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Produrre
più energia o risparmiare nei consumi energetici?
di Carlo Bertani
William
Shakespeare – I due gentiluomini
di Verona – Atto Secondo, Scena III
Quando
ci troviamo di fronte ad una carenza di beni le possibili soluzioni sono
due: o riduciamo i consumi od aumentiamo le entrate; se il prezzo delle
banane va alle stelle, possiamo rinunciare al fragrante frutto oppure
cercare un secondo lavoro per gustare la macedonia.
Anche nel settore dell’energia la scelta è la stessa: a fronte
dell’iperbolico aumento del prezzo dei combustibili fossili, possiamo
rinunciare a qualcosa oppure lavorare di più per continuare ad
acquistare le stesse quote d’energia.
Ad essere più precisi, bisogna considerare che il petrolio è in via
d’esaurimento (40 anni circa) e quindi – tornando in metafora – già
sappiamo che dovremo, in futuro, rinunciare alle banane: tanto varrebbe
iniziare a considerare una macedonia di fragole e mele, che non è certo
da buttar via.
Uno dei principali dibattiti del mondo ambientalista verte proprio su
questo dilemma: ridurre i consumi energetici od aumentare la produzione?
E’
un dibattito che rischia spesso di diventare strumentale e sterile,
oppure paralizzante per chi – in un modo o nell’altro – deve far
in modo che non manchi la corrente per azionare la lavatrice.
Il
risultato del dibattito si perde quasi sempre nel mantenimento dello status
quo, ovvero: visto che non siamo d’accordo su come risolvere il
problema, continuiamo come sempre. Business
is usual.
Quel
“continuiamo così” è ciò che ci ha condotti ad essere il fanalino
di coda – in Europa – per le soluzioni adottate in campo energetico.
Il petrolio è più caro? Italiani: spostate la fibbia di un buco.
“Sforiamo” i limiti imposti dal Protocollo di Kyoto e dobbiamo
pagare salate multe? Spostate la fibbia di un altro buco.
La paralisi politica italiana è evidentissima perché non si riesce ad
aumentare la produzione d’energia senza ricorrere al carbone – non
volendo incentivare le fonti rinnovabili e, quindi, mettendoci nei guai
con gli impegni di Kyoto – e non si capisce come si possono ridurre i
consumi, a patto di tornare al cavallo (non sapendo, poi, come
nutrirlo).
Esistono poi delle posizioni che potremmo definire neo-luddiste[1],
ovvero: la società consumistica è uno schifo, bisogna tornare alla
vita in campagna ed al calesse, eccetera eccetera. Parallelamente,
scopriamo poi che la gran parte di questi difensori “duri e puri”
dell’ambiente possiede tre automobili, cinque televisori ed il
climatizzatore in ogni stanza.
La
domanda è allora: possiamo ridurre i consumi energetici senza
rinunciare al nostro tenore di vita e salvaguardando l’ambiente?
La risposta è positiva, a patto di condire il dibattito con un bene che
sta iniziando a scarseggiare: una buona dose d’intelligenza.
Esistono interventi di tipo individuale – come l’utilizzo di lampade
a basso consumo, doppi vetri per l’isolamento termico gli ambienti,
automobili che consumano meno carburante – ma questi sono interventi
che tutti mettiamo in atto per risparmiare qualche euro, senza che
nessuno ci debba indicare come attuarli. Se non lo facciamo da soli,
quando arrivano le bollette di luce e gas ci pensano gli altri a
ricordarcelo.
Il resto, purtroppo, non dipende dalle scelte individuali ma da quelle
collettive, ovvero dalla politica: per quanto attiene al risparmio
energetico, la classe politica sa quali sono gli interventi da attuare?
Qualcuno ha analizzato il problema? In altre parole, sanno oppure
brancolano nel buio?
Le analisi esistono, e provengono addirittura da settori dello Stato:
vediamo qualche esempio.
Sappiamo che la produzione d’anidride carbonica è proporzionale alla
combustione dei fossili, di conseguenza – tralasciando per ora
l’efficienza energetica – chi utilizza più energia produce più CO2.
Il
grafico[2]
indica che le emissioni di CO2 in Italia sono diminuite nel
settore manifatturiero (a causa della contrazione della grande
industria), sono aumentate di poco negli altri settori (fra i quali le
utenze civili, a dimostrare che se si è toccati nel portafogli
s’aguzza l’ingegno), mentre le vere “sanguisughe” d’energia
sono le industrie energetiche (+11,7) ed i trasporti, addirittura +22,7.
