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Upa.
Un consumismo da soviet
Tratto
da http://www.cunegonda.info/21upaspot.htm
Il male alle volte
prende la forma di una pubblicità televisiva. È successo di recente in
relazione a una martellante campagna pubblicitaria a cura dell’Upa
(Utenti della Pubblicità Associati). Ve la ricordate? Proviamo a
rinfrescare la memoria. La sceneggiatura di questo spot prevedeva che un
consumatore venisse ringraziato in strada caldamente da tutti e con
franca riconoscenza, solo per il fatto di avere comprato, e di aver
contribuito in questo modo a fare girare l’economia. “Grazie!“
Questa la parola chiave della comunicazione pubblicitaria.
La trovata pubblicitaria di promuovere l’idea stessa di “consumo”
è stata criticata da più parti. Sia per la naturale antipatia del
soggetto scelto per la storia, sia perché il messaggio in fin dei conti
scaricava sul singolo cittadino i fallimenti di una classe dirigente e
in particolare di un governo sempre meno credibile, a livello nazionale
e internazionale, sia perché il telespettatore alla fine non aveva ben
chiaro cosa fosse esattamente l’UPA, l'arcana quanto fantomatica
organizzazione che firmava lo spot. Ma lo spot ci sembra deprecabile
soprattutto per altre due ragioni.
Cos’è l’UPA? Come abbiamo scritto sopra, Utenti della Pubblicità
Associati. Chi sono gli utenti della pubblicità? La risposta viene
spontanea: noi siamo gli utenti della pubblicità, se la pubblicità è
un servizio, i cittadini ne sono gli utenti. Per tutto il tempo della
martellante campagna pubblicitaria era difficile trovare informazioni
sull’UPA. Solo in prossimità della fine della campagna è stato
attivato il sito ufficiale dell’associazione (http://www.upautentipubblicita.it).
Qui le nostre supposizioni crollarono, perché si scoprì che l’UPA è
una associazione di aziende industriali, commerciali e di servizi che
investono in pubblicità. Insomma, nello spot sono coloro che producono
che ci dicevano “comprate, comprate, comprate”. Facciamo un esempio.
Mettiamo che la Fiat produca un’auto e poi finanzi una pubblicità, ma
non per raccontarci quanto sia bella veloce e sicura la sua automobilina,
ma solo per dirci “la vuoi aiutare o no l’economia? compratela, non
fate i difficili, lo sappiamo tutti che è una baracca inquinante che
non vale un accidente, ma suvvia, cacciate il grano!”. Strano, vero?
La prima ragione per rifiutare la filosofia di questa pubblicità è la
seguente. È evidente che la logica che innerva i significati di questo
spot è ispirata da una sorta di ideale sovietico del libero mercato,
dove non contano più la qualità, la concorrenza, il libero mercato, la
vera competitività tra aziende (quella sì che farebbe girare
l’economia), ma è importante solo l’atto del comprare, ciecamente e
senza freni, inseguendo un fine ideale che risiede solo nell’interesse
di chi vende, perché chi se ne intende di economia sa che una economia
florida non porta benefici solo nelle tasche delle imprese e che,
soprattutto, sono i cittadini che seguendo complessi sistemi di pulsioni
- non i diktat delle imprese -, aumentano o diminuiscono i loro ritmi di
consumo. Ai consumatori è stato chiesto di chiudere gli occhi, di
cessare di svolgere il ruolo di veri attori dell’economia e della
qualità dei servizi, di rinunciare ai criteri della selettività, della
qualità, della convenienza, del consumo impegnato, e di sostituire
tutto ciò con una liberatoria scarica di consumi ingiustificati. Il
fatto è che qualora i consumatori realizzassero veramente questo tipo
di comportamento, si porrebbero le condizioni per una vera e propria
implosione dell’economia che, senza più il feed-back critico del
consumatore, produrrebbe un calo vertiginoso della competitività e
dell’innovazione (altro motore fondamentale delle economie). Emergono
dunque l’incompetenza, l’irresponsabilità, o forse la semplice
superficialità, di chi ha ideato uno spot che, nato con l’intenzione
di aiutare l’economia, ha rischiato invece di deteriorarne
ulteriormente i presupposti. Sarà un caso, ma dopo questa campagna
pubblicitaria i consumi
hanno continuato a calare vertiginosamente.
La seconda ragione per la quale questo spot appare scellerato è più
propriamente umana, e fa appello a una idea alta del principio di
convivenza sociale. I sociologi continuano a ripetere che nelle società
consumistiche sono soprattutto le relazioni tra individui a essere
intaccate nel loro valore umano, ormai svuotate dell’originario
significato mutualistico fondato sull’assistenza e sulla cura
reciproca finalizzate a una cooperazione senza fini di lucro. La
campagna Upa ci presenta un mondo da incubo, dove le relazioni umane -
con gli attributi di franchezza e di generosità che vengono mostrati
– assumono valore solo in virtù di una contropartita monetaria: un
potenziale miglioramento dell’economia. Ancora più assurdo è che lo
scopo di quel rapporto umano risieda ormai al di fuori
dell’interazione tra gli individui, e che vada invece a collocarsi in
una sfera altra e lontana, quella dei meccanismi macroeconomici. Questo
è l’aberrante risvolto umano del consumismo da soviet di cui si è
accennato in precedenza.
Le due ragioni che abbiamo cercato di argomentare mettono allo scoperto
le due facce della stesa medaglia, cioè i due significati profondi
dello spot che si sovrappongono e che adottano il linguaggio
pubblicitario per persuaderci che la Storia ha trovato il suo culmine
nel sacrificio delle relazioni umane sull’altare del consumismo. Ma
non saranno i consumi (smodati) di una parte del mondo a salvare le
sorti della nostra società, quanto piuttosto una riduzione drastica dei
consumi, una rivoluzione negli stili di vita, una spartizione più
democratica della ricchezza.
Postilla
Non siamo certo i primi né saremo gli ultimi a porre l’accento su
questa campagna pubblicitaria e sulla fantomatica quanto un po'
orwelliana associazione che lo ha promosso. A titolo informativo, si
legga questa illuminante “lettera
aperta con 24 domande” che l’Istituto di Etica della Pubblicità
ha inviato ai responsabili dell’Upa.
[Gianni, Redazione Cunegonda Italia]