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Le
tre spade di Damocle del petrolio
Ovvero: quanto potrà
reggere l’economia mondiale all’aumento del prezzo del petrolio?
Di Carlo
Bertani
Siamo ormai abituati
ad ascoltare il consueto ritornello sull’aumento – ormai costante
dal 2000 – del prezzo del greggio: l’Organetto Nazionale ci mostra
le solite stazioni di rifornimento, lo stesso benzinaio, le consuete
banconote con le quali paghiamo il carburante. Anche il commento è
sempre lo stesso: la benzina aumenterà di tot, il gasolio di…
A poco a poco ci abituiamo alla maledizione degli Dei, allo strapotere
degli emiri in caffettano: «Spendi e spandi, spandi e spendi effendi!»
cantava in anni lontani Rino Gaetano, tutta colpa del Feisal di turno.
Ciò che non
approfondiscono è il nesso fra l’aumento del prezzo dell’energia
(del quale il costo della benzina alla pompa è – tutto sommato – un
aspetto secondario) e la crescita economica o, meglio, lo spazio che ci
separa dallo spettro della profonda recessione economica.
Qualche volta
azzardano fumosi commenti: «
Anzitutto
dobbiamo chiarire che l’attuale prezzo del greggio non è il più alto
che mai sia stato raggiunto: in termini puramente nominali il petrolio
non è mai arrivato a 70$ il barile, ma dobbiamo anche tener conto del
valore della moneta di riferimento, ovvero del dollaro.
La prima crisi
petrolifera avvenne nei “terribili” anni ’70, quando il greggio
passò in sette anni – dal 1973 al 1980 – da 20 ad 80 dollari il
barile (esprimendo il prezzo con l’attuale valore della moneta
americana). Il picco massimo raggiunto, a quel tempo, fu di 35$ il
barile, ma un dollaro del 1980 aveva pressappoco lo stesso valore
(inteso come quantità di beni e servizi acquistabili) di 2,2 dollari
attuali.
La benzina, che nel 1972 costava 163 lire il litro,
passò nel
In pochi anni il tenore dei discorsi cambiò radicalmente, ed il leitmotiv divenne: «Quanto riesci a fare con un litro?» Sic
transit gloria mundi.
Qualora il
prezzo del greggio raggiungesse i fatidici 80 dollari il barile, saremmo
tornati alla situazione del 1980, ma questo varrebbe soltanto per i
prolissi discorsi al bar, perché – nel frattempo – il pianeta ha
mutato pelle. Purtroppo, l’informazione ufficiale non va oltre il
livello dei discorsi “da bar”, e le compagnie petrolifere non
tengono minimamente conto di cosa ci raccontiamo mentre beviamo un caffè.
Anzitutto
dobbiamo comprendere le ragioni che hanno portato – dal 1995 – il
costo del barile di greggio da 11$ a 70$: notiamo che l’aumento è
dello stesso ordine di grandezza di quello degli anni ’70, ovvero
circa il 600%.
Anche correggendo i valori con il deprezzamento del dollaro, che
sull’euro è di circa il 25%, il costo del barile è aumentato
parecchio: praticamente quadruplicato. Le ragioni?
I motivi sono
sostanzialmente tre:
Il progressivo
esaurirsi dei giacimenti. Non siamo ancora all’estinzione, ma ci
stiamo avvicinando. Le previsioni indicano che – con gli attuali
consumi – abbiamo petrolio per circa 40 anni, gas per 60 e carbone per
200[1].
Vogliamo – noi stessi – mettervi in guardia: troverete altre cifre
che si discostano da questa ipotesi, giacché tengono conto delle
riserve degli scisti bituminosi, ovvero di “sabbie” intrise di
petrolio; il problema è che la quantità d’energia necessaria per
l’estrazione del combustibile da queste fonti supera il potere
calorifico del prodotto estratto[2],
una vera e propria assurdità scientifica. Alcuni analisti affermano
che, con il progressivo aumento del prezzo del barile, l’estrazione
diventerà economica, ma per questa ed altre ipotesi (il metano
imprigionato sotto agli alti fondali marini, ad esempio) si tratta quasi
di fantascienza, giacché sull’ipotesi di “ritagliare” nuova
energia da fonti marginali ed incerte pende la spada di Damocle del
punto successivo.