Alla faccia del Protocollo di Kyoto.
Se le
industrie energetiche sono in questa triste situazione a causa del grave
ritardo italiano nello sviluppo delle fonti rinnovabili, dovremmo
domandarci quali sono le cause del +22,7% dei trasporti. La classe
politica non sa nulla?
Difficile sostenerlo, perché a segnalare il problema fu proprio una
delle più alte istituzioni della Repubblica, ovvero la Corte dei Conti.
Osserviamo le conclusioni della Suprema Corte Contabile dello Stato.
Giovedì
7 agosto 2003 la Corte dei Conti italiana diffuse un comunicato nel
quale affermava che il Piano per il Trasporto Intermodale, varato nel
1986 e finanziato nel 1990, era sostanzialmente fallito.
I dati parlano chiaro: contro una media europea del 44,5%, il trasporto
italiano su gomma ha ancora un’incidenza del 67% sul totale.
Riportiamo
fedelmente le conclusioni alle quali giunse la Corte:
La
domanda di mobilità
Il
quadro attuale dei volumi di traffico conferma l'assoluta prevalenza del
trasporto su strada, sia nel traffico merci (oltre il 60%) che in quello
passeggeri (oltre l'85%), con alcune importanti peculiarità:
Un'elevata concentrazione di traffico su alcune direttrici stradali. Il
60 % circa dei flussi extraurbani si concentra su appena il 2% della
rete stradale e autostradale.
Una squilibrata distribuzione territoriale della domanda di trasporto
stradale, concentrata per oltre la metà in cinque Regioni: Piemonte,
Lombardia, Liguria, Veneto ed Emilia Romagna.
Un'elevata quota di movimentazione delle merci su brevi e medie distanze
(il 75% dei viaggi si svolge entro i 200 km) a causa della notevole
polverizzazione della struttura produttiva e commerciale.
Lo squilibrio modale a favore della strada assume dimensioni maggiori
rispetto ad altri Paesi europei sia nel segmento delle merci che in
quello dei passeggeri in ambito urbano. Per i passeggeri si è assistito
ad una continua diminuzione della quota del trasporto su ferro, a cui
fanno riscontro i consistenti aumenti di quella su strada, aereo e su
mezzi collettivi su gomma. Resta marginale la quota di traffico
assorbita dal cabotaggio marittimo (intorno allo 0,6%). La prevalenza
del trasporto stradale è particolarmente accentuata nelle aree urbane,
ove si registra la progressiva caduta della domanda di trasporto
pubblico. Anche nel caso delle merci si registra una diminuzione
costante negli ultimi venticinque anni della quota su ferro che
attualmente si attesta sul 13-14%.
Verrebbe
da chiedersi: ci sono orecchie che ascoltano? All’estero, come vanno
le cose? L’Unione Europea cosa raccomanda?
In Germania, circa il 25% delle merci viaggiano su fiumi e canali, un
altro 25% in ferrovia ed il restante 50% circa su autocarri. Nella
maggior parte dei paesi centro-europei la situazione è simile.
In Italia, la navigazione fluviale sposta lo 0,1% delle merci, il
cabotaggio marittimo lo 0,6%, la ferrovia circa il 13% ed il trasporto
su gomma tutto il resto.
Tralasciando le considerazioni sul traffico caotico su strade ed
autostrade, dallo squilibrio nasce un problema d’efficienza,
energetica ed economica.
Un treno merci può trasportare l’equivalente di circa 40 autotreni,
mentre la nave fluviale assorbe il carico di ben 85 autoarticolati!
Per noi italiani c’è un grande buco nero: cos’è una nave fluviale?
Una chiatta? Una bettolina fluviale? Niente di tutto ciò.
Per uniformare le dimensioni dei natanti che navigano nelle acque
interne, l’UE ha stabilito l’unificazione delle imbarcazioni
commerciali in un unico modello, definito “nave fluviale/marina del
tipo 5°”, fissando precise dimensioni: 11,4 m di larghezza, 109 m di
lunghezza ed una portata massima di 2.000 tonnellate. Le dimensioni sono
state attentamente studiate per ottenere il massimo rapporto
benefici/costi, ovvero aumentare il carico trasportabile considerando
però le caratteristiche della rete fluviale, le dimensioni delle
chiuse, dei passaggi obbligati, ecc.
