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La stirpe dei Draghi
di Andrea Cinquegrani – gennaio 2006
Tratto da www.lavocedellacampania.it
Febbraio 1992, dicembre 2005. Dalla prima alla seconda
Tangentopoli, dall’arresto di Mario Chiesa per le mazzette del pio
albergo Trivulzio al crollo di un intero pezzo del sistema economico e
finanziario culminato con le dimissioni di Antonio Fazio. In mezzo
tredici anni durante i quali la corruzione non è mai morta, anzi, ha
intrapreso nuovi e più innovativi percorsi, le mafie hanno decuplicato
i loro già pingui fatturati, lo Stato sociale è stato smantellato,
l’economia massacrata a colpi di privatizzazioni selvagge e a prezzi
di supersaldi. E tra pochi mesi si va al voto, con un Prodi quasi certo
vincitore e un Giuliano Amato che si prepara per il gran volo verso il
Colle più alto di Roma. Quel dottor Sottile che, nel drammatico 1992,
fu chiamato a reggere il timone del Governo, dopo il siluramento di
Craxi. Ed al ministero del Tesoro regnava il Verbo del direttore
generale, Mario Draghi, al quale - scriveva a inizio 2000 nel Gioco
dell’Opa il giornalista economico Enrico Cisnetto - «molti imputano
di essere persino più potente di Ciampi, cioè un super ministro che
non ha mai ricevuto alcuna investitura popolare», addirittura «l’uomo
più potente d’Italia», secondo un Business Week di fine anni ’90,
che lo ha anche visto all’opera tra i vertici della Banca Mondiale.
Saprà ora Draghi traghettare la nostra superbucata nave fuori dalla
tempesta ed evitarci il naufragio? Cerchiamo di capirlo, passando in
rassegna la carriera del nuovo nocchiero di via Nazionale.
TUTTI A BORDO
Partiamo proprio dal mare. Eccoci a bordo del Britannia, il panfilo
della regina Elisabetta in rotta lungo le coste tirreniche, dalle acque
di Civitavecchia e quelle dell’Argentario. E’ il 2 giugno, festa
della Repubblica, sono trascorsi esattamente cento giorni dall’arresto
di Chiesa. Ma i potenti, si sa, hanno le antenne ben tese e si
organizzano in un baleno. Negli splendidi saloni del panfilo si son dati
appuntamento oltre centro tra banchieri, uomini d’affari, pezzi da
novanta della finanza internazionale, soprattutto di marca statunitense
e anglo-olandese. A guidare la nostra delegazione - raccontano in modo
scarno le cronache dell’epoca - proprio lui, Draghi, che ai «signori
della City» illustra per filo e per segno il maxi programma di
dismissioni da parte dello Stato e di privatizzazioni. Un vero e proprio
smantellamento dello Stato imprenditore.
A quel summit, secondo i bene informati, avrebbe
partecipato anche l’attuale ministro dell’Economia Giulio Tremonti,
che sul programma Draghi cercò di far da pompiere: «non venne
programmata alcuna svendita - osservò - fu solo il prezzo da pagare per
entrare tra i primi nel club dell’euro». Più chiari di così…. In
perfetta sintonia con l’attuale “avversario” (del Polo) l’allora
presidente Iri, Romano Prodi e quello dell’Eni, Franco Barnabè.
Pochissime le voci di dissenso. Il napoletano Antonio Parlato,
all’epoca sottosegretario al Bilancio, di An, sostenne che Draghi
aveva intenzione di portare avanti un progetto di privatizzazioni
selvagge. E aggiunse che proprio sul Britannia si sarebbero raggiunti
gli accordi per una supersvalutazione della lira. Guarda caso, tra gli
invitati “eccellenti” del Britannia fa capolino George Soros, super
finanziere d’assalto di origini ungheresi ma yankee d’adozione, a
capo del Quantum Fund e protagonista di una incredibile serie di crac
provocati in svariate nazioni nel mirino degli Usa, potendo contare su
smisurate liquidità, secondo alcune fonti di origine anche colombiana.