Il consumo di
energia – per aree geografiche – è completamente diverso rispetto
al
Per estrarre e
trasportare petrolio non basta fare un buco nella sabbia: ci vogliono
investimenti di miliardi di dollari, ed esser certi che a nessun
guerrigliero, terrorista o dittatore passi per la testa di gettare il
classico cerino. La vicenda irachena racconta proprio questa difficoltà:
nonostante la “fame” di petrolio, nonostante che l’Iraq sia al
secondo posto nel mondo per riserve accertate (qualcuno sostiene al
primo, ma ha poca importanza, visto che l’altro concorrente è la
confinante – e sempre più instabile – Arabia Saudita), nonostante
centomila soldati americani si “prodighino” per “pacificare” il
paese, nessuno investe se non è certo di rivedere – l’indomani –
l’oleodotto, il gasdotto, il pozzo d’estrazione. E nei paesi dove
non ci sono guerre e tensioni? Le compagnie petrolifere si trovano ad un
bivio: continuare ad investire nel petrolio, oppure compiere il
“salto” e passare al vento, al sole, all’idrogeno? Shell ha
acquistato il settore solare di Siemens, una sorta di
“assicurazione” per il futuro, ma è un futuro nel quale – se non
s’investe – c’è poco da sperare. Investire nel petrolio? Certo,
ma il ritmo d’incremento nella scoperta di nuovi giacimenti è passato
dal 45% del decennio 1981-1991 al 5% del decennio 1991-2001[5].
Attualmente, ogni dieci anni s’incrementano di un misero 5% le riserve
censite, mentre i consumi salgono del 13% circa a decennio[6].
In altre parole, stiamo consumando più petrolio di quanto i geologi
riescano a trovarne nelle profondità della terra ancora inesplorate.
Sulla remunerazione degli investimenti nelle infrastrutture petrolifere
– un settore economico in fase terminale – pende quindi la terza
spada di Damocle, quella dell’esaurimento delle riserve accertate che
abbiamo già esplicitato al primo punto, ed il cerchio si chiude.
Il prezzo del greggio
sale quindi per una semplicissima ragione – che ha tre aspetti – ma
che sostanzialmente significa: l’era dei combustibili fossili sta
finendo.
Vivere in periodi di basso impero non è il non plus ultra dei desideri:
i Romani sopravvissero almeno tre secoli prima del tracollo, gli Arabi
quasi mezzo millennio, ma non fu certo un gran campare. Tuttavia, ci
dobbiamo abituare alla progressiva erosione del “beau vivre” del
‘900, perché ogni rivoluzione, ogni grande mutamento necessita di
tempo per concretizzarsi, ed durante questo “tempo” nascono, vivono
e muoiono miliardi d’esseri umani: noi.
Tutti sanno che
il futuro dell’energia si chiama sole e vento, ma da questo fulgido
futuro siamo ancora distanti; è pur vero che – se ben gestita – la
transizione potrebbe essere meno traumatica, ma voltiamo il capo verso
Oriente ed osserviamo qual è il tema scelto dal più potente paese del
pianeta per “governare” la crisi: la guerra.
Un bel sogno
potrebbe condurci ad immaginare una tranquilla transizione dal mondo dei
fossili alle energie naturali, gestito tramite l’ONU dalle migliori
menti del pianeta: scienziati, sociologi, politici di razza.
Svegliamoci dal
sogno, ed osserviamo chi è l’uomo più potente del pianeta e chi sono
i suoi amici: per risolvere il problema degli incendi nelle foreste
propone di tagliarle, non gliene frega un accidente se l’aumento
dell’effetto serra scatena l’energia devastante delle tempeste
tropicali, per mascherare il tragico fallimento dei soccorsi a New
Orleans chiede più poteri per l’esercito, ancor più stato di
polizia.
