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I
trent’anni di un’istituzione segreta
Gli opachi poteri della
Trilaterale
Di
Olivier Boiral da «Le Monde Diplomatique» novembre 2003
Dirigenti delle
multinazionali, governanti dei paesi ricchi e sostenitori del liberismo
economico hanno rapidamente compreso che dovevano agire di concerto se
volevano imporre la propria visione del mondo. Nel luglio 1973, in mondo
allora bipolare, David Rockefeller lancia la Commissione trilaterale,
che segnerà il punto di partenza della guerra ideologica moderna. Meno
mediatizzata del forum di Davos, la Trilaterale è molto attiva,
attraverso una rete di influenze dalle molteplici ramificazioni.
Trent’anni
fa, nel luglio 1973, su iniziativa di David Rockefeller, figura di
spicco del capitalismo americano, nasceva la Commissione trilaterale.
Cenacolo dell’élite politica ed economica internazionale, questo
circolo chiusissimo e sempre attivo formato da alti dirigenti ha
suscitato, soprattutto ai suoi inizi, molte controversie (1).
All’epoca, la Commissione si prefiggeva di diventare un organo privato
di concertazione e orientamento della politica internazionale dei paesi
della triade (Stati uniti, Europa, Giappone). L’atto costitutivo
spiega: «Basata sull’analisi delle più rilevanti questioni con
cui si confrontano l’America e il Giappone, la Commissione si sforza
di sviluppare proposte pratiche per un’azione congiunta. I membri
della Commissione comprendono più di 200 insigni cittadini impegnati in
settori diversi e provenienti dalle tre regioni». (2)
La
creazione di questa organizzazione opaca in cui a porte chiuse e al
riparo da qualsiasi intromissione mediatica si ritrovano fianco a fianco
dirigenti di multinazionali, banchieri, uomini politici, esperti di
politica internazionale e universitari, coincideva all’epoca con un
periodo di incertezza e turbolenza della politica mondiale. La direzione
dell’economia internazionale sembrava sfuggire alle élite dei paesi
ricchi, le forze di sinistra apparivano potenti, soprattutto in Europa,
e la crescente interdipendenza delle questioni economiche chiamava le
grandi potenze a una cooperazione più stretta. Rapidamente, la
Commissione trilaterale si impone come uno dei principali strumenti di
questa concertazione, attenta al tempo stesso a proteggere gli interessi
delle multinazionali e a «chiarire» attraverso le proprie analisi le
decisioni dei dirigenti politici. (3)
Come
i re filosofi della città platonica, che contemplavano il mondo delle
idee per infondere la loro trascendente saggezza nella gestione degli
affari terrestri, l’élite che si riunisce all’interno di questa
istituzione molto poco democratica si adopera nel definire i criteri di
un «buon governo» internazionale.
Veicola un ideale platonico di ordine e controllo, assicurato da una
classe privilegiata di tecnocrati che mette la propria competenza e la
propria esperienza al di sopra delle profane rivendicazioni dei semplici
cittadini: «La cittadella trilaterale è un luogo protetto dove la
techné è legge – commenta Gilbert Larochelle. E dove
sentinelle dalle torri di guardia vegliano e sorvegliano. Ricorrere alla
competenza non è affatto un lusso, ma offre la possibilità di mettere
la società di fronte a se stessa. Il maggio benessere deriva solo dai
migliori che, nella loro ispirata superiorità, elaborano criteri per
poi inviarli verso il basso». (4)
All’interno
di questa oligarchia della politica internazionale, le cui riunioni
annuale si svolgono in varie città della triade, i temi vengono
dibattuti in una discrezione che nessun media sembra più voler
disturbare. Essi sono oggetto di rapporti annuali (The Trialogue) e di
lavori tematici (Triangle Papers) realizzati da équipes di esperti
americani, europei e giapponesi scelti molto accuratamente. Questi
documenti pubblici, regolarmente pubblicati da circa trent’anni,
mostrano l’attenzione che la trilaterale rivolge ai problemi globali
che trascendono le sovranità nazionali, come la globalizzazione dei
mercati, l’ambiente, la finanza internazionale, la liberalizzazione
delle economie, la regionalizzazione degli scambi, i rapporti Est- Ovest
(all’inizio), il debito dei paesi poveri.
Contro «gli eccessi della
democrazia»
Gli
interventi ruotano intorno ad alcune idee fondanti, ampiamente riprese
dalla politica. La prima è la necessità di un «nuovo ordine
internazionale». Il quadro sarebbe troppo angusto per trattare grandi
questioni mondiali la cui «complessità» e «interdipendenza» vengono
continuamente riaffermate. Un’analisi del genere giustifica e
legittima le attività della Commissione che è sia un osservatorio
privilegiato sia il capomastro di questa nuova architettura
internazionale.
In
tal senso gli attentati dell’11 settembre hanno fornito una nuova
occasione di ricordare, durante l’incontro di Washington nell’aprile
del 2002, la necessità di un «ordine internazionale» e di una «risposta
globale» a cui sono esortati a partecipare i più importanti dirigenti
del pianeta sotto l’egidia statunitense. Alla già citata riunione
annuale della trilaterale erano presenti Colin Powell (segretario
americano) Donald Rumsfeld (segretario alla difesa) Richard Cheney
(vicepresidente) e Alan Greenspan (presidente della Federal Reserve).
