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Rivolta
al Pentagono
di Carlo
Bertani
William
Shakespeare, Antonio e Cleopatra, Atto secondo Scena IV
Le notizie che giungono da Washington e da Tel Aviv
riguardo all’Iran sono tutto meno che confortanti: sembrerebbe essere
iniziato il “conto alla rovescia” per un attacco contro i siti
nucleari iraniani.
Nell’infinito balletto diplomatico s’è udita nei giorni scorsi la
voce del ministro degli Esteri russo Lavrov, il quale ha affermato che
«L’opzione militare in Iran è impraticabile»: secca dichiarazione
che pone fine alle ipotesi di una solenne “ammucchiata” contro
Teheran. Come se non bastasse,
Pechino è più prudente ma non molto distante da Mosca
quando invita tutti alla “moderazione”. D’altro canto, entrambi i
paesi hanno consistenti rapporti economici con Teheran:
Anche l’Europa non sembra molto interessata alla querelle
iraniana (dichiarazioni di facciata a parte), giacché la borsa
petrolifera in euro di Teheran contribuisce (e lo farà ancor più in
futuro) ad apprezzare l’euro sul dollaro.
Ovviamente, ciò che può andar bene per Mosca, Pechino e Bruxelles è
l’esatto contrario dei desideri di Washington – giacché il petrolio
iraniano non può soddisfare tutti – ed allora prendono forma le
ipotesi belliche con la scusa del programma nucleare iraniano1,
anche se nessun trattato internazionale prevede che sia negato
l’accesso alla tecnologia nucleare ad una nazione.
Ad un analista attento un simile azzardo sembra veramente
irresponsabile: come si può pensare d’attaccare un paese grande
quattro volte l’Iraq e con circa ottanta milioni d’abitanti quando
già in Iraq ed in Afghanistan non si riesce nemmeno a controllare il
territorio?
La risposta è ovvia: nessuno pensa ad un’invasione dell’Iran, ma ad
una serie d’attacchi aerei e missilistici che – nelle intenzioni di
Washington – dovrebbero portare ad un “cambio di regime”.
Già questa tesi è molto difficile da sostenere – poiché non si
comprende quali forze interne all’Iran dovrebbero ribaltare un potere
solido come quello degli ayatollah – e conduce a conclusioni
diametralmente opposte: Khamenei ed Ahmadinejad avrebbero buon gioco nel
consolidare gli umori della popolazione contro il “Satana” di
sempre, ovvero gli USA.
Il “Satana”, però, si trova già all’inferno per la situazione in
Iraq, e gli ayatollah non ci metterebbero molto a scoperchiare ancor più
la pentola irachena: l’ayatollah Al-Sistani – massima espressione
degli sciiti iracheni – non ha nemmeno la cittadinanza irachena, è un
cittadino iraniano che ha studiato a Qom – in Iran – insieme a
Khamenei ed agli altri dirigenti iraniani.
Se i grattacapi – per Washington – fossero soltanto
questi ci sarebbe già da fare una bella doccia fredda prima di prendere
decisioni azzardate, ma anche il fronte interno inizia a cedere, e le
crepe cominciano ad essere evidenti.
Chi desiderasse fare dei paragoni con il Vietnam si troverebbe spiazzato
per un semplice motivo: a quel tempo l’esercito USA era di leva,
mentre oggi è un esercito professionale. Della serie: sei pagato per
combattere e per morire, e se crepi non ti lamentare perché era già
scritto nel contratto2.
Ha reale valore un simile “contratto”? Ossia, quanto è sostenibile
in termini politici?
Sulla “tenuta” degli eserciti in situazioni difficili poco si sa e
poco si parla: si stima in modo assai fumoso che un esercito “debba”
resistere, “che farà il suo dovere” ed altre affermazioni di questo
tipo che significano assai poco.
Sappiamo che la guerra in Vietnam non fu perduta dagli USA
nelle risaie dell’Indocina ma sul territorio nazionale, quando fu
evidente che non serviva più inviare soldati demotivati e contrari alla
guerra, truppe che si squagliavano come neve al sole. In questo senso, Apocalypse
now è addirittura didattico.
