Correlazione tra guerra e ripresa economica 
Dal libro: «American Nightmare», di Sbancor - edizioni Nuovi Mondi Media

Warfare di Parvus
C'è una costante nella storia economica degli Stati Uniti da più di un secolo a questa parte. Ed è la stretta correlazione tra interventi militari e ripresa dell'economia. Questa correlazione è così stretta che chi legga la tabella dettagliata dei cicli economici americani che si trova sul sito di un istituto governativo coma il National Bureau of Economic  Research si imbatte in questa avvertenza: "I dati in grassetto si riferiscono all'espansione economica dei periodi di guerra, alle contrazioni economiche postbelliche e all'intero ciclo che include le espansioni dei periodi bellici". In altri termini: dalla guerra civile americana in poi, il nesso tra guerra ed espansione economica è indiscutibilmente accertato e assolutamente ricorrente. ma vediamo più da vicino la questione, prendendo in esame le principali avventure belliche americane dagli anni Quaranta del secolo scorso a nostri giorni.

La Seconda Guerra Mondiale
Fu soltanto grazie all'ingresso nella Seconda Guerra Mondiale e alla messa in opera della macchina bellica relativa, e non grazie agli investimenti di Roosevelt in opere pubbliche, che gli USA riuscirono a risollevarsi dalla Grande Crisi degli anni Trenta.
Lo ha ribadito non più tardi di qualche settimana fa il premio Nobel per l'economia Peter North, replicando a un incauto giornalista che faceva presenti i meriti del keynesismo per l'uscita dalla crisi degli anni Trenta: "Non siamo usciti dalla depressione grazie alla teoria economica, ne siamo venuti fuori grazie alla Seconda Guerra Mondiale".
Le cifre, del resto, parlano da sole. Durante il New Deal rooseveltiano la spesa pubblica civile era cresciuta dai 10,2 miliardi di dollari del 1929 ai 17,5 del 1939. Ciò però non aveva potuto impedire che, nello stesso periodo, il PIL calasse da 104,4 a 91,1 miliardi di dollari, e che la disoccupazione invece salisse dal 3.2% al 17,2% della forza lavoro complessiva.
Dal 1939 lo scenario cambia. Il sistema economico è dapprima tonificato dalla vendita di armi agli inglesi e ai francesi (ma, come oggi sappiamo, le grandi imprese americane, dalla Ford alla IBM, non disdegnarono di fare contemporaneamente affari anche con i nazisti), e poi definitivamente rimesso in carreggiata con l'ingresso diretto degli USA in guerra (dicembre 1941): il PIL riprende a crescere, la disoccupazione viene praticamente azzerata.

La guerra in Corea 
Subito dopo la guerra torna la crisi economica, pur mitigata dalla domanda differita di beni di consumo accumulatasi durante il conflitto, e dall'avvio del Piano Marshall in Europa. Già nel 1949, comunque, gli USA sono nuovamente in recessione. Provvidenziale, nell'estate nel 1950, scoppia la guerra di Corea. Il risultato è una fortissima spinta al riarmo. I Paesi della NATO triplicano in soli 3 anni le loro spese militari, che passano infatti dai 38 miliardi di dollari del 1949 ai 108 miliardi del 1952. Ma la parte del leone la fanno gli Stati Uniti, le cui spese militari nel 1952-3 giungono al 15% del PIL. Non a caso la guerra di Corea è tuttora considerata "una caso paradigmatico" di "forte incremento esogeno della spesa pubblica". Un incremento che durerà a lungo: anche dopo la fine della guerra, infatti, le spese militari, pur diminuendo, resteranno a lungo attestate su percentuali del PIL più che doppie rispetto agli anni precedenti la guerra di Corea. Ma, ciò che più conta, all'enorme incremento delle spese per gli armamenti corrisponde una nuova fase di espansione economica: definita, per l'appunto, il "boom coreano".

La guerra in Vietnam
Nel 1961, quando John F. Kennedy raggiunge la presidenza, gli USA sono da tempo in piena crisi economica. La risposta e quella del Welfare e dell'aumento della spesa pubblica. Ma, ancora una volta, l'82% di questo aumento è ascrivibile alle spese militari. Viene inoltre potenziata la vendita delle armi ad altri Paesi (prima cedute per i nove decimi gratuitamente). I risultati non si fanno attendere: il valore delle armi vendute dagli USA aumenta in sei anni di ben sei volte.
La guerra del Vietnam, e le relative spese militari, tornate a superare il 10% del PIL, ridanno slancio all'economia americana. La quale, infatti, a partire dal 1964, conoscerà una delle più lunghe fasi espansive della sua storia (sfuggendo alle recessioni che in quegli anni attanagliano l'Europa).
Anche in questo caso, il nesso tra impegno bellico ed espansione dell'economia è chiaro come il sole. Così chiaro da essere entrato nel senso comune di chi si occupa di economia. Tant'è vero che qualche tempo fa un editorialista del Sole 24 ore si è potuto lasciar sfuggire, come se niente fosse, un'affermazione come questa: "La pur magra crescita del quarto trimestre del 2000 ha conferito a Bill Clinton l'alloro di essere stato l'unico presidente dai tempi di Lyndon Johnson, ma quelli di Johnson erano tempi di guerra (del Vietnam), a non aver conosciuto neanche un trimestre di regressione del PIL".