(5)
La
seconda idea fondante, che trae origine dalla prima, è il ruolo
tutelare della triade, in particolare degli Stati uniti, nella riforma
del sistema internazionale. I paesi ricchi sono invitati ad esprimersi
con una sola voce e a unire i propri sforzi in una missione destinata a
promuovere la «stabilità» del pianeta grazie alla diffusione del
modello economico dominante. Le democrazie liberali sono il «centro
vitale» dell’economia, della finanza e della tecnologia. Un centro
che gli altri paesi dovranno integrare accettando l’ordine che esso si
è dato. L’unilateralismo americano sembra tuttavia aver messo a dura
prova la coesione dei paesi della triade, i cui dissidenti si esprimono
nei dibattiti della Commissione. Nel suo discorso del 6 aprile 2002,
durante la già citata riunione, Colin Powell ha quindi difeso la
posizione americana sui principali punti di disaccordo con il resto del
mondo, ovvero rifiuto di firmare gli accordi di Kyoto, opposizione alla
creazione di una Corte penale internazionale, analisi dell’«asse del
male», intervento americano in Iraq, appoggio alla politica israeliana,
e via dicendo.
L’egemonia
delle democrazie liberali rafforza la fede nelle virtù della
globalizzazione e della liberalizzazione delle economie espressa dal
pensiero della trilaterale. La globalizzazione finanziaria e lo sviluppo
degli scambi internazionali sarebbero al servizio del progresso e del
miglioramento delle condizioni di vita di un gran numero di persone. Ma
esse presuppongono la rimessa in causa delle sovranità nazionali e la
soppressione delle misure protezioniste.
Questo
credo neoliberista è dunque spesso centro dei dibattiti.
Durante
l’incontro annuale dell’aprile 2003 a Seul è stata trattata in
particolare la questione dell’integrazione economica dei paesi del
Sud-Est asiatico e della partecipazione della Cina alle dinamiche della
globalizzazione. Le riunioni dei due anni precedenti avevano dato
occasione al direttore generale dell’Organizzazione mondiale per il
commercio (Wto) Mike Moore di professare devotamente le virtù del
libero scambio. Moore, dopo aver ricoperto di improperi il movimento
anti-globalizzazione, aveva dichiarato che era «imperativo tenere a
mente ancora e sempre quelle prove schiaccianti che dimostrano che il
commercio internazionale rafforza la crescita economica». (6)
La
tirata del direttore del Wto contro i gruppi che reclamano una
globalizzazione diversa – chiamati «e-hippies» - sottolinea la terza
caratteristica fondante della trilaterale: l’avversione per i
movimenti popolari, che si era espressa nel celebre rapporto della
Commissione sul governo delle democrazie redatto da Michel Crozier,
Samuel Huntington e Joji Watanuki (7). Questo rapporto, del 1975,
denunciava gli «eccessi della democrazia», espressi secondo gli
autori dalle manifestazioni di contestazione dell’epoca.
Manifestazioni che, un po’ come oggi, mettevano in causa la politica
estera degli Stati uniti (ruolo della Cia nel golpe cileno, guerra del
Vietnam) ed esigevano il riconoscimento di nuovi diritti sociali. Il
rapporto provocò all’epoca molti commenti indignati che si
scatenarono contro l’amministrazione democratica del presidente James
Carter, essendo stato egli stesso un membro della trilaterale (come più
tardi il presidente Clinton). (8)
Dall’inizio
degli anni ’80, l’attenzione della stampa per questo tipo di
istituzioni sembra essersi rivolta più che altro su incontri meno
chiusi e soprattutto più divulgabili tramiti i media, come il Forum di
Davos. L’importanza delle questioni dibattute nell’ambito della
trilaterale e il livello di coloro che in questi ultimi anni hanno
partecipato alle sue riunioni sottolineano però la sua persistente
influenza. (9)
Note:
(1)
Le Monde diplomatique ha dedicato molti articoli
all’argomento nel corso degli anni ’70.
(2)
Il numero dei «distinti cittadini» ammessi alla Commissione è
stato in seguito allargato e oggi comprende più di 300 membri.
(3)
Sulle reti di «coloro che decidono» si legga «Tous pouvoirs
confundus», Epo, 2003
(4)
Gilbert Larochelle, «L’imaginaire technocratique»
Montreal, 1990, p.279
(5)
I discorsi di questi interventi sono accessibili al sito
ufficiale della Commissione: www.trilateral.org
(6)
Mike
Moore, «The Multilateral Trading Regime Is a Force for Good: Defend
It, Improbe It». Riunione della Commissione trilaterale
del’11 marzo 2001
(7)
Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, «The
Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the
Trilateral Commission», New York University Press, 1975
(8)
Zbigniew Brezinski era stato uno dei grandi architetti di questa
organizzazione prima di diventare il principale consigliere del
presidente Carter sulle questioni di sicurezza nazionale
(9)
David Rockefeller, Georges Berthoin e Takeshi Watanabe (1978)
Prefazione a «Task Force Reports»: 9-14, New York University
Press, p IX