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Ali
Babà e i Quaranta Ladroni
Ovvero:
come ti trasformo i soldi in informazione e faccio in modo che
l’informazione serva solo a far soldi.
Rocco Chinnici, giudice ucciso dalla Mafia a Palermo il 29 luglio
del 1983
Da pochi anni stiamo assistendo al “boom” della
“disinformazione”, soprattutto sul Web; qualche decennio or sono si
chiamava ”controinformazione”, ma trent’anni fa non c’era il
Web: non per questo non si cercava di contrastare le “sirene” di
regime, anzi.
Uno dei più clamorosi eventi di controinformazione
fu senz’altro la pubblicazione de “La strage di Stato”, apparso in
libreria pochissimi mesi dopo la strage di Piazza Fontana. Grazie a quel
libro, fu possibile inquadrare dal primo atto lo svolgersi della
strategia d’attacco che il capitalismo internazionale stava mettendo
in atto per proteggere le grandi ristrutturazioni dell’industria.
Bisognava colpire su due fronti: da un lato l’enorme incremento di
produttività che il superamento del fordismo generava non doveva essere
ridistribuito, dall’altro le istanze di rinnovamento sociale portate
avanti dai tanti movimenti dovevano apparire come sogni di mezza estate,
utopie, pericolosi salti nel buio.
In quegli anni la tecnologia stava compiendo balzi da gigante e la
rivoluzione dei chip informatici automatizzava i processi industriali,
sostituendo intere catene di montaggio gestite dagli operai con robot e
sistemi automatizzati. Pochissimi anni dopo sarebbe iniziata la
rivoluzione informatica dell’amministrazione, non più gestita con
archivi cartacei e registri ma con l’elettronica: entrambi i processi
sono tuttora in corso.
Gli enormi incrementi di produttività che
l’automazione industriale generò furono trasformati in capitali, non
in beni destinati a chi li aveva prodotti: ciò condusse da un lato
all’affermazione della finanza sul lavoro, dall’altro
all’arricchimento dei finanzieri ed all’impoverimento dei
lavoratori.
Negli stessi anni la società italiana – sotto la spinta del ’68 –
iniziava a lasciarsi alle spalle i valori più tradizionali per
attingere a nuove fonti – Europa e Stati Uniti – soprattutto per
quei valori liberali che le società del Cristianesimo Riformato
contenevano oramai da secoli nel loro DNA. Nel 1974 fu vinto il
referendum sul divorzio e tutta una serie d’esperimenti sociali ebbero
inizio negli stessi anni: dalle cosiddette “comuni” partiva il
messaggio di un superamento dei valori della famiglia tradizionale,
anche se quegli esperimenti non furono certo esperienze di massa.
Analizzare nel dettaglio i rapporti fra il mondo del
lavoro e la struttura sociale richiederebbe ben altro spazio: ciò che
fu chiaro sin dall’inizio ai governanti dell’epoca fu che quel
rinnovamento – se non contrastato – avrebbe spazzato via un’intera
classe politica. Le contromosse ci furono, e furono pesanti.
Con la marcia dei 40.000 “quadri” del 1980
La profonda elaborazione teorica – ma anche pratica – degli anni
’70 in campo sociale fu così affogata nel sangue delle Brigate Rosse.
Ciò nonostante, pochi libri ben scritti e qualche casa editrice che
operava ancora come tale – ossia come referente di un’area culturale
– consentirono agli allora ventenni d’avere gli strumenti per
elaborare la complessa realtà degli anni che seguirono.
Ciò che seguì confermò in pieno quello che a prima
vista poteva apparire come una arrogante elaborazione della realtà,
basata solo su di un presuntuoso cui
prodest.
Dopo Piazza Fontana vennero l’Italicus, Brescia,
Ustica,
In quegli anni nacquero dei fogli come “Il Male”, che cercavano
nella satira la risposta all’arroganza sempre più spietata del
potere: lo slogan era «Una risata vi sconfiggerà». Sono ancora là
che ridono, di noi.
Per attuare una strategia d’assoluto controllo
dell’informazione era necessario operare con sapienza e con mezzi
discreti: qualsiasi atto d’imperio sarebbe stato salutato come un
attentato alla libertà d’informazione, ed il piano elaborato dalla P2
in quegli anni (realizzato in parte da Berlusconi[2])
era il vademecum del perfetto “golpista” dell’informazione.