Lo scudo stellare di Reagan
Già sotto la presidenza Carter le spese militari ricominciano ad accelerare il passo. L'occasione è offerta dall'invasione sovietica dell'Afghanistan (24 dicembre del 1979): già nel numero di Business Week del 21 gennaio 1980 si parla esplicitamente di New Cold War Economy e si ipotizza una sensibile crescita della spesa per armamenti. Cosa che avviene puntualmente.
Ma l'accelerazione diviene frenetica con l'arrivo di Reagan alla presidenza degli Stati Uniti, e con il lancio della sua creatura prediletta: lo "scudo stellare". Le spese per la difesa aumentano dal 1981 al 1985 del 7% all'anno, mentre la quota delle spese militari all'interno del bilancio federale cresce dal 23% al 27%.
Ancora una volta, le spese per gli armamenti vengono giocate in chiave recessiva dando luogo a un curioso paradosso: mentre con una mano Reagan agita la bandiera del liberismo, con l'altra dà vita a uno dei più giganteschi programmi "keynesiani" si spesa pubblica. Con il particolare non trascurabile che la spesa pubblica non viene impiegata per servizi sociali e di assistenza, ma adoperata per produrre e comprare armi.

La guerra del Golfo
Con il crollo del Muro di Berlino e l'agonia dell'Unione Sovietica, l'America si ritrova di colpo, senza il "Nemico" per eccellenza: il regno del Male (secondo la cortese definizione di Reagan, riecheggiata nelle settimane scorse nelle parole di Bush contro bin Laden) sta uscendo ingloriosamente di scena. Per fortuna c'è Saddam Hussein, ex grande alleato dell'Occidente (nella guerra contro l'Iran), che nell'agosto del 1990 decide di invadere il Kuwait. La risposta è una guerra, condotta con un enorme dispiegamento di mezzi, dapprima attraverso bombardamenti poi con un intervento terrestre diretto dell'esercito americano (16 gennaio-28 febbraio 1991).
Dal punto di vista strategico si tratta di una vittoria importante per gli Stati Uniti, che consolidano la presa sulle risorse petrolifere del Golfo Persico.
Il politologo Samuel Huntington ha così sintetizzato la posta in gioco e i risultati della guerra: "La guerra del Golfo è stata la prima guerra tra civiltà dell'epoca post-Guerra fredda. La posta in gioco era stabilire se il grosso delle maggiori riserve petrolifere del mondo sarebbe stato controllato dai governi saudita e degli emirati, la cui sicurezza era affidata alla potenza militare occidentale, oppure da regimi indipendenti antioccidentali in grado e forse decisi a utilizzare l'arma del petrolio contro l'Occidente. Il quale non riuscì a spodestare Saddam Hussein, ma riportò una vittoria in quanto ribadì la dipendenza della sicurezza degli Stati del Golfo dall'Occidente e si assicurò un'imponente presenza militare nel Golfo anche in tempo di pace. Prima della guerra, Iran, Iraq, il Consiglio per la cooperazione nel Golfo e gli Stati Uniti competevano per l'acquisizione di influenza nel Golfo. Al termine del conflitto, il Golfo Persico era diventato un lago americano".
La guerra, già prima dell'attentato alle Twin Towers, era, per così dire, nell'aria.
lo era nella forma soft del progetto di difesa missilistico (il cosiddetto "scudo stellare 2"), proposto già sotto la presidenza Clinton e poi rilanciato con arroganza da Bush e dal ministro della Difesa Rumsfeld.
Con il necessario corollario della ricerca di un "Nemico", che nel caso specifico veniva rinvenuto (ben poco plausibilmente) nei cosiddetti "stati canaglia", ossia Iran, Iraq e Corea del Nord.
E lo era -questo è l'importante- sotto forma di necessità economica.

Che la spesa militare e la guerra facciano bene all'economia capitalistica è cosa che non riguarda soltanto gli Stati Uniti, e che non riguarda solo il passato. Vediamo quindi, per concludere, i vantaggi del "Warfare" - con lo sguardo rivolto alla concreta forma che esso sta assumendo in queste settimane.
Le spese militari sono una forma di spesa pubblica per il rilancio dell'economia. Esse rappresentano, cioè, una forma di deficit spending, ossia una delle forma attraverso cui lo Stato finanzia l'economia (se è il caso anche indebitandosi). Ma perché proprio questa forma viene preferita al "Warfare", nonostante che quest'ultimo rilanci direttamente i consumi individuali?
Per numerosi motivi.
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