E guarda caso, per l’Italia sarà settembre nero, anzi nerissimo, con
una svalutazione del 30 per cento che costringerà l’allora
governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi (direttore generale
Lamberto Dini) a prosciugare le risorse della banca centrale (quasi 50
miliardi di dollari) per fronteggiare il maxi attacco speculativo nei
confronti della lira.
A infilarci pesantemente uno zampino anche Moody’s, l’agenzia di
rating che declassò i nostri Bot. Le inchieste per super-aggiotaggio
avviate in diverse procure italiane (fra cui Napoli e Roma) sono finite
nella classica bolla di sapone. Eppure, anche allora, e come al solito,
a rimetterci l’osso del collo sono stati i cittadini-risparmiatori.
Craxi puntò l’indice contro «una quantità di capitali speculativi
provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici»,
parlando di «potenti interessi che pare si siano mossi allo scopo di
spezzare le maglie dello Sme», e di un «intreccio di forze e
circostanze diverse».
IL SALVATOR SOTTILE
Ad arginare la tempesta arriverà il governo di salute pubblica
guidato da Giuliano Amato, il dottor Sottile passato dalla fedeltà
craxiana a quella dalemiana. E per guidare il tanto sospirato piano di
Privatizzazioni - il solo che potrà salvare la nave Italia dalle
tempeste finanziarie - chi potrà esserci mai? Of course, Super Mario
Draghi, che in otto anni porterà a casa un bottino da quasi 200 mila
miliardi di vecchie lire, vendendo a destra e a manca gli ex gioielli di
casa, anzi dello Stato. Una mission messa a segno con grande
determinazione, portandoci in testa alla hit internazionale dei
‘privatizzatori’ (secondi solo alla Gran Bretagna dell’amico Tony
Blair). Ma, secondo altri “tecnici”, con una politica di scientifica
vendita a prezzi stracciati. Super Mario - appena sceso dal Britannia -
dà inizio alla sua guerra. Siamo a metà luglio 1992 quando l’appena
battezzato governo Amato dà il via libera alla liquidazione dell’Efim,
azienda storica del parastato, gestito coi piedi dai boiardi di Stato ma
ancora in grado di esprimere qualcosa. «Draghi fa una piccola finta
iniziale - descrive chi lo conosce bene - per congelare i debiti con le
banche, anche estere. Ma poi tutto si accomoda, già a fine agosto gli
istituti di credito internazionali sono contenti di come procedono le
cose e poi verranno soddisfatti man mano».
Peccato che vada disintegrato un patrimonio non da poco,
composto da un centinaio di società del gruppo e da migliaia e migliaia
di posti di lavoro. Ma si sa, la finanza, soprattutto quella “globalizzata”,
non può andar tanto per il… Sottile. Da allora in poi sarà un valzer
di dismissioni. E di grandi manovre. Proprio alla fine di quella
bollente estate 1992, il governo Amato apre le danze, con la
trasformazione in società per azioni dei grandi enti pubblici, Enel,
Eni, Ina ed Iri in pole position. La prima maxi operazione è di un anno
dopo, quando il Credito Italiano va all’asta, per la gioia di
imprenditori della vecchia e nuova finanza, d’assalto e non. La
finanza anglo-americana, quella a bordo del Britannia, gongola, ed un
segnale più che significativo arriva con lo sbarco del neo ambasciatore
Reginald Bartholomew, che dopo qualche mese di acclimatamento tra i
salotti romani dichiara: «continueremo a sottolineare ai nostri
interlocutori italiani la necessità di essere trasparenti nelle
privatizzazioni, di proseguire in modo spedito e di rimuovere qualsiasi
barriera agli investimenti esteri».