A metà degli anni ’70 ci fu il primo esperimento
di televisione privata via cavo, Telebiella, che fu presto chiusa con un
atto d’imperio. Mentre l’emittente biellese era soltanto
sperimentale, in pochi anni nacquero molte televisioni locali le quali
– opponendo spesso complesse battaglie giuridiche – riuscirono a
sopravvivere. Per continuare a controllare l’informazione era
necessario cambiare metodo.
In quel panorama di rinnovamento liberale dell’informazione nacque –
è proprio il caso di dire “dal nulla” – la figura di Silvio
Berlusconi. Figlio di un bancario, non apparteneva al “Gotha” della
finanza italiana né pareva avere le necessarie amicizie per diventarlo:
aveva però in tasca una tessera della P2 – n. 1816, codice E.19.78,
gruppo 17, fascicolo 0625, 26 Gennaio 1978 – e quella tessera sarà
importante, cambierà la storia italiana.
Anche la data è importante: nel 1978 – mentre
Se l’etere gli venne cortesemente regalato da Craxi,
per creare Canale 5 ed acquistare Italia 1 (dall’editore Rusconi) e
Retequattro (da Mondatori) servivano un mare di quattrini, e i quattrini
arrivarono, ma nessuno sa ancora oggi da dove provennero. Si trattava di
173 miliardi di lire dell’epoca (pari a circa 250 milioni di euro
attuali) che Berlusconi ricevette non si sa da chi e che finirono nelle
casse di finanziarie di comodo controllate dal Cavaliere: si noti che
– in tutti i processi nei quali è stato coinvolto – Silvio
Berlusconi si è sempre rifiutato di rispondere della provenienza di
quel mare di soldi[4].
Nel volgere di pochissimi anni le centinaia di sigle dell’emittenza
locale scomparvero e nacquero i tre colossi: Canale 5, Italia 1 e
Retequattro. Unificate successivamente nel gruppo Mediaset, gli italiani
si ritrovarono in pochi anni a scegliere solo fra l’azienda di Stato e
Mediaset, mentre la nuova emittenza locale (tollerata, ma di fatto
ininfluente sotto il profilo dell’informazione) si dedicava soltanto a
pubblicizzare mobili e vogatori.
Era però necessario che l’imprenditore Berlusconi
diventasse un personaggio pubblico, conosciuto e stimato non perché
aveva rapinato grazie all’appartenenza ad una loggia massonica segreta
le frequenze di trasmissione, bensì come mecenate, uomo di cultura,
filantropo.
Siccome il personaggio faceva a pugni con l’icona
dell’uomo di cultura (Chirac gli proibì di creare TV in Francia,
definendolo un “venditore di minestre”) – e per creargli attorno
un alone “nazionalpopolare” che tuttora alimenta (il Presidente –
operaio…) – il mondo del calcio era l’optimum: con pochi soldi
acquistò un Milan che navigava a stento fra il fondo della serie A e la
serie B e lo condusse agli allori internazionali.
Fu proprio nelle “Biscardate” dell’epoca che s’iniziò ad
ascoltare quel «Presidente Berlusconi…» che gli era attribuito come
presidente del Milan: il completo sconosciuto di pochi anni prima veniva
trattato con deferenza e chiamato “presidente”. Era solo calcio, ma
tant’è.
Non dovremmo sottovalutare i rapporti fra il calcio e
la politica, perché il teatrino domenicale del pallone è anch’esso
un terreno di scontro e d’incontro: c’entrano poco i partiti, ma non
è detto che la politica la facciano solo i partiti.
A parte il caso Berlusconi, come dimenticare che
tutta la vicenda della Fiorentina fu uno scontro politico fra Berlusconi
e Cecchi Gori? Moratti ed Agnelli, Viola e Ferlaino, in un tourbillon di
miliardi pagati per assurgere alla notorietà o per deviare
l’attenzione sul pallone piuttosto che su altre – meno nobili –
faccende. Qualcuno ricorda che l’ex presidente della Sampdoria –
Mantovani (scomparso da parecchi anni) – mentre la squadra volava
verso lo scudetto subiva processi su processi per uno dei tanti sporchi affaire
del petrolio?
La grande preoccupazione dei politici italiani nei confronti del calcio
– oggi tutti si preoccupano che “il giocattolo non si rompa” –
è quella che gli italiani compiano una semplice equivalenza fra il
mondo del pallone e quello della politica, che non si rechino più ad
urlare la loro rabbia negli stadi ma che gliela urlino in faccia.