I suoi amici si
chiamano Musharraf, che governa con la violenza dei servizi segreti come
Saddam Hussein, un pallido ed insignificante Blair – smunta matrona di
un impero che fu – ed un patetico Berlusconi, che afferma che
l’Italia è ricca perché tutti lavorano in nero ed hanno il
telefonino. Questi sono gli attori della vicenda, coloro che dovrebbero
condurre “con saggezza” la transizione. Sveglia.
In questo coro di violenza e stupidaggini ci sono,
per fortuna, anche delle voci dissonanti: la più importante è senza
dubbio
I risultati sono
rimarchevoli: ad oggi, la potenza installata in Germania sui soli
aerogeneratori è di circa 14.000 MW, pari a sette centrali
termoelettriche come quella di Montalto di Castro.
L’Unione
Europea segue con attenzione lo sviluppo delle energie rinnovabili ed ha
proposto l’obiettivo di raggiungere nel 2010 la produzione con fonti
rinnovabili del 12% dell’energia consumata nell’UE, in particolare
il 22% dell’energia elettrica[7].
L’obiettivo è ambizioso, giacché si partì – negli anni ’90 –
praticamente da zero. Può, l’incremento delle energie rinnovabili,
salvare le economie occidentali?
L’effetto sarà
benefico, ma è inutile illudersi: il 12% nel 2010 significa –
sull’altro piatto della bilancia – l’88% con fonti non
rinnovabili: ricordiamo che anche il nucleare è una fonte non
rinnovabile, e le stime sulla quantità d’Uranio disponibile spaziano
in una “forbice” di 50-100 anni, secondo le fonti.
Esistono molti
studi, di fonte francese, tedesca e statunitense, i quali provano che è
possibile raggiungere la completa autosufficienza energetica con fonti
rinnovabili. Uno di essi[8],
ad esempio, sostiene che
In altre parole,
ogni aumento del petrolio genera contrazione degli investimenti, e fra
gli investimenti ci sono anche quelli destinati alle energie
rinnovabili.
In definitiva, ogni dollaro d’aumento del prezzo del greggio, quanto
PIL erode alle economie occidentali? Ogni dollaro d’aumento del prezzo
del greggio provoca una crescita del mercato mondiale dell’energia di
circa 57 miliardi di dollari, giacché l’aumento del petrolio trascina
inevitabilmente all’insù gli altri prezzi: con modalità e tempi
diversi, ma chiunque vende qualcosa che può essere trasformato in
energia tenderà a vendere appena un poco sotto al prezzo del barile di
petrolio.
Se, con il prezzo del
greggio a 20 dollari il barile, il mercato mondiale dell’energia
ammontava approssimativamente a 1.150 miliardi di dollari, con gli
attuali 70$ supera i 4.000: tre volte il PIL italiano!
Questi dati,
necessari per comprendere almeno l’ordine di grandezza nel quale ci
stiamo muovendo, sono ancora insufficienti per rispondere al quesito:
quanto può reggere l’economia occidentale all’aumento del petrolio?
E’ del tutto evidente che dobbiamo raffinare l’analisi.
Per conoscere il
futuro guarda al passato: è quel che faremo, andando a vedere cosa
prevedevano alcuni accreditati analisti negli anni scorsi e
confrontandolo con la realtà odierna. Inoltre, bisognerà anche
osservare se gli scenari esposti sono coerenti: c’è da divertirsi.
Il
“Corriere della Sera” del 21 agosto 2004 rassicurava: il prezzo del
barile non sarebbe riuscito a rimanere a lungo a 50 dollari…
Gli
economisti: normalità a fine anno
Alcuni economisti, come Ian Stewart di Merrill Lynch,
sostengono che si tratta di allarmi esagerati. «È molto improbabile -
dice - che i prezzi del petrolio persistano a questo livello, credo che
tra sei mesi saranno scesi». Ma altri non concordano.