Dopo cinque anni - dimessi i panni dell’ambasciatore - Bartholomew
viene nominato presidente della Merryl Linch Italia, uno dei colossi
finanziari made in Usa. Quando la politica & la finanza vanno a
braccetto. Detto, fatto, comunque. Le direttive di mr. Reginald sono
state seguite a puntino nel corso degli anni ’90. Dalle maxi
privatizzazioni targate Telecom (23 mila miliardi) ed Enel (32 mila),
passando attraverso un mare di aziende sparse un po’ in tutti i
settori, a cominciare dall’agroalimentare che viene letteralmente dato
in pasto, è il caso di dirlo, ai big olandesi, inglesi o a stelle e
strisce. Arriviamo nel 2000. L’altro colosso di Stato, l’Eni, è già
in avanzata fase di privatizzazione. Manca solo il ramo “immobili”,
la ciliegina finale. Ad acquisirne la fetta più grossa, per circa 3000
miliardi delle vecchie lire, è un altro colosso dell’intermediazione
finanziaria Usa, Goldman Sachs, tramite il suo dinamicissimo fondo
Whitehall, che così entra in possesso - per fare un solo esempio -
dell’ex area Eni di San Donato Milanese, 300 mila metri quadrati
superappetibili, dove potrebbero essere trasferiti gli storici locali
Rai di corso Sempione. Goldman Sachs, comunque, non si ferma qui, e fa
incetta di altri immobili, come quelli della Fondazione Cariplo (e poi,
con un altro big Usa, Morgan Stanely, sui patrimoni mattonari di Unim,
Ras e Toro).
Altro acchiappatutto, il gruppo Carlyle, che ha fatto
incetta di immobili anche a Napoli (tra gli azionisti principali, le
famiglie Bush e Bin Laden). Secondo le ultime statistiche di fonte Sole
24 Ore (“Scenari Immobiliari”) i gruppi esteri ormai sopravanzano
quelli nostrani, 11 mila contro 15 mila miliardi di vecchie lire di
patrimonio ex-pubblico: tra i privati nazionali spiccano Ipi (Danilo
Coppola), Pirelli Real Estate (Tronchetti Provera), Risanamento (Zunino),
Statuto, Ligresti, ovvero la crema mattonara di casa nostra.
THANK YOU, GOLDMAN
Nel 2001 Mario Draghi, compiuta la sua mission come direttore
generale del Tesoro e soprattutto responsabile delle privatizzazioni,
passa al altro incarico. Non più pubblico, questa volta, ma privato.
Non più in Italia ma all’estero. Ad arruolarlo è proprio il colosso
a stelle e strisce: a gennaio, infatti, assume la carica di vice
presidente della Goldman Sachs International. Anni pieni di successi,
tanto che a fine 2004 viene nominato al vertice del “management
committee”, l’organismo che pianifica tutte le decisioni del gruppo
a livello internazionale, il primo “non statunitense” a tagliare
questo traguardo nella storia di Goldman. Il pedigree della super-banca
d’affari a stelle e strisce, comunque, può vantare una sfilza di nomi
illustri. E torniamo a quel fatidico 1992. Il presidente della Federal
Riserve Bank di New York (che fa capo alla Banca centrale americana),
Gerald Carrigan, legato a filo doppio con George Soros, si dimette e
passa tra le fila della Goldman Sachs, in qualità di presidente dei
consiglieri internazionali del gruppo.
Tra i consiglieri della stessa banca ha figurato Romano
Prodi. Oggi, al posto di Draghi, siede l’ex commissario Ue Mario
Monti. E’ entrato nel gruppo a fine novembre: forse proprio per questo
- quando è rimbalzato il suo nome per il vertice Bankitalia - ha fatto
un passo indietro. Per un evidente conflitto d’interesse. Da un
conflitto all’altro, eccoci sempre all’estero, con le possibili
acquisizioni delle nostrane Bnl e Antonveneta da parte del Banco di
Bilbao e dell’olandese Abn Ambro, in contrapposizione alle nostrane
Unipol (vedi alla voce Consorte) e BPI (vedi alla voce Popolare di Lodi
di Giampiero Fiorani). Ebbene, in entrambi i casi, Goldman Sachs ha
svolto il ruolo di “advisor”, valutando positivamente le due offerte
straniere. E oggi Fazio osserva: «ho cercato di evitare a tutti i costi
la colonizzazione del nostro sistema bancario. Vedrete quel che succederà
dopo di me». Val la pena di stare a vedere e, se possibile, di
accendere i riflettori.
