camerunense di Kribi, che dovrebbe produrre 225mila barili di greggio al
giorno. Costato 3,5 miliardi di dollari e inaugurato il 10 ottobre
scorso, il progetto è stato finanziato da un consorzio americano-malese
composto da alcune tra le principali multinazionali del petrolio -
ExxonMobil, Chevron Texaco e Petronas - e da fondi della Banca mondiale.
Un tesoro off-shore
La frenesia è giustificata: i
dati sulle potenzialità energetiche dell'Africa occidentale sono a dir
poco impressionanti. Le riserve accertate sono oggi pari a 24 miliardi
barili. Ma il ritmo a cui vengono scoperti nuovi giacimenti fa ritenere
agli esperti che in realtà i paesi che si affacciano sul golfo di
Guinea posseggano più di 100 miliardi di barili di petrolio. Anche la
produzione, che oggi si attesta sui 4 milioni di barili quotidiani (pari
il quantitativo prodotto complessivamente ogni giorno da Messico,
Venezuela e Iran), dovrebbe aumentare considerevolmente e raggiungere,
secondo previsioni realistiche, i 10 milioni al giorno entro il 2010. Il
Golfo di Guinea provvede a fornire il 15 % delle importazioni di greggio
degli Stati uniti (quanto l'Arabia saudita). E, secondo le proiezioni di
diversi analisti, questa cifra potrebbe salire al 20% in appena due-tre
anni. Notevoli e multiformi sono i vantaggi del greggio del golfo di
Guinea: costi di trasporto molto inferiori grazie alla relativa
vicinanza agli Stati uniti; una minore instabilità politica; una minore
influenza dell'Opec (fra tutti i produttori, solo la Nigeria ne fa parte
e forse un giorno deciderà di uscirne, come già ha fatto il Gabon);
una maggiore ricettività verso gli investimenti stranieri, l'assenza di
un concorrente politicamente ed economicamente agguerrito come la
Russia. La Francia e TotalFinaElf, infatti, pur sfruttando i legami
politico-economici risalenti all'epoca coloniale, non sono in grado di
contrastare le risorse finanziarie di cui dispongono i giganti americani
Chevron ed ExxonMobil. Inoltre, l'ultimo ma non trascurabile vantaggio
dei nuovi giacimenti del golfo di Guinea è la loro posizione: si tratta
di riserve prevalentemente off-shore, lontane da eventuali turbolenze
politiche e sociali.
Per
blindare e controllare l'area, gli Stati uniti stanno comunque pensando
di installare un comando militare permanente nel piccolo arcipelago di
Sao Tomé e Principe, ricchissimo anch'esso di petrolio e posto
strategicamente al centro del golfo. Questo è quanto auspicava Wihbey
in un rapporto pubblicato alla fine del 2001, questo è quello che gli
Stati uniti si apprestano a fare, a giudicare dalle recenti visite di
esperti militari a Sao Tomé. Insomma, il futuro dell'Africa occidentale
sembra destinato a seguire prevalentemente le linee guida approntate
dall'Aopig, la cui ideologia si regge su due pilastri fondamentali:
estrazione e militarizzazione.