Una
nave fluviale/marina mantiene una velocità media di 10 nodi nelle acque
interne e circa il doppio in mare: possiede un apparato motore di circa
2.000KW, carica 2.000 tonnellate ed ha al massimo una decina d’uomini
d’equipaggio.
Un autoarticolato ha un motore che sprigiona circa 370 KW, carica 27
tonnellate ed ha un solo autista.
Per quanto attiene al consumo di carburante, sono necessari 1000 kg di
combustibile per spostare 50 tonnellate di merci su strada per una
tratta di 1000 chilometri, che scendono a 515 Kg per la ferrovia e si
riducono ulteriormente a 394 Kg per il mezzo navale.
Se invece consideriamo l’apporto umano, il rapporto fra tonnellate
spostate ed addetti è il seguente: 27 per l’autoarticolato, circa 160
per il treno e 200 per la nave.
Una nave fluviale/marina sposta quindi 85 volte ciò che può portare
l’autoarticolato, richiede 1/8 del personale ed il 40% del
combustibile.
Da anni l’Unione Europea batte su questo tasto, e tutti i dati
riportati sono stati tratti da documenti ufficiali dell’UE[3].
C’è una precisa indicazione per l’Italia? Certo.
Il trasporto per via
navigabile è il naturale alleato del trasporto marittimo. Esso assume
un ruolo di crescente importanza per i grandi porti del Mare del Nord
che spediscono e rispediscono per tale via gran parte del proprio
traffico container. In alcuni dei paesi non legati alla rete nord-ovest
europea, gli esistenti bacini, in particolare quello del Rodano, del Po
e del Douro, presentano un interesse crescente in termini di navigazione
regionale ma anche di trasporti fluviali-marittimi, che hanno visto
crescere la propria importanza grazie anche ai progressi tecnici
realizzati nella progettazione di navi in grado di navigare tanto in
mare aperto che sui fiumi[4].
Navigare
il Po? Oh bella, nessuno ci aveva pensato: dobbiamo ricorrere a
Bruxelles che ce lo ricorda?
In realtà, noi italiani abbiamo sempre navigato le acque interne, ma lo
abbiamo scordato. La costruzione dei canali iniziò a Milano intorno al
1150, prima come opera difensiva, poi – con il Naviglio Grande –
come collegamento fra il Lago Maggiore e la città. A metà del ‘400
il sistema dei navigli collegava ormai tutta l’area milanese (dal
bergamasco al Lago Maggiore) con Pavia. Nel 1819 – infine –
l’Arciduca Ranieri d’Austria inaugurava la navigazione fluviale dal
Lago Maggiore – via Milano, Pavia, Po, Mare Adriatico – fino a
Venezia. Il passo successivo sarebbe stato collegare l’Adriatico con
il bacino del Danubio ed i suoi affluenti (Drava, Sava, ecc): difficoltà
finanziarie e politiche posero fine al progetto. Parallelamente, erano
navigati i fiumi ed i canali veneti, l’Arno ed il Tevere fino al Ponte
Garibaldi (all’altezza del quartiere Portuense):
sembra fantascienza, eppure così risolvevano il problema del trasporto
i nostri bisnonni.
Perché
si preferivano i fiumi alle strade? La ragione è semplicissima: su un
carro trainato da buoi – sulle strade dell’epoca – potevano essere
trasportati pochi quintali, su un natante alcune tonnellate.
La
fine del sistema idroviario italiano giunse con l’unificazione, che
coincise con la stagione dell’espansione ferroviaria: grandi banche
europee (si distinsero i Rothschild)
concessero finanziamenti per l’espansione delle ferrovie, giacché si
trattò di una vera e propria cornucopia per gli investitori.
Con il
‘900 giunsero le grandi guerre, vinte o perse, che assorbirono enormi
risorse: fra le due guerre mondiali l’espansione coloniale condusse ad
investire nella flotta marina, mentre la successiva ricostruzione
post-bellica concentrò le sue attenzioni dapprima sulla ferrovia, ed in
un secondo momento sulla rete autostradale.
Si trattò – in definitiva – di una dimenticanza associata a
negligenza: la marina fluviale svizzera (sic!) sposta sulle acque
interne lo 0,3% delle merci, quella italiana (che, in pratica, non
esiste) lo 0,1%.
Se la Corte dei Conti afferma che la domanda di trasporto – per il 50%
– è nella valle padana, ci potrebbe saltare in mente che proprio lì
– guarda a caso – scorre il Po. Difatti, l’UE lo fa notare.
Qualche forza politica spende una parola sull’argomento? Silenzio.
