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Più
profitti, meno costi
Francesco
Gesualdi – “Acquisti consapevoli”
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Constatato
che il mercato mondiale è piccolo e che non ha prospettive di
espansione immediata, fra le multinazionali si è scatenata una
concorrenza feroce per portarsi via i clienti.
Un metodo infallibile per conquistare il mercato è la diminuzione dei
prezzi, ma questa scelta ha l'inconveniente di far diminuire i profitti,
a meno che non si riesca a far diminuire anche i costi di produzione.
Ecco perché oggi non si parla d'altro che di competitività, in nome
della quale le imprese hanno ottenuto che si giungesse anche alla
globalizzazione della produzione. Ciò significa che il mondo non è
stato trasformato solo in un unico mercato, ma anche in un unico grande
spazio produttivo all'interno del quale le imprese possono spostare la
produzione nel paese che offre più vantaggi.
Il costo che varia di più da un paese all'altro è sicuramente
quello del lavoro, con differenze che vanno anche da 1 a 57. Nel settore
dell'abbigliamento, ad esempio, mentre in Italia un'ora di lavoro di un
operaio costa 15,60 dollari, in Indonesia costa solo 27 centesimi. Ecco
perché tutte le attività produttive ad alta intensità di mano
d'opera, come la produzione di scarpe, vestiti, giocattoli,
microcircuiti, si spostano sempre di più verso i paesi a basso reddito.
In
Europa dell'Est, ad esempio, dove c'è una forza lavoro con profili
professionali qualificati, un'ampia libertà di inquinare e un grande
parco industriale messo in vendita, le multinazionali si sono
precipitate a comprare industrie in cui trasferire la produzione di
manufatti di tipo meccanico, alimentare o chimico. L’India, invece,
sta diventando il paese dove le multinazionali stanno trasferendo i loro
centri di calcolo amministrativo perché questo paese dispone di molti
laureati che si accontentano di salari molto più bassi dei loro
colleghi europei o americani. Del resto, attraverso i computer ogni
informazione elaborata a Bangalore o a Bombay può essere letta in tempo
reale a Zurigo, New York o Londra.
Tuttavia il grosso della produzione che viene trasferita nel Sud del
mondo si riferisce a mansioni ripetitive che richiedono poca tecnologia.
Per questo i settori più coinvolti sono quello tessile, elettronico,
calzaturiero e dei giocattoli.
Un metodo di trasferimento produttivo molto utilizzato dalle
multinazionali è l'appalto, tant'è che certe multinazionali si sono
disfatte completamente della parte produttiva. Su questo, Nike ha fatto
storia.
La Nike è la più grande società del mondo di scarpe sportive. Vende
circa 100 milioni di paia di scarpe per un fatturato totale di 10,7
miliardi di dollari. Fondata nel 1964 da Philip Knight, già studente e
podista dell'università dell'Oregon, oggi essa controlla il 34% del
mercato mondiale.
Il
quartier generale della Nike si trova a Beaverton, nell'Oregon, in una
serie di basse palazzine, ciascuna delle quali reca il nome di celebrità
sportive come Michael Jordan, Joan Benoit, John Mc Enroe, Alberto
Salazar e altri, che hanno avuto un ruolo pubblicitario fondamentale
nello spingere Nike verso il successo.
Da questo complesso, circondato da ciliegi giapponesi che valgono un
milione di dollari, i funzionari della ditta dirigono la fitta rete
produttiva sparsa in tutto il mondo. Ma in realtà, Nike non produce
proprio nulla. Essa progetta le scarpe, le fa produrre ad altri e le
rivende. In effetti, se esaminiamo la storia di un qualsiasi paio di
scarpe sportive, ci accorgiamo che tutto comincia nell'ufficio
progettazione della Nike, della Reebok, dell'Adidas, della Fila o di
un'altra grande multinazionale, dove squadre di sociologi, psicologi,
pubblicisti e ogni altro genere di esperti progettano un nuovo prodotto
che la pubblicità penserà a rendere popolare.
Appena il modello è pronto, inizia la ricerca di un'azienda estera
disposta a realizzare la produzione desiderata e viene firmato un
contratto con quella che richiede il prezzo più basso. Ciò spiega
perché su un totale di 600.000 persone che nel 2003 lavorano per Nike,
solo 23.000 sono suoi dipendenti diretti. Tutti gli altri sono alle
dipendenze di imprese appaltate.
Fino al 1990, il paese preferito per trasferire la produzione in appalto
era la Corea del Sud. Nel 1988, ad esempio, ben il 68% di tutte le
scarpe Nike proveniva da questo paese.
Ma nel 2003 troviamo che la quota della Corea del Sud è scesa sotto
l'1%. Viceversa quella della Cina, dell'Indonesia, e della Thailandia è
passata, complessivamente, dal 10 all'81 %.
La ragione di questa variazione sta nei salari. Nonostante venti anni di
industrializzazione vissuta nella repressione, gli operai sudcoreani e
di Taiwan sono riusciti ad organizzarsi e a portare i loro salari a
livelli che oggi sono 25 volte più alti di altri paesi asiatici.
COSTO
ORARIO DEL LAVORO NELL'INDUSTRIA DELUABBIGLIAMENTO (2002)
Paese
Dollari
INDONESIA
0,27
CINA
0,75
MALAYSIA
1,41
HONG
KONG
6,15
THAILANDIA
0,91
FILIPPINE
0,76
COREA DEL SUD
5,73
TAIWAN
7,15
INDIA
0,39
Fonte:
United State International Trade Commission, 2004.