Vale forse la pena d’analizzare con attenzione la situazione degli
eserciti dell’Asse nel confronto con la superiorità di mezzi degli
Alleati: è vero che gli italiani fuggirono ai primi spari mentre
tedeschi e giapponesi combatterono fino all’ultima cartuccia? In
parte.
La seconda affermazione è senz’altro vera per il Giappone, laddove
però furono precise condizioni interne a determinare la strenua
resistenza: l’Imperatore – il Tenno – era sacro come un
Faraone per gli Egizi, e la difesa di un Dio-Re catalizza ben altre
pulsioni rispetto al concetto di stato nazionale occidentale. A margine,
possiamo notare come certe odierne affermazioni di “difesa
dell’Islam” – inteso nella sua sacralità religiosa – abbiano
punti in comune con il Giappone di quegli anni.
L’Esercito Italiano, invece, iniziò a disgregarsi appena gli
anglo-americani sbarcarono in Sicilia: curiosità vuole che, proprio nel
1942, stavano entrando in servizio nuovi, moderni mezzi per un esercito
che aveva iniziato la guerra con quasi le stesse dotazioni della Prima
Guerra Mondiale.
Il caccia Reggiane 2005 poteva combattere alla pari
con i migliori Spitfire, il carro P-40 era il
corrispettivo dei migliori carri tedeschi,
La situazione italiana era dunque quella di un esercito di
leva che non avvertiva la necessità di quella guerra, tanto meno con
l’alleato tedesco che solo vent’anni prima era stato il nemico.
Uno dei luoghi comuni più diffusi è invece quello che identifica
I guai iniziarono già dalla Battaglia d’Inghilterra,
quando i tedeschi non riuscirono ad avere il sopravvento sugli inglesi
pur avendo un rapporto di forze a loro favore di circa 5 : 1.
L’ostacolo maggiore alla vittoria della Luftwaffe fu il suo
comandante in capo, Hermann Goering, un grasso e dissoluto
feldmaresciallo che non capiva niente di tattica e di strategia
aeronautica. Non esisteva nessuna pianificazione della guerra aerea,
dato che la campagna di Francia non aveva insegnato quasi niente, ed i
velivoli tedeschi venivano inviati in missioni dove non potevano mettere
a frutto la superiore velocità del caccia Messerschmitt BF-109.
Durante un veemente contrasto con Goering, il generale Gallandt – asso
dell’aviazione – avvertì ironicamente il feldmaresciallo che, se
quella era la strategia, per vincere «sarebbe stato necessario ricevere
degli Spitfire». Gallandt pagò quell’affermazione con anni
d’esilio in un dimenticato aeroporto sui Pirenei, ma Goering non capì
cosa intendeva affermare l’ufficiale, ossia che le tattiche e le
strategie non possono prescindere dai mezzi.
Dopo la sbarco in Normandia, invece, furono numerosi i casi
di fucilazione per ufficiali di rango inferiore – tenenti e capitani,
ovvero quelli che erano a diretto contatto con le truppe combattenti –
giacché ordinavano la ritirata per salvare il poco che era possibile
salvare.
Dopo quelle fucilazioni
Sul fronte russo, invece, si giunse ben presto ad un accordo: tutto
quello che avvenne dopo la resa di Paulus a Leningrado e la sconfitta di
Stalingrado fu soltanto una lenta ed inesorabile ritirata3.
Molti ufficiali – anche di grado elevatissimo – avevano
abbandonato la follia di Hitler e del suo “Reich millenario” e
pensavano solo a salvare il salvabile: si ritiravano di quel tanto che
bastava per salvare la faccia ed i russi avanzavano fin quando i
tedeschi lo permettevano, nell’attesa di una nuova ritirata. Difatti,
non vi furono più grandi battaglie campali all’est dopo il 1943, ed
addirittura l’Armata Rossa si fermò fuori Varsavia nell’attesa che
i tedeschi l’avessero evacuata, il che causò un’ecatombe nella
resistenza polacca.