L’UE è addirittura disposta a finanziare il 50% delle spese di
progetto ed il 10% dei costi d’intervento: perché nessuno ne parla?
Fiume | Portata
in magra (m3/s) |
Portata
media (m3/s) |
Portata
massima (m3/s) |
Danubio | 1000 | 6400 | 16000 |
Reno | 500 | 2200 | 10000 |
Rodano | 600 | 1700 | 11000 |
Po | 420 | 1470 | 12000 |
Senna | 30 | 350 | 2400 |
Forse
qualcuno ritiene che il Po non può essere navigato? Siamo contenti di
poterlo smentire dati alla mano[5].
Come si può notare, i dati idrometrici
del Po sono sensibilmente superiori a quelli della Senna, che molti di
noi avranno osservato che viene navigata. Addirittura, i valori sono
simili a quelli del Rodano e del Reno che – in Germania – è una
vera e propria “autostrada fluviale”. Il problema è risistemare
l’alveo del fiume per renderlo navigabile alle nuove navi del tipo 5°
e, parallelamente, curare le opere ausiliarie: chiuse, bacini, ecc.
Quanto
costerebbe? Nulla che non sia alla portata delle nostre smunte finanze
pubbliche, giacché il Consorzio Navigare sul Po stimò le spese necessarie per risistemare la parte
bassa del bacino – collegando Milano ed il Lago di Garda al mare –
in circa 400 miliardi di vecchie lire nel 2000 che, attualizzati,
potrebbero diventare circa 300 milioni di euro.
Con 500 milioni di euro sarebbe possibile rendere navigabile il fiume
fino a Casale Monferrato, a 100 chilometri da Torino: 500 milioni di
euro, distribuiti in cinque esercizi finanziari, rappresentano 100
milioni di euro l’anno (ai quali vanno sottratti i contributi
europei). Ricordiamo che per il Ponte sullo Stretto di Messina è
previsto un investimento di 6 miliardi di euro.
Perché le opere fluviali costano poco? Soprattutto perché vengono
movimentate masse di terra, e non di cemento,
sensibilmente più costose: si tratta, sostanzialmente, della
manutenzione che viene tuttora svolta dalle draghe fluviali nella laguna
veneta.
I
vantaggi?
Le merci dell’intero bacino adriatico potrebbero giungere, con una
sola tratta marittima/fluviale, a Riva del Garda (in provincia di
Trento!): lì, potrebbero essere trasbordate su treno verso i mercati
dell’Europa Centrale. I pomodori raccolti nel foggiano potrebbero
giungere in 48 ore sui banchi dei supermercati di Francoforte, le arance
siciliane in tre giorni.
Le merci in partenza da Milano non intaserebbero più le autostrade,
bensì scenderebbero il Po e potrebbero proseguire per le destinazioni
italiane, oppure essere trasbordate (in container) sulle grandi
portacontainer oceaniche.
Molti porti minori – oggi usati solo per la pesca ed il diporto –
avrebbero le caratteristiche per fornire scalo alle navi fluviali/marine
che, contrariamente alle grandi portacontainer, necessitano di minor
spazio e pescaggio.
Il
trait d’union – laddove
non esistono fiumi o canali navigabili – sarebbe la ferrovia,
anch’essa economicamente ed energeticamente vantaggiosa rispetto alla
strada. La programmazione europea considera la strada solo come il
vettore finale – ovvero le tratte inferiori ai 50 Km – mentre in
Italia si vuol costruire un ciclopico ponte per percorrere in autostrada
la tratta Trapani – Milano (circa 1.500 Km) con il mezzo più costoso
ed inquinante: l’autotreno.
Se i vantaggi ecologici della navigazione fluviale sono evidenti per il
risparmio energetico, non dobbiamo sottovalutare un secondo aspetto:
laddove i fiumi sono navigati si cura la manutenzione grazie ai fondi
attivi creati dai pedaggi pagati per l’attraversamento delle chiuse,
ecc. In questo modo, il fiume si trasforma da fogna a cielo aperto ad
importante via di comunicazione, e grazie ai fondi reperiti è possibile
curare la manutenzione dell’alveo, delle sponde, degli argini, delle
acque, ecc.
Addirittura, i fiumi curati si trasformano in produttori d’energia: i
russi – che possiedono una rete fluviale di ben 105.000 Km –
ricavano ogni anno 50.000 MW d’energia dalle cadute d’acqua minori,
il cosiddetto “piccolo idroelettrico”. La produzione d’energia dai
fiumi, però, non può avvenire se non c’è un’assidua cura degli
stessi, e torniamo da capo.