I GRAN REGISTI DI MANI PULITE
Cè una strategia ad orologeria in Mani pulite? Come mai il
bubbone è scoppiato in quel ’92, quando la corruzione ormai dilagava
da anni ? Possibile che tutto sia uscito dai porti delle nebbie in un
sol botto? Come mai i pm prima non sentivano e non vedevano, oppure
venivano zittiti dai loro capi? Interrogativi ai quali non è stata
fornita alcuna risposta. E lo stesso clamoroso abbandono della toga da
parte dell’uomo simbolo di quella stagione, Antonio Di Pietro, sta a
dimostrarlo. Un episodio fino ad oggi mai chiarito. Come non è chiara
la genesi di una fantomatica “Mani Pulite International”, ovvero
“Transparency International”, che nata dopo il crollo del muro di
Berlino nel 1989 per iniziativa del principe Filippo di Edimburgo
avrebbe trovato adepti in mezza Europa. Dalla Banca Mondiale – sua
principale ispiratrice – fino ai leghisti della Padania. Stando ad
alcune ricostruzioni, infatti, Mani Pulite International avrebbe subito
trovato impulso tramite il responsabile della Banca Mondiale per il
Kenya, Peter Eigen, promotore di una linea anti-corruzione a tutto
campo, anche a costo di sterminare diritti, annientare fondi per i paesi
in via di sviluppo e via cantando.
«Alla fine della guerra fredda – dichiarò Eigen – i
tempi erano maturi e assieme ad alcuni colleghi decisi di procedere
indipendentemente con l’iniziativa». Venne stilato una sorta di
decalogo, in base al quale era possibile, anzi lecito e quasi dovuto
intervenire nelle nazioni a rischio-corruzione, nei loro affari interni.
Non pochi storici ricordano il caso del presidente di Deutsche Bank,
Alfred Herrhausen, che osò sfidare la politica a tutto campo della
Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale: il 30 novembre 1989
verrà trovato ucciso. Tra gli ideologi di Transparency International
Hans Helmut Hoeppe, docente all’università del Nevada, il quale non
esclude la necessità ultima dell’autoritarismo come unico mezzo per
porre fine allo stato sociale ma propone un’alternativa: una radicale
politica di “decentralizzazione” e “privatizzazione” di quasi
tutte le istituzioni, compresa polizia, magistratura e forze armate. E
tra gli sponsor in prima linea, of course, le fondazioni legate alla
regina Elisabetta (Corwn Agents, British Overseas Development
Administration, Bhp Minerals of Australia, Rio Tinto, Tate & Lile,
Nuffield Fountation, Rownee Trust). Poi la misteriosa società Mont
Pelerin, fondata nel 1947 da Friedrich von Hayek e che tra i suoi
aficionados italiani conterebbe sulle presenze dell’ex ministro alla
difesa Antonio Martino e dell’economista Sergio Ricossa. Ai vertici
della sua piramide, tra gli altri, Peter Berry, direttore della Crown
Agency britannica, e il ministro colombiano della giustizia Nestor Neira.
Ma a quanto pare è proprio George Soros il grande
burattinaio dell’organizzazione, che – guarda caso – attraverso
suoi fedelissimi, avrebbe provocato maxi crac nelle economie di mezzo
mondo. Del resto, il suo Quantum Fund è una diretta emanazione del
gruppo Rothschild. Un solo esempio? Richard Katz, ex direttore della
Rotschild Italia e allo stesso tempo membro del comitato esecutivo del
Quantum Fund di Soros. Registrato nel paradiso fiscale delle Antille
olandesi, nel suo consiglio d’amministrazione fanno capolino alcuni
nomi di un certo peso: come quello di Isidoro Alberini, storico agente
di cambio alla Borsa di Milano, Nils Taube (socio dei Rotschild nella
finanziaria St.James Place Capital), Amebee de Moustier (della Ifa
Banque di Parigi), Edgar de Picciotto. Quest’ultimo è al vertice
della UBP (Union Bancarie Privée) di Ginevra, terza banca svizzera, uno
dei cui soci, Edmund Safra, è stato coinvolto in un’inchiesta della
Dea americana per riciclaggio dei narcodollari colombiani. Tra i più
accaniti fan di Mani Pulite International, alcuni padani doc.