Sarebbe ora.
Se con Berlusconi e
Anche la carta stampata doveva essere controllata:
non si poteva correre il rischio che un’informazione veramente
indipendente giungesse ai cittadini. Se riflettiamo sul “lavaggio del
cervello” compiuto sugli americani per convincerli che la guerra in
Iraq era necessaria per sconfiggere il terrorismo – mentre in realtà
ha “aperto” lo scenario iracheno alle formazioni guerrigliere
islamiche transnazionali – ci rendiamo conto che non si poteva correre
il rischio di voci veramente “fuori del coro”.
In campo energetico, le recenti campagne pubblicitarie condotte
dall’ENEL hanno addirittura un contenuto quasi subliminale: scomodando
un attore del calibro di Giancarlo Giannini – uomo di cultura e di
teatro – si cerca di far passare un messaggio che qualifica come
“cultura” ciò che viene propagandato dell’ENEL e
“non-cultura” ciò che proviene da altre fonti. Una meno recente
campagna pubblicitaria dell’ENEL, invece, ricordava che non bastava
tracciare dei segni sulla sabbia per creare energia; in quel caso, si
comunicava un messaggio che doveva colpire l’inconscio del
telespettatore: chi propugna soluzioni “semplici” in campo
energetico è un sognatore che traccia inutili segni sulla sabbia.
La realtà è invece più prosaica: il presidente
dell’ENI, Scaroni, ha recentemente comunicato che – grazie
all’elevato costo del petrolio – anche per il 2006 gli azionisti
potranno attendersi “succosi” dividendi.
La quadratura del cerchio possiamo verificarla
ponendoci una domanda semplicissima: ENEL ed ENI – due gruppi che
agiscono in Italia in un regime d’oligopolio – che necessità hanno
di fare pubblicità? Con quali concorrenti devono competere?
Ovviamente la “protezione” del mercato italiano da possibili
competitori esteri costa e, difatti, nella finanziaria 2006 l’ex
ministro Tremonti inserì dapprima la cosiddetta “tassa sul tubo”
che obbligava i due colossi energetici a versare allo Stato una parte
dei loro iperbolici utili, per poi trasformarla in un semplice prelievo
sui bilanci delle due aziende, che non hanno fiatato né protestato. In
pratica, hanno pagato il “pizzo” senza dire “beh”[5].
Va da sé che a fronte di queste “acrobazie” finanziarie bisogna che
non esistano altre “campane” dell’informazione, proprio come nel
calcio nessuno poteva permettersi di contrastare Moggi & Co. : chi
non è d’accordo viene confinato nei “recinti” della
“disinformazione”.
Questo sistema di protezione dell’informazione di
regime, però, costa ogni anno circa 600 milioni di euro, ossia la quota
che viene versata ogni anno dallo Stato alle testate giornalistiche che
fanno capo ad un’area politica, anche se non sono organi ufficiali di
partito.
Riflettiamo che la cifra (alla quale si devono
aggiungere i contributi per l’acquisto della carta) è, per ordine di
grandezza, un valore da Legge Finanziaria: gli esborsi che lo Stato
prevede per finanziare la missione in Iraq o per rinnovare i contratti
pubblici sono abbastanza simili[6].
Perché lo Stato mette a bilancio una cifra così alta per la carta
stampata, e con quali procedimenti regola l’esborso?
Il meccanismo è semplice: basta che 2 (due!)
parlamentari confermino che quel giornale è “voce” di un movimento
o di un’area politica ed il quotidiano o mensile che sia ha accesso ai
finanziamenti. Testate come Libero, Il Foglio, Roma, l’Unità e
tantissimi altri ne beneficiano, con finanziamenti che vanno da qualche
centinaio di migliaia di euro fino a quasi 10 milioni l’anno per i più
grandi.
A queste già cospicue cifre vanno aggiunti i
contributi che tutti i giornali ricevono per l’acquisto della carta:
in sostanza, ti compriamo parte della carta e paghiamo i giornalisti.
Che cosa vuoi di più dalla vita per essermi fedele? E, in effetti, sono
fedelissimi come lo erano gli arbitri a Moggi.
Se i direttori delle grandi testate fanno capo tutti a precise aree
politiche – tanto che compiono spesso l’altalena fra la scrivania
del direttore e lo scranno parlamentare – come si possono controllare
i giornalisti?
Ce lo spiega lo stesso Ordine dei Giornalisti nel suo
sito Internet: come si fa a diventare giornalisti?