Stephen
Roach di Morgan Stanley, per esempio, dice che se il barile resta a 50
dollari per parecchi mesi, «finiamo nella situazione di pieno
shock petrolifero già vissuta in passato», qualcosa che porta alla
recessione. Lo stesso segretario al Tesoro americano, John Snow,
sostiene che i prezzi alti «agiscono come una tassa, tolgono denaro
dalle tasche della gente e delle imprese».
“Toppato” in pieno:
probabilmente, alla Merrill Lynch
non hanno meditato approfonditamente le tre spade di Damocle e la loro
interdipendenza.
Il quotidiano
“
E
dunque, scenario numero uno: guerra rapidissima in febbraio, greggio a
50 dollari ma solo per due mesi, 0,1% di crescita in meno, massimo 0,2%
in più d'inflazione. Da metterci la firma. Scenario numero due: guerra
breve, il prezzo del barile vola fino a 70 dollari, (39 la media annua),
meno 0,4% di pil, più 0,5 d'inflazione. Già va meno bene. Scenario
numero tre: guerra difficile, il greggio si mantiene intorno a quota
35-40 dollari, l'impatto sulla crescita è di 0,7 punti, quello sui
prezzi dello 0,4. Non c'è da stare allegri.
Ma
nello scenario numero quattro, con una guerra evidentemente sfiancante,
duratura, che magari va pure oltre i confini dell'Iraq, c'è da aver
paura: shock petrolifero inevitabile, ma anche caduta della fiducia,
collasso delle Borse, fragilità delle imprese, squilibri nei conti Usa,
volatilità del cambio, tensioni politiche. Significa stagnazione o
recessione, vuole dire che il Pil di Eurolandia può ridursi anche
dell'1,4%. Per intendersi, quest'anno è prevista una crescita
dell'1,8%: non resterebbe quasi nulla. Cosa fare, allora? Per ridurre i
tassi, non c'è tanto spazio. Meglio azioni coordinate tra le autorità
monetarie, come avvenne l'11 settembre. Di sicuro, vanno salvaguardati
gli accordi commerciali. Quanto ai bilanci pubblici, la commissione
ricorda che in caso di pesante contrazione dell'economia il deficit-pil
può anche salire oltre il 3%.
Praticamente
perfetto. Lo scenario numero quattro, ovvero alta instabilità
nell’area, prevedeva che il PIL di Eurolandia si riducesse
dell’1,4%: risultato raggiunto! L’Italia crescerà nel 2005 di pochi
decimi, l’Olanda dello 0,4, Francia e Germania intorno all’1%.
Quest’anno, il rapporto deficit/PIL italiano supererà la soglia del
3%: previsione rispettata.
Con il prezzo medio del greggio a 39 dollari si prevedeva un calo dello
0,4% ed uno 0,5% in più d’inflazione: oggi il costo del barile è
mantenuto sotto i 70$ artificiosamente, grazie all’utilizzo delle
riserve strategiche, giacché il “buco” nei rifornimenti e nella
raffinazione creato dall’uragano Katrina
in Louisiana lo avrebbe fatto schizzare a chissà quanto.
Le
riserve strategiche, però, andranno ricostituite e, siccome
l’estrazione è ai massimi storici – e richiederebbe copiosi
investimenti e parecchio tempo per essere ancora aumentata (vedi terza
spada di Damocle) – va da sé che possiamo ragionevolmente attenderci
altri aumenti.
Sull’aumento dell’inflazione generato dal petrolio, bisogna
precisare che è possibile sommare il dato al decremento del PIL –
giacché le Banche Centrali possono sempre stampare carta moneta per
frenarne la caduta – ma il risultato non cambia: in termini di
ricchezza effettivamente fruibile (e non di aleatori valori monetari) è
esattamente la stessa cosa. Chi vorrà approfondire il tema potrà
leggere gli ottimi articoli pubblicati da disinformazione.it sulle monete e sul signoraggio.
Se
con un prezzo medio di 39$ il barile ci si attendeva un calo dello 0,9%
(0,4 PIL + 0,5 inflazione) con il greggio ad 80$ saremmo ad un – 1,8%.
