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Capitolo 1
La progressiva concentrazione del
mercato farmaceutico
Pino Pignatta, Stefano Bertone,
tratto dal libro «Sangue e Affari»
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Riportiamo
qui alcuni dati tratti dal Rapporto 2004 Salute e Globalizzazione dell’Osservatorio
italiano sulla salute globale (Ed.Feltrinelli). Nel 12° capitolo –
dal titolo Globalizzazione e accesso alle cure: un’insolente storia
di apartheid sanitario. Il ruolo delle industrie farmaceutiche, la responsabilità
dei governi – Nicoletta Dentico, attualmente consulente della
Campagna internazionale di Medici senza Frontiere per l’accesso ai
farmaci essenziali, scrive:”Le proiezioni del mercato farmaceutico
mondiale per il 2002 registrano un giro d’affari di 406 miliardi di
dollari […]. Le porzioni della ricca torta, che tanto piace agli
attori della finanza internazionale e ai risparmiatori dei fondi
pensione, rappresentano in maniera lampante il triangolo d’oro del
mercato: Stati Uniti-Europa-Giappone. Insomma, un vero e proprio G8
farmaceutico”.
Vale
per i farmaci ciò che vale per la distribuzione della ricchezza: il 75%
della popolazione mondiale, concentrata nei Paesi in via di sviluppo,
consuma soltanto il 15% della quantità totale di farmaci prodotta nel
mondo; 300 dollari pro-capite l’anno la spesa per farmaci nel Nord del
mondo, 15 dollari nel Sud, 3 dollari appena nei Paesi sottosviluppati. E
come il consumo di farmaci è concentrato nelle azioni più ricche, così
è anche la produzione farmaceutica. Nel 1982 solo l’11,6% della
produzione globale di medicinali avveniva nei Paesi in via di sviluppo:
la parte del leone la facevano gli Stati Uniti (21,6%) – che insieme
con Giappone (17,8%), Germania (7,3%), Francia (6,8%), Gran Bretagna
(4,7%) e Italia (4,6%) – coprivano i due terzi della produzione
mondiale.
Osserva ancora Nicoletta Dentico:”Sebbene in quegli anni il comparto
farmaceutico fosse rappresentato da almeno 100.000 singole aziende nel
mondo, solo 100 svolgevano un ruolo significativo nel campo della
ricerca e nelle quote di mercato. Nel 1986 le prime 50 industrie
gestivano il 63,2% delle vendite globali, e di queste le prime 25
contavano per il 46,2% del mercato. L’azienda leader, Merck Sharp
& Dohme, controllava da sola il 3,4% di tutte le vendite nel
mondo”. Sino agli anni Ottanta si è assistito a pochissimi
cambiamenti nell’assetto aziendale di queste imprese. E’ invece
durante gli anni Novanta che si registra un incremento della
concentrazione industriale, strategia ineludibile per far fronte ai
costi crescenti sia nella ricerca e sviluppo di nuovi farmaci sia nella
commercializzazione e distribuzione degli stessi a livello mondiale.
Ecco,
nell’ordine, le più importanti case farmaceutiche al mondo nel 1980:
La
Becham (Gran Bretagna) era 23°, La Johnson & Johnson (USA) era 24°,
la Ici (Gran Bretagna) poi diventata Zeneca, 25°.
Ed ecco l’elenco delle prime dieci industrie farmaceutiche al mondo
vent’anni dopo, esattamente nel 2001:
Che
cosa si evince da questo secondo elenco? “La scalata delle aziende
statunitensi a scapito di quelle europee, le fusioni transnazionali e la
progressiva concentrazione del mercato nelle mani sostanzialmente di
dieci aziende, che nel 2000 arrivano a gestire il 48,8% della quota di
mercato, a confronto del 24,5% del 1980”, spiega ancora il Rapporto
2004 Salute e Globalizzazione. “Questi mega-gruppi esercitano
un’influenza sempre maggiore nei confronti dei governi nazionali: ognuno
di essi ha ormai un giro finanziario che è superiore al prodotto
interno lordo di oltre la metà dei Paesi del pianeta”.
Sul fronte dei brevetti farmaceutici, poi, le nazioni industrializzate
detengono il 97% di quelli esistenti a livello mondiale, e più
dell’80% di quelli concessi ai Paesi poveri sono di proprietà di
singoli cittadini dei paesi industrializzati. Tuttavia, il WTO, World
Trade Organization, viene spesso tirato in ballo oggi per impedire ai
Paesi poveri di ripercorrere con successo la stessa strategia di
sviluppo industriale che ha portato alla realizzazione di quei brevetti.
Gli “accordi Trips”10, infatti, ribaltano la
questione:mettono la parola fine al processo
biologico-chimico-ingegneristico inverso che ha permesso a molti Paesi
del Sud del mondo di arrivare a produrre qualsiasi tipo di farmaco. E
nel fare questo si barricano dietro il Know-how che ha permesso
la creazione di un’industria dei Paesi ricchi, e che lasciando le
medesime opportunità ai Paesi poveri finirebbe per favorire
l’invenzione di nuove terapie farmacologiche lontano dai centri di
potere dei mega-gruppi farmaceutici. “Lo si è visto nel caso del pranzi-quantel”,
precisa Nicoletta Dentico, “per il quale un produttore generico
sudcoreano ha scoperto un processo di fabbricazione più efficiente di
quello del detentore del brevetto, che è la Bayer”. I Paesi in via di
sviluppo, in buona sostanza, dovranno pagare somme ingenti nei prossimi
anni per i diritti sui brevetti:secondo la Banca Mondiale, circa 40
miliardi di dollari.
Come
si difende l’industria farmaceutica? In questo modo:il ruolo delle
imprese è scoprire nuove terapie e vaccini. Si tratta di identificare
queste molecole tra un numero di quelle potenzialmente efficaci, che è
pari a 10 elevato alla 18a potenza. I costi di ricerca e
sviluppo, ovviamente, sono ingenti: oltre 800 milioni di dollari per
ogni nuova terapia nel 2003, secondo i rappresentanti dell’industria
sia italiani che stranieri. E occorre mettere nel conto i fallimenti e i
capitali investiti nel corso degli 8-12 anni necessari per identificare
un nuovo medicinale. La ricerca, quindi, deve essere pagata dalle
aziende con gli introiti provenienti dai prodotti sul mercato. In altre
parole, l’assunto delle case farmaceutiche è semplice:senza brevetti,
niente profitti;senza profitti, niente ricerca;senza ricerca niente
cure.
Sta
di fatto che già nel 1967 i dati sulla profittabilità delle più
importanti aziende farmaceutiche americane inducevano il direttore del
Dipartimento di Economia della US Federal Trade Commission a rilevare
che le aziende del settore “occupano una posizione unica
nell’economia americana”. Vent’anni dopo, nel 1988, le dieci
aziende farmaceutiche più competitive al mondo registravano margini di
profitto sulle vendite di medicinali tra il 29 e il 66 per cento.