Per essere iscritti all’Ordine bisogna superare un
esame e possedere i requisiti giuridici (cittadinanza, assenza di
condanne penali, ecc): già qui non si specifica quali reati conducono
all’esclusione. Anche una semplice condanna riportata in seguito ad un
grave incidente stradale può condurre all’esclusione: potremmo
chiederci perché – nel frattempo – personaggi condannati ed
inquisiti per gravi reati di corruzione continuino a sedere sugli
scranni del Parlamento.
Per par
condicio citiamo solo i casi di De Michelis – che ha sul
“groppone” due condanne definitive (patteggiate) – e di Cirino
Pomicino, condannato anch’egli ad un paio d’anni di carcere con
condanna definitiva. Altri parlamentari hanno subito condanne definitive
e molti sono già stati condannati in vari gradi di giudizio: per quanto
ci risulta, a nessuno di questi imputati “eccellenti” viene mai
negata la pubblicazione di ciò che scrivono, ma passiamo oltre.
La
vera “chicca” dei “paletti” posti dall’Ordine è nelle
specifiche richieste, che riportiamo[7]:
Professionisti
Sono professionisti coloro che esercitano esclusivamente la professione.
Per l'iscrizione nel relativo elenco è richiesto:
l'esercizio
continuativo della pratica giornalistica previa iscrizione nel registro
dei praticanti per almeno 18 mesi, attestato da una dichiarazione di
compiuta pratica del direttore, oppure titolo rilasciato da una delle
scuole di giornalismo riconosciute in Italia che attesti il tirocinio
dell'allievo per la durata di due anni;
Praticanti
Coloro che intendano avviarsi alla professione giornalistica possono
iscriversi nel registro dei praticanti in presenza dei seguenti
requisiti:
il
possesso della dichiarazione del direttore comprovante l'effettivo
inizio della pratica di cui all'art.
Insomma, il praticante deve trovare qualcuno che attesti il suo praticantato, che è sempre il solito direttore di testata. E se non si trova un direttore disposto ad accoglierlo come praticante? In questo caso fa il free-lance, ossia il libero professionista che vende i propri servigi alle testate. Come si può diventare praticanti se si è free-lance?
Freelance
Al fine dell'iscrizione al registro dei praticanti da parte dei
freelance sono richiesti:
l'iscrizione
all'albo come pubblicista e lo svolgimento di attività giornalistica da
almeno tre anni con rapporti di collaborazione coordinata e continuativa
con una o più testate qualificate allo svolgimento della pratica
giornalistica.
copia dei contratti di collaborazione continuativa e coordinata o delle
ricevute di pagamento da parte delle testate e l'indicazione del
giornalista professionista, caposervizio o redattore della testata o
delle testate per le quali lavora e che gli impartisce le indicazioni
tecnico - professionali;
copia della dichiarazione dei redditi da cui risulti che il compenso
annuale dell'attività giornalistica corrisponde al trattamento minimo
del praticante;
documentazione della produzione giornalistica;
Il povero free-lance è proprio uno sfigato: per lui non bastano i
soliti requisiti (penali, esami, ecc.) ma deve altresì fornire copia di
chi lo ha precedentemente pubblicato. Riflettiamo che non basta aver
pubblicato, ma deve anche essere stato pagato ed attestarlo! Ma se
chiede di poter svolgere la professione, come può aver già pubblicato?
Ha pubblicato se per tre anni qualcuno (dal giornalista
professionista in su) ha garantito per lui.
Se, a questo punto, qualcuno si spaventasse potrebbe optare per l’albo
dei pubblicisti, che sembrerebbe più “abbordabile”: è così?
Pubblicisti
Per l'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti è necessario:
presentare
gli articoli, a firma del richiedente, pubblicati in giornali e
periodici e i certificati dei direttori delle pubblicazioni, che
comprovino l'attività pubblicistica regolarmente retribuita da almeno
due anni; Per i corrispondenti o per gli articoli non firmati occorre
allegare alla domanda, unitamente ai giornali e periodici suddetti, ogni
documentazione, ivi compresa l'attestazione del direttore della
pubblicazione, atta a dimostrare in modo certo l'effettiva redazione di
dette corrispondenze o articoli. I collaboratori dei servizi
giornalistici della radio e della televisione, delle agenzie di stampa e
dei cinegiornali, i quali non siano in grado di allegare alla domanda i
giornali e periodici previsti, debbono comprovare, con idonea
documentazione ovvero mediante l'attestazione del direttore del
rispettivo servizio giornalistico, la concreta ed effettiva attività
svolta.