Da alcuni anni, le crescite economiche stimate per Eurolandia viaggiano
fra l’1% ed il 2%; con il greggio ad 80$ saremmo alla crescita zero e,
per le economie più deboli, alla recessione: la previsione è coerente
con gli sviluppi. Sulla crescita USA, stimata più alta, non possiamo
dimenticare che avviene grazie all’aumento costante del debito
interno, estero e delle famiglie: con progressioni annuali del 5% del
debito interno non si sa proprio quanto potrà ancora correre la ex
“locomotiva USA”.
Meno
toccate saranno le economie emergenti, Cina ed India, e
Chi
produce beni strumentali sarà forse leggermente più svantaggiato
(richiede più energia costruire un computer che un programma per
computer), ma anche raddoppiando il decremento del PIL causato dal
petrolio
E se il prezzo superasse gli 80$?
Qualcuno lo ipotizza, e sostiene che fino a 105$ il barile le economie
occidentali potranno reggere[9].
Se abbiamo stimato il massimo picco raggiunto dal petrolio in 80$ il
barile – raggiunto con i 35 dollari del 1980 – non possiamo
dimenticare che in 25 anni il PIL dell’Occidente è cresciuto, e
parecchio.
Chi sostiene questa tesi fa un semplice ragionamento: stabiliamo di
spendere per l’energia la stessa quota del PIL che si spendeva nel
1980: quel limite è rappresentato proprio dai 105$ il barile.
Questo
tipo d’ipotesi rischia di non meditare sufficientemente le tre spade
di Damocle, e di fare la fine di quello dei 50$ il barile di Merrill
Lynch: non si possono fare previsioni così complesse con la teoria
statistica del “mezzo pollo”, perché non funzionano.
Il ragionamento è inoltre molto rozzo: nel 2005 abbiamo consumi
(comunicazione, informatica, ecc) che nel 1980 non pesavano sui bilanci
perché non esistevano, ed anche la tassazione era – complessivamente
– più bassa. Quali consumi dovremmo comprimere per pagare la bolletta
energetica? Non usare il telefonino e non collegarci più ad Internet?
Non acquistare più un computer? Non pagare più le esorbitanti tasse
sulla spazzatura?
Inoltre, la distribuzione della ricchezza per classi sociali è la
stessa del 1980? Il potere d’acquisto della classe media americana non
è cambiato? La crescita quantitativa delle nuove classi medie in Cina
ed India come modifica il quadro? In Occidente, l’aumento del costo
energetico sarà avvertito in egual modo dalle famiglie che hanno
redditi intorno ai 1.500 euro rispetto a quelle che guadagnano il
doppio? Lo scontro fra gli oligarchi e Putin – che vorrebbe
“spalmare” i redditi su una più vasta classe media – genererà
una Russia uguale all’URSS del 1980? E’ del tutto evidente che è
inutile lanciarsi in previsioni cercando di prevedere con precisione
ogni singolo aspetto del quadro, giacché l’interdipendenza intrinseca
dei fenomeni rende inutile lo sforzo: un solo aspetto che si modifichi
sostanzialmente muta completamente lo scenario.
Panta
rei, tutto muta continuamente, inesorabilmente, costantemente e chi
tenta di prevedere il futuro senza considerare il dinamismo intrinseco
nel mutamento stesso finisce per fare la fine dei Soloni di Merrill
Lynch.
Possiamo però affermare con certezza che, in Italia, già i 70$ il
barile sono avvertiti dalla popolazione, e che l’aumento del prezzo
dei carburanti, dell’energia elettrica e del metano condurrà ad una
contrazione dei consumi per almeno la metà della popolazione: famiglie
monoreddito, pensionati, salariati di fascia bassa, soprattutto nel Sud.
Un eventuale “salto” agli 80$ il barile inizierebbe a toccare anche
quei paesi – Francia e Germania, ad esempio – che hanno popolazioni
con un potere d’acquisto superiore all’Italia di circa il 15%.