Le
conquiste ottenute dai lavoratori della Corea del Sud e di Taiwan non
sono piaciute alle multinazionali che hanno subito cominciato a cercare
altri paesi in cui trasferire la produzione. Naturalmente di paesi con
salari molto bassi ce n'erano tanti, ma il problema era che in essi non
esistevano ditte solide a cui appaltare la produzione. La soluzione è
venuta dalle stesse società sud-coreane, di Taiwan e di Hong Kong che
già producevano in appalto. A loro non importava niente di rimanere nei
loro paesi di origine e, pur di continuare ad avere le commesse delle
multinazionali, erano disposte ad aprire nuovi punti produttivi dove la
mano d'opera costava meno.
Così le società della Corea del Sud, di Taiwan e di Hong Kong si sono
a loro volta trasformate in multinazionali che investono soprattutto nei
paesi del Sud del mondo. Fra loro è sorta una specie di spartizione
geografica. Le società di Hong Kong, ad esempio, investono
massicciamente in Cina; quelle di Taiwan in Vietnam, quelle della Corea
del Sud in Indonesia e America Centrale.
Alcuni hanno definito queste società "multinazionali ombra"
perché raramente vengono a contatto con i consumatori. Altri le
definiscono "multinazionali-sicarie" perché svolgono i
compiti "sporchi" al posto delle multinazionali commerciali
che non vogliono compromettere la loro immagine con metodi produttivi
sgraditi ai consumatori.
In
effetti, le società dell'Estremo Oriente sembrano non avere nessuno
scrupolo a maltrattare i lavoratori e l'ambiente. Esse sono alla ricerca
spietata di profitto e il loro disprezzo per i lavoratori è dimostrato
non solo dalla assoluta noncuranza per le misure di sicurezza, ma anche
dai metodi brutali con cui trattano le maestranze.
Un rapporto pubblicato da Oxfam nel 2004 conferma che le
fabbriche del Sud del mondo continuano ad essere un inferno. Ecco la
testimonianza di Plian, una lavoratrice thailandese di 22 anni, che cuce
abbigliamento sportivo per Puma:
"Ogni
giorno lavoriamo dalle 8 fino a mezzogiorno, poi facciamo pausa per il
pranzo. Dopo pranzo lavoriamo ancora dalle 13 alle 17. Dobbiamo fare gli
straordinari tutti i giorni, a partire dalle 17:30. Durante la stagione
di punta lavoriamo fino alle 2 o alle 3 di notte. Dobbiamo sempre
lavorare per due interi turni. Anche se siamo sfinite, non abbiamo
scelta. Non possiamo rifiutare il lavoro straordinario perché i nostri
salari di base sono bassissimi. A volte vogliamo riposare, ma il nostro
datore di lavoro ci costringe a lavorare.
Guadagno
circa 50 dollari al mese, ma pago 3 dollari per l'elettricità, l'acqua
e il dormitorio. Poi, pago 3 dollari per il riso. Inoltre il datore di
lavoro ci chiede 7 dollari al mese per la tassa di registrazione dei
lavoratori. Così, mi rimangono per vivere solo 35 dollari. In alcuni
mesi, durante la bassa stagione in cui guadagno meno, mi rimangono solo
30 o 40 centesimi al mese.
Mi piacerebbe chiedere condizioni di lavoro migliori. Però pensiamo di
non essere in grado di pretendere salari più alti, previdenza sociale e
riconoscimento legale".
L'esperienza di
Phan è analoga a quella di migliaia di lavoratori nell'industria
mondiale dell'abbigliamento sportivo. Nelle interviste con i lavoratori
in sette diversi paesi, ritornano costantemente racconti di orari di
lavoro eccessivi, straordinari obbligatori, precarietà lavorativa e
salariale, paghe da fame, negazione del diritto di organizzarsi in
sindacato, danni alla salute, stanchezza, stress mentale, vita familiare
resa difficile. La realtà della vita in una fabbrica di abbigliamento
sportivo, specialmente nei luoghi di lavoro che costituiscono l'ultimo
anello della catena produttiva, è ben lontana dai diritti dei
lavoratori sanciti dalla legge o dagli impegni etici sbandierati da
molte grandi marche dello sport.
Se analizziamo la composizione
del prezzo finale di un paio di scarpe, ci accorgiamo che il lavoro è
la voce che incide di meno con un esiguo 1,4%. Per contro la pubblicità
rappresenta il 5,7%. Per la verità le somme spese dalle multinazionali
in pubblicità sono da capogiro. Ad esempio, nel 2003 Nike ha speso in
pubblicità più di un miliardo di dollari pari a circa il 10% del suo
fatturato.
Una
discreta percentuale della spesa pubblicitaria è destinata alle
sponsorizzazioni. Le grandi multinazionali fanno a gara fra loro per
offrire ai campioni sportivi milioni di dollari affinché indossino i
loro abiti e calzino le loro scarpe. Ad esempio, nel 2003, Nike si è
impegnata a dare a James Le Bron, un diciottenne campione di basket, 90
milioni di dollari in sette anni. Nel complesso Nike ha centinaia di
atleti sotto contratto, i più famosi dei quali sono James Le Bron, Kobe
Bryant e Tuger Woods.
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