Niente da fare: qualsiasi percorso si scelga c’è sempre qualcuno che
deve garantire. Ma garantire che cosa? Se le capacità
professionali vengono verificate a parte, mediante un apposito esame,
non si tratta di sorvegliare affinché non siano iscritti come
giornalisti persone che scrivono “squola” con la “q”[8].
Il governo di centro destra aveva proposto
d’aggiungere a questo calvario anche la specifica laurea in Lettere,
Giornalismo, ecc, ma il Consiglio di Stato ha bocciato l’iniziativa e
l’Ordine ne ha preso atto con gran tristezza:
Il
Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti denuncia il responso
del Consiglio di Stato, che blocca la modernizzazione e la
liberalizzazione meritocratica dell’accesso alla professione
giornalistica mediante l’esclusivo percorso universitario.
Il comunicato dell’Ordine è quasi ridicolo: dopo aver steso quel
“campo minato” di richieste e controlli osano parlare di
modernizzazione e liberalizzazione? Bisogna riconoscere che restringere
ai soli cittadini laureati la possibilità di partecipare
all’informazione cozza contro alcuni principi costituzionali, giacché
non è possibile equiparare le competenze professionali che deve
possedere un medico con quelle di chi scrive: se il problema è di
verificare le competenze, bastano ed avanzano gli specifici esami atti a
verificare soprattutto la conoscenza degli aspetti giuridici attinenti
al mondo dell’informazione.
A questo punto potremmo proibire di cantare a chi non
ha completato gli studi al Conservatorio, potremmo estromettere dalle
compagnie teatrali coloro che non hanno frequentato l’Accademia
d’Arte Drammatica cosicché – solo per citare un caso fra i tanti
– un certo Fabrizio de André si sarebbe probabilmente distinto in una
fulgida carriera come bancario o portalettere, invece di scrivere
canzoni che hanno cambiato addirittura il costume e che sono riportate
nei testi scolastici.
Anche se il Consiglio di Stato ha motivato il parere con altre
argomentazioni (conflitto di competenze fra Stato e Regioni, ecc.), sarà
apparso evidente che si trattava anzitutto di una forzatura
costituzionale, alle quali, ahimé, il governo Berlusconi ci ha
abituati.
Ricordiamo infine che Enzo Biagi – che ha ricevuto
numerose lauree honoris causa
– non ha conseguito a suo tempo una laurea, eppure è considerato il
più bravo giornalista italiano vivente. Fu questa la ragione che
condusse alla sua estromissione dalla RAI?
Sappiamo che Berlusconi – con il cosiddetto
“editto bulgaro”, giacché pronunciato mentre si trovava in Bulgaria
– sentenziò l’ostracismo per Biagi, Santoro e Luttazzi, che
puntualmente furono cacciati dalla RAI: bisogna riconoscere che il luogo
d’emanazione della sentenza fu scelto con sagacia.
Il caso dei tre giornalisti ha fatto chiasso per anni, mentre nel
silenzio più buio stuoli di giovani che vogliono diventare giornalisti
devono percorrere una via che – altro non è – che una sequela di
prostrazioni ai potenti per ottenere una cosa semplicissima, la più
“amata” dagli italiani: una raccomandazione.
Tutta la sequenza di richieste racconta una sola
vicenda: prima d’affidarti una rubrica su un giornale, vogliamo essere
ben certi che scriverai soltanto ciò che ti consentiremo di scrivere e
non quello che scoprirai o che ti verrà la voglia d’indagare.
Se poi “sgarri” – e pensi d’aver scoperto che
con i soldi della cooperazione italiana in Somalia viene gestito un
traffico di rifiuti tossici – guarda a caso ti crivellano di colpi nel
centro di Mogadiscio. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non sono gli unici
giornalisti ad essere stati uccisi perché raccontavano la verità: De
Mauro raccontò le vicende di mafia e Siano quelle di camorra, ed
entrambi furono uccisi.
Molti, però, continuano a scrivere nella più
assoluta pace e vogliamo segnalare alcuni casi degni di nota. Non
sappiamo se questi signori hanno ricevuto tutte le regolari
certificazioni per svolgere la professione, ma qualcuno attestò
qualcosa per loro, al punto di concedere loro una tessera. I signori[9]:
Cicchitto
Fabrizio (tessera n. 2232):
deputato di Forza Italia, nonché editorialista de Il Giornale.