Oltre gli 80 dollari il barile inizia veramente la “terra di
nessuno” – dove non si possono fare previsioni accurate –
ma soltanto indicare delle tendenze, ovvero la costante “erosione”
di redditi ed investimenti, il graduale impoverimento dell’Occidente,
partendo dai bassi redditi verso quelli più alti: insomma, decadenza.
Oltre i 105 dollari il barile inizia probabilmente una difficile china,
forse un baratro, perché le energie rinnovabili non sono ancora in
grado di supplire concretamente, oggi, ai combustibili fossili.
Che fare? Si chiedeva
Lenin, in anni lontani ed in ben altre situazioni.
Se vogliamo osservare la situazione armati di pragmatismo, la risposta
è una sola: investire, studiare, programmare, incentivare al massimo lo
sviluppo delle energie rinnovabili. Risistemare i bacini fluviali per
aumentare la quota di trasporto sull’acqua (parco nei consumi): i
tedeschi trasportano sull’acqua un terzo delle merci, l’Italia lo
0,1%, la marina mercantile svizzera (sic!) lo 0,4%. I russi
gestiscono una rete fluviale di ben
Smettiamola di voler volare “alti” nel pronosticare il futuro per
non saper gestire quello che, in “basso”, dovremmo fare: spendiamoci
un po’ di più nell’installare aerogeneratori, pannelli solari,
turbine fluviali, impianti geotermici, sperimentiamo la possibilità di
ricavare energia dalle correnti sottomarine, mettiamo ordine nel caos
dei trasporti.
Ricavare oggi un Kilowatt in più di ieri con fonti rinnovabili (o
risparmiarlo) significa allontanare – anche di poco, ma realmente
– il baratro ipotizzato dopo i 105$ il barile, mentre nessuna
previsione, statistica e strana elucubrazione potrà spostarlo di un
secondo: è giunto il momento di fare,
non di parlare.
Le possibilità sono concrete: esistono leggi nazionali e documenti
europei che forniscono procedure, amministrative e giuridiche;
addirittura l’UE è disposta a finanziare in parte i progetti, come
quello per l’incremento della navigazione fluviale.
Se non sapremo
cogliere l’attimo, l’alternativa sarà quella d’ascoltare sempre
nuove previsioni dalle grandi banche d’affari, dal Fondo Monetario,
dalla Banca Mondiale, dai molti istituti deputati allo studio dei
problemi energetici (molto spesso finanziati con fondi di provenienza
petrolifera!) e non fare nulla.
Potremmo così finire – in poltrona, con il telecomando in mano –
nell’attesa di conoscere l’ennesima previsione energetica di fronte
al televisore. Spento, perché non avremo più i soldi per pagare la
bolletta.
Carlo Bertani
bertani137@libero.it
www.carlobertani.it
[1]
Fonte: British Petroleum
Statistical Review 2003.
[2]
Fonte: Le
grandi crisi ambientali globali: un sistema in agonia, il
rischio di guerra
– Alberto Di Fazio – Osservatorio Astronomico di Roma e Global
Dynamics Institute.
[3]
Fonte:
Eni World Oil & Gas Review 2003.
[4]
Per comprendere le difficoltà (tecnologiche e geopolitiche) che
riguardano l’utilizzo del carbone come fonte primaria d’energia
(Protocollo di Kyoto, monopolio russo dei giacimenti, difficoltà
tecnologiche, ecc.) rimando al testo specifico che ho pubblicato
sulle energie. C. Bertani – Energia,
natura e civiltà: un futuro possibile? – Gruppo Editoriale
Giunti – Firenze – 2003.
[5]
Fonte: British Petroleum
Statistical Review 2003.
[6]
Fonte: Eni World Oil & Gas Review 2003.
[7]
Fonte: Direttiva 2001/77/CE
[8]
Fonte: Forschungsstelle für
Energiewirtschaft, München – riportato da Christopher Huss al
Convegno sulla mobilità sostenibile di Milano – Politecnico di
Milano – 23 settembre 2003.
[9]
Fonte: La banca d’affari Goldman
Sachs