In buona sostanza, la concezione napoleonica della guerra – che durò
fino alla Prima Guerra Mondiale – non funzionò più nella Seconda,
quando la resa e la ritirata divennero le alternative alla resistenza ad
oltranza, alla guerra di trincea4.
In Vietnam – come ricordavamo – intervennero apertamente sul morale
delle truppe anche fattori politici interni: le marce della pace, le
medaglie scagliate contro il Campidoglio testimoniavano oramai il
rifiuto politico di quella guerra da parte dei giovani americani, e fu
sconfitta.
La risposta del Pentagono a quella sconfitta fu la
creazione di un esercito professionale: sei pagato anche per morire, ma
ti metteremo a disposizione tutto il supporto possibile e la miglior
tecnologia affinché ciò non avvenga.
La carota, invece, era: vieni nei Marines ed avrai uno stipendio sicuro,
una serie di benefit quali abitazione, sanità, scuola, ecc e
sarai sempre difeso dall’esercito in qualsiasi frangente. Nulla di
nuovo rispetto alla classica Guardia Pretoria.
Questo equilibrio si regge su un semplicissimo assioma che possiamo
identificare nella conta dei morti, ossia su quanti sacchi neri tornano
in Patria con un cadavere dentro.
La ristrutturazione dell’esercito americano dopo la fine della Guerra
Fredda – curata per Rumsfeld da Andrew Marshall, anziano ed ascoltato
stratega del Pentagono – prevedeva la creazione di 12 grandi gruppi
d’assalto basati sulla sorpresa e sulla mobilità: nessuno aveva messo
in conto lunghi periodi d’occupazione, perché in quel caso la
superiorità tecnologica conta sempre di meno man mano che la situazione
si complica.
Quale artifizio elettronico può salvare un marine dallo
scoppio di un ordigno rudimentale celato in un cespuglio a lato della
strada? Gli ufficiali hanno a disposizione un sofisticato sistema di
combattimento, con il quale sono in continuo contatto con i comandi: un
apposito visore – sistemato sull’elmetto – permette loro d’avere
notizie in tempo reale sui movimenti del nemico.
Già, ma chi è il nemico?
Questa strategia può funzionare in una guerra convenzionale – e per
questa ragione la campagna militare irachena fu così rapida – ma
diventa inefficace quando il nemico non è riconoscibile.
Paradossalmente, in un campo di battaglia “elettronico”, coperto di
emissioni radar e di sensori, un uomo senza divisa con un fucile che
cavalca un cammello diventa l’arma assoluta.
La latitanza di Bernardo Provenzano è stata possibile perché si
affidava a strumenti di comunicazione antichi – i famosi “pizzini”
– ma anche quella di Bin Laden e di Ayman Al-Zawahiri è molto
“prudente” per quanto attiene la comunicazione elettronica. Molto
probabilmente anche i due capi di Al-Qaeda non usano strumenti
elettronici e, per i loro comunicati alle TV ed ai loro accoliti,
utilizzano presumibilmente semplici e-mail inviate da anonimi Internet
café.
Vorremmo precisare che non stiamo compiendo dei salti
nell’iperspazio della strategia militare: gli stessi principi erano già
presenti negli scritti di Ernesto Guevara Linch5.
In definitiva, i guai iniziano quando un esercito professionale pagato
per fare la guerra comincia a subire pesanti e continue perdite: non
solo migliaia di morti, ma anche decine di migliaia di feriti, molti dei
quali gravi e che rimarranno mutilati per il resto della loro esistenza.
A questo punto, la carota – ossia la certezza del posto di lavoro, i benefit,
ecc – calano d’importanza perché quel posto di lavoro diventa
sempre più incerto: qui non si perde il posto di lavoro, qui si perde
la vita.
Esiste una sorta di “sindacalismo” militare? Un militare che si
trova ad affrontare situazioni insostenibili, a chi può rivolgersi?
In Italia esistono i vari COCER, ossia degli organismi consultivi che
comprendono ufficiali, sottufficiali e uomini di truppa: specie di
“rappresentanze sindacali” interne alle Forze Armate.