Ciuni
Roberto (tessera n. 2101):
collaboratore de Il Giornale e Panorama.
Costanzo
Maurizio (tessera n. 1819):
conduttore di Buona Domenica e de Il diario su Canale 5 nonché
consulente per La 7.
Donelli
Massimo (tessera n. 2207):
attuale direttore di TV Sorrisi e Canzoni (Gruppo Mediaset).
Gervaso
Roberto (tessera n. 1813):
ha una rubrica fissa su Rete 4 (Peste e corna) e sul Messaggero.
Memmo
Roberto (tessera n. 1651):
avvocato e finanziere dirige la "Fondazione Memmo per l'arte e la
cultura".
Mosca
Paolo (tessera n. 2100): oggi direttore del rotocalco Vip e titolare di
rubrica fissa quotidiana su Unomattina, in Rai.
Nebiolo
Gino (tessera n. 2097): attuale giornalista del Foglio di Ferrara e del
Giornale di Sicilia.
Picchioni
Rolando (tessera n. 2095):
attuale segretario della Fondazione del Libro di Torino (ente
organizzatore del Salone del Libro) e direttore esecutivo del World
Political Forum.
Rizzoli
Angelo (tessera n. E.19.77):
attuale produttore di cinema/ tv per Rai e Mediaset.
Sensini
Alberto (piduista "interruptus", ossia non fece in tempo a
ricevere la conferma dell’iscrizione, come Antonio Martino):
giornalista del Gazzettino.
Trifone
Trecca Fabrizio (tessera n. 1748):
titolare di rubrica fissa di medicina "Vivere bene" su Rete
4.
Ricevettero
a suo tempo forse la più rilevante attestazione per entrare a testa
alta nel mondo dell’informazione. Chi la rilasciò? Il signor Licio
Gelli, Gran Maestro della Loggia P2.
Carlo
Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it
[1]
Alcune stime, che si basavano sulla partecipazione alle grandi
manifestazioni, conducono a ritenere che circa un milione di giovani
italiani facesse riferimento ai gruppi della sinistra
extraparlamentare, mentre in tutti i processi per il terrorismo
degli stessi anni il numero degli imputati – anche di quelli
minori, i cosiddetti “fiancheggiatori” – non supera le 5.000
unità. E gli altri 995.000?
[2]
Ricordiamo soltanto le recenti leggi introdotte dal governo
Berlusconi: il tentativo di frantumare l’unità sindacale con il
“Patto per l’Italia” (poi disatteso, a conferma che
l’obiettivo era un altro), la legge Gasparri sull’informazione e
la controriforma della Costituzione. Tutti provvedimenti previsti
nel “piano” della P2, tanto che Licio Gelli ha recentemente
dichiarato: « Forse sì, dovrei avere i diritti d'autore».
[3]
Il governo Craxi varò due decreti per affidare il monopolio
televisivo a Berlusconi, il secondo dei quali imposto ai
parlamentari con il ricatto dello scioglimento anticipato delle
Camere. Marco Travaglio op.
cit.
[4]
Per una più completa “carrellata” sui rapporti fra Berlusconi e
vari potentati (palesi ed occulti) di quegli anni consiglio la
lettura dei libri di Marco Travaglio: L’odore
dei soldi, Berlusconi
(insieme a Peter Gomez) ed altri.
[5]
La prossima “guerra” energetica avverrà fra i monopolisti
italiani e Gazprom, il
colosso russo, che per continuare a rifornirci ha chiesto di poter
gestire autonomamente una quota del mercato. In alternativa, il gas
destinato all’Europa potrebbe finire in Cina: sic
stantibus rebus.
[6]
La missione in Iraq costa al contribuente quasi un miliardo di euro
l’anno (considerando tutte le spese, anche quelle nascoste
abilmente nelle “pieghe” di bilancio), mentre il rinnovo di un
contratto come quello della Scuola (che viene rinnovato, per la
parte economica, ogni due anni) costa circa 300 milioni l’anno.
[7]
Tutti gli estratti provengono dal sito ufficiale dell’Ordine dei
Giornalisti.
[8]
A tal fine, propongo agli increduli un interessante esperimento.
Provate a copiare dal Web un articolo di una grande testata in Word
(dove vengono chiaramente evidenziati gli errori ortografici):
provare per credere.
[9]
Le pagine gialle della P2,
di Marco Travaglio.