A presiedere il movimento TI in Italia figura, infatti, Maria Teresa
Brassiolo, consigliere della lega Nord al comune di Milano, mentre ai
vertici organizzativi figura un altro esponente del Carroccio a Saronno,
Edoardo Panizza. Una in perfetto stile Calderoli,
LE MAFIO-MASSONERIE DI BILDERBERG E TRILATERAL
I signori della finanza, evidentemente, amano le acque.
Vuoi quelle marine, come nel caso della crociera d’affari sul
Britannia di Sua Maestà, vuoi quelle, più tranquille, di un bel lago.
Come è successo, ad esempio, sulle rive del Maggiore, in quel di Stresa,
dove a giugno 2003 il Gruppo Bilderberg a festeggiato i suoi primi 50
anni. Li ritroviamo lì, in un abbraccio appassionato, i potenti della
terra, dall’immancabile Henry Kissinger a David Rockfeller fino a
Melinda Gates. E la nostra truppa? Mista al punto giusto, trasversale
che più non si potrebbe. Il meeting del cinquantennio ha visto la
partecipazione, sul versante finanziario, di Franco Bernabè, Rodolfo De
Benedetti, Mario Draghi, Mario Monti, Tommaso Padoa Schioppa, Riccardo
Passera, Paolo Scaroni, Marco Tronchetti Provera. Per la serie: tutti i
candidati possibili alla successione di Fazio al vertice di Bankitalia!
Tra gli economisti-politici, i due ultimi ministri dell’Economia nel
governo Berlusconi, Domenico Siniscalco e Giulio Tremonti.
Ma nel corso degli anni le presenze agli annuali meeting - a partire dal
1982 ad oggi - sono state numerose e di grande prestigio: non ha fatto
mancare la sua presenza il gruppo Fiat, con i fratelli Gianni e Umberto
Agnelli, Paolo Fresco e l’amico Renato Ruggiero (per pochi mesi al
timone del ministero degli Esteri); e poi i banchieri Rainer Masera, al
vertice del gruppo Imi San Paolo, e Alessandro Profumo, Confindustria
con Innocenzo Cipolletta; e un folto drappello di politici, dai polisti
Giorgio
Ecco cosa ne pensa di queste combriccole un giornalista di
razza come Fulvio Grimaldi (lo ricordate, col suo inseparabile bassotto
a denunciare senza peli sulla lingua gli imbrogli a 360 gradi e per
questo prudentemente fatto fuori dalla Rai?), in un lungo reportage
consultabile solo via internet, sul sito contro “Come don Chisciotte”:
«31 dicembre: nel plauso a denti stretti della destra e più convinto
della “sinistra” a Mario Draghi governatore della Banca d’Italia,
si chiude l’annus horribilis berlusconian-dalemiano-bertinottiano
2005. Vince la finanza anglo israeliana, massonica e laica (si fa per
dire), perde la finanza cattolica e in specie la massoneria Opus Dei.
Vincono anche coloro che 13 anni prima hanno avviato la bancarotta
italiana, assassinato la politica e fatto trionfare un’economia in
gran parte straniera di rapina e per il resto quella che impesta
l’aria di questi tempi. La posta in gioco? Tra le altre il famigerato
Partito Democratico filoclintoniano, filoisraeliano, filobilderberghiano,
massonico, di Rutelli, Veltroni e aggregati vari».
Grimaldi definisce Bilderberg e Trilateral come «organizzazioni
mafioso-massoniche». Sta di fatto che sugli incontri targati Bilberberg
- nel corso dei quali si discute dei destini e degli assetti mondiali -
vige il più assoluto riserbo. Sulla stampa ufficiale, nessuna riga.
Forse perché, tra gli invitati di lusso, figurano anche alcuni grossi
calibri della stampa nazionale, da Ferruccio De Bortoli a Gianni Riotta,
fino a Lucio Caracciolo. Manca solo Magdi Allam: sarà per la prossima
volta.