Spesso ci raccontano che l’incremento dei prezzi – in Italia – è
dovuto alla cosiddetta “filiera” delle merci: più è lunga ed
articolata, più aumentano i costi.
Il trasporto fluviale comporta una diminuzione d’almeno il 3% dei
costi primari[6],
ovvero energia e personale ma, soprattutto, riduce enormemente gli
“attori” della “filiera”, razionalizzando la distribuzione delle
merci. Se un misero 3% può sembrare poco, ricordiamo che gli aumenti
contrattuali annui nel pubblico impiego non superano il 2,6%.
Tutto
ciò non viene attuato per pura dimenticanza?
No, c’è dell’altro.
Nel 1999 venne privatizzata la Società Autostrade, che è attualmente
quotata in Borsa fra i principali titoli, nel cosiddetto “MIB-30”.
Come vanno gli affari per la società? Bene, anzi, benissimo: chiude i
bilanci con ampio utile (223 milioni di euro nel 2003) e diminuisce
costantemente il personale dell’1% annuo, grazie ai sistemi automatici
di riscossione dei pedaggi. Ebbene, mentre il traffico leggero
(autovetture) aumenta “solo” dell’ 1,7% annuo, il traffico merci
(autocarri) fa un balzo del 3,6% annuo, ben superiore all’incremento
del PIL[7]!
Sicuramente da quelle parti non si sente mai parlare di canali, fiumi e
ferrovie.
Il prossimo governo leggerà le indicazioni che – soltanto due anni or
sono – un’allarmata Corte dei Conti cercava di presentare, oppure
farà “orecchie da mercante” per non investire 100 milioni di euro
l’anno e risolvere il 50% dei problemi di trasporto del Paese?
Tornare al fiume significherebbe risparmiare il 3% sui prezzi (più di
un anno d’inflazione!), trasformare Milano, Casale Monferrato, Pavia,
Pisa, Treviso ed altre città in porti fluviali. Vorrebbe dire dimezzare
il traffico d’autotreni sui percorsi autostradali, risparmiare
combustibili e smetterla con i TIR che devono correre oltre i limiti di
legge per essere competitivi, mettendo a rischio la vita degli autisti e
di noi tutti.
Le nazioni che navigano fiumi e canali hanno inoltre una considerevole
attrattiva turistica: molti europei scelgono di trascorrere le vacanze
noleggiando house boat o piccole barche, ammirando il paesaggio da una
prospettiva nuova; senza rumore, traffico, ingorghi.
Mi
piacerebbe vivere in un paese dove si curano fiumi e canali – per la
navigazione commerciale e da diporto – e ritengo di non essere
l’unico ad immaginare di tornare a dialogare con fratello fiume, come direbbe San Francesco.
Cosa manca? Un po’ d’intelligenza, di fantasia e la solita dose di
buon senso. Già Cartesio affermava che “Il buon senso non è stato
distribuito dal buon Dio a piene mani…” Buon vecchio René, se da
lassù potessi far qualcosa…nell’attesa, possiamo farlo sapere noi a
chi di dovere!
ufficiostampa.prc@rifondazione.it
(Rifondazione Comunista) berlenghi_t@camera.it
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(SDI) sede@margheritaonline.it
(Margherita) italiadeivalori@antoniodipietro.it
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(UDEUR) ballaro@rai.it (Ballarò)
comunicazione@uni.net
(Unione)
Carlo
Bertani bertani137@libero.it
www.carlobertani.it
[1]
Luddismo: movimento operaio inglese
di rivolta contro l’introduzione delle macchine nell’industria,
che ritenevano responsabili dell’aumento della disoccupazione
(sec. XVIII – XIX).
[2]
Fonte: APAT, Agenzia per
[3]
Fonte principale: Libro Bianco:
La politica europea dei
trasporti fino al 2010: il momento delle scelte.
[4]
Fonte: Libro Bianco:
La politica europea dei
trasporti fino al 2010: il momento delle scelte.
[5]
Fonte: Consorzio Navigare
sul Po.
[6]
L’aumento dei prezzi nel passaggio
dalla produzione all’ingrosso è in Italia circa del 5%, mentre in
Germania si ferma al 2%: questo è il segmento della “filiera”
dove incide maggiormente il trasporto.
[7]
Fonte:
Relazione sul primo trimestre 2004 del gruppo autostrade (7 maggio
2004).