Si tratta già di un passo in avanti rispetto alla pura e
semplice obbedienza gerarchica (che, in ogni modo, i COCER non possono
mettere in dubbio), ma è tutto da verificare cosa potrebbe succedere in
una reale situazione di guerra.
Il metodo più semplice che i militari USA hanno per evidenziare il loro
malumore è quello di mostrarlo ai loro comandanti sul campo, ossia agli
ufficiali di rango inferiore. Quando le lamentele e lo scoramento
superano la soglia d’attenzione, le paure iniziano ad essere
comunicate agli ufficiali superiori, fino agli Stati Maggiori: la
struttura gerarchica – in questi frangenti – diventa bi-direzionale,
ossia non partono più solo ordini dall’alto ma anche timori dal
basso.
Quando l’intera catena di comando è pervasa dai dubbi, essi si
manifestano nelle alte sfere, fino ai politici: in teoria, così
dovrebbe accadere in un esercito moderno ed in una nazione democratica.
Ciò che invece si sta inceppando negli USA è il rapporto
fra militari e politici: al Pentagono è in atto una vera e propria
lotta senza esclusione di colpi fra molti alti ufficiali – che
invitano Bush a trovare rapidamente una soluzione per l’Iraq – ed i
politici, i quali continuano a pensare che i soldati sono pagati anche
per morire. Semmai, dopo riceveranno medaglie e diventeranno degli eroi.
Se vogliamo, possiamo cogliere un interessante parallelo fra la
situazione dei sovietici in Afghanistan e quella odierna degli USA in
Iraq: in entrambi i casi non era e non è possibile controllare il
territorio, di qui l’inevitabile sconfitta, mascherata con vari
artifizi.
La differenza fra le due situazioni è rappresentata proprio dal diverso
approccio: i sovietici sapevano benissimo che era il Pakistan
(ovviamente sorretto dagli USA) a giocare la parte del “regista” per
quanto avveniva in Afghanistan, ma non s’azzardarono mai ad
attaccarlo.
Gli USA invece, pur non esistendo un rapporto ben definito fra Teheran e
la guerriglia irachena, meditano d’alzare il livello dello scontro
attaccando l’Iran per altri motivi.
I generali sono per natura silenti e parlano per atti: le
recenti dimissioni ed i parecchi pensionamenti fra gli alti gradi del
Pentagono raccontano che la frattura fra Rumsfeld ed i militari è
oramai insanabile. La prospettiva di un attacco al sito nucleare di
Natanz – con l’utilizzo di bombe atomiche “tattiche” per colpire
le installazioni sotterranee – fa rizzare i capelli in testa ai
generali, che il giorno seguente inizierebbero a contare le perdite in
Iraq non più ad unità giornaliere, bensì a decine.
Se Bush crede di potersi permettere un completo isolamento
internazionale, i generali sanno che quell’isolamento si trasformerà
rapidamente in maggiori rifornimenti d’armi e d’informazioni alla
controparte, ed in maggiori perdite per le proprie forze.
Sappiamo che la vittoria ha sempre molti padri mentre la sconfitta è
orfana, ma non dimentichiamo che ai generali sconfitti non viene
riservato – per tradizione – il miglior trattamento: il gioco del
“cerino” è già iniziato negli alti comandi USA, e nessuno vuole
farsi scottare le dita mentre qualcun altro preme il pulsante di un
attacco nucleare.
Ciò nonostante, non pensiamo che la “rivolta” dei
generali sortirà qualche effetto sull’amministrazione Bush, giacché
lo stesso Bush ha oramai perso ogni contatto con la realtà: non esiste
peggior iattura di un politico che vuol vestire i panni del comandante
militare – poiché non ne ha la formazione – e Bush oramai si
presenta quasi sempre in divisa (e quale poi, visto che praticamente non
fece il servizio militare?).
Anche se il paragone potrà apparire eccessivo, Gorge Bush è oramai
prigioniero nel bunker come Hitler, a spostare armate che esistevano
oramai solo più sulla carta.
George Bush ha ancora molte armate a disposizione, ma non ha compreso
che la sola forza militare non basta per raggiungere gli obiettivi
politici: l’ONU non vuole soggiacere ai desideri USA senza porre
condizioni? Ecco pronta la nomina di John Bolton come ambasciatore USA
all’ONU, un politico il quale ha sempre dichiarato che – se
dipendesse da lui – l’ONU non esisterebbe nemmeno. Sarebbe come
inviare un macellaio per organizzare la gestione degli animali
abbandonati.
Powell era un generale, un repubblicano convinto, ma
rimaneva pur sempre un generale che operava come Segretario di Stato,
ossia il Ministro degli Esteri USA: perché non fu riconfermato per il
secondo mandato di Bush?
E’ facile immaginare che, già prima del 2004, qualche generale avesse
iniziato a premere per una ritirata “onorevole” dall’Iraq, e se
c’era una persona che poteva comprendere la situazione non era certo
Rumsfeld ma Powell che di guerra, morale delle truppe e quant’altro se
n’intendeva.
La risposta alle apprensioni di Powell fu semplice: il suo posto fu
preso da Condoleeza Rice – che non sa nulla di questioni militari –
giacché servì sotto Bush senior con la qualifica di “sovietologa”
(?), mentre prima non aveva fatto altro che la dirigente alla Chevron.
Allora: petrolio, politica estera od armi?
In teoria, un buon Ministro degli Esteri dovrebbe conoscere bene questi
ed altri argomenti ma nulla – che possa essere inteso dagli atti della
Rice – consente di confermare questa premessa.
Questi aspetti si sposano perfettamente con tutta la
“allegra brigata” che comanda negli USA: da Cheney che pensa
soltanto ai proventi delle sue società di supporto all’industria
petrolifera a Wolfowitz, inviato alla Banca Mondiale per cercare di
salvare i destini del dollaro. I soldati? E chi se ne importa.
Nessuna di questa persone è in grado di valutare con saggezza gli
equilibri strategici: vivono in una sorta di Limbo dove – in modo
assolutamente auto-referenziale – ritengono che basti la potenza di
fuoco della macchina da guerra americana per risolvere a loro favore
qualsiasi conflitto.
La “rivolta” dei generali è un segnale che qualsiasi politico
dovrebbe cogliere ed invece stanno dimostrando nei fatti di volerla
ignorare, come Berlusconi non riesce a comprendere d’aver perso le
elezioni: non a caso il Silvio nazionale considera il George d’oltre
oceano un “amico fraterno”.
La differenza fra le due situazioni, però, non è cosa di poco conto:
mentre Berlusconi – quando saranno convocate le Camere – dovrà
soltanto svegliarsi dal sogno ed emettere una dichiarazione di facciata,
per Bush essere avvertito che le truppe in Iraq stanno cedendo sarà un
incubo terrificante, nel quale avrà trascinato milioni di famiglie
americane.
Carlo Bertani bertani137@libero.it
www.carlobertani.it
1
Sulla reale pericolosità del programma nucleare iraniano potrete
trovare analisi più approfondite in precedenti articoli apparsi su
Disinformazione, in particolare ne “Il canto degli ayatollah” ed in
“Perché gli USA vogliono ad ogni costo attaccare l’Iran?”.
2
E’ utile, all’uopo, rivedere ed analizzare attentamente un grande
film di Stanley Kubrik – Full Metal Jacket – che, a
differenza d’alcuni tratti retorici di Apocalypse now, mette il
dito nella piaga sui metodi di formazione ed addestramento dei militari
USA. Ciò non toglie, ovviamente, valore ad Apocalypse now per
altri aspetti, ossia sulla reale tragedia della guerra, che non può
essere altro che “sporca”.
3
La tesi è sostenuta con precise citazioni da Giorgio Galli nel suo Hitler
ed il nazismo magico.
4
In questo contesto l’analisi dovrebbe essere senz’altro più
approfondita e prendere in esame anche le diverse tattiche che
dipendevano dai nuovi mezzi (tank, aerei, ecc), ma
5
Ernesto “Che” Guevara: La guerra di guerriglia, Feltrinelli.