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Privatizzazione
dell'acqua
Francesco
Gesualdi -
2 dicembre 2009
Mentre Giulio Tremonti dava lezione all'università di Shangai e stupiva i capi del partito comunista cinese con le sue bordate contro il mercatismo e lo strapotere bancario, a Roma il Parlamento italiano, sotto ricatto dell'ennesima fiducia posta dal governo di cui Tremonti è ministro, approvava il cosiddetto decreto Ronchi che fissa un altro pesante paletto sulla strada della privatizzazione dell'acqua. Un decreto di difficile lettura, zeppo com'è di rimandi a leggi precedenti e di vocaboli astrusi, incomprensibili perfino ai parlamentari che l'hanno votato. L'unica cosa certa gli scopi: da una parte mettere in riga i comuni che si ostinano a gestire l'acqua tramite società a totale capitale proprio, dall'altra assicurare alle imprese private margini d'affari più ampi.
Il tutto tramite due provvedimenti chiave: decadenza al
dicembre 2011 di ogni contratto di affidamento stipulato con società
formate al 100% da capitale pubblico, a meno che non cedano il 40% del
loro capitale; decadimento al dicembre 2012 di ogni contratto di
affidamento stipulato con società miste, pubblico-privato, quotate in
borsa, a meno che la quota di capitale pubblico non scenda sotto il 30%.
“Basta con situazioni in cui ogni comune fa come vuole – sembra dire
il decreto – d'ora in avanti tutti devono uniformarsi allo stesso
metodo di gestione.” Per
la verità i regimi previsti
sono due:
1. affidamento dell'acquedotto
a una società scelta tramite gara, vince quella che indipendentemente
dalla sua formazione del capitale e la sua nazionalità, offre
condizioni più vantaggiose;
2. affidamento dell'acquedotto a società di proprietà dei
comuni, a condizione che la partecipazione venga allargata a un partner
privato scelto tramite gara. Al privato deve essere garantita una quota
di partecipazione non inferiore al 40% e l'affidamento dei compiti
esecutivi.
Dunque, da un punto di vista strettamente societario, il
pubblico non è ancora stato estromesso del tutto, ma da un punto di
vista della gestione è stata affermata in via definitiva la logica
dell'azienda privata. Quella logica da mercante secondo la quale si
vende senza nessuna considerazione sociale e si scarica in tariffa ogni
spesa, comprese quelle per investimenti. Tant'è le associazioni dei
consumatori hanno subito lanciato l'allarme: col nuovo regime le tariffe
aumenteranno mediamente del 30%. Se cresceranno anche in Toscana è
difficile dirlo, probabilmente sì, ogni occasione è buona per
ritoccare i prezzi. Ma in Toscana il nuovo provvedimento non modifica
niente, già da anni l'acqua è gestita secondo i criteri previsti dal
decreto Ronchi. Acque Spa, ad
esempio, la società che gestisce l'acquedotto dell'ATO 2, area pisana,
appartiene per il 55% ai vari comuni del comprensorio e per il 45% ad
Abab (Acque Blu Arno Basso) a sua volta partecipata da Acea, GDF Suez,
Caltagirone, Monte dei paschi di Siena. Al solito i comuni toscani sono
stati i primi della classe in materia di privatizzazione, nonostante il
loro colore politico.
Benché il panorama politico non lasci molti spazi
all'ottimismo, anche i nostri amministratori locali potrebbero
capire che è interesse di tutti fare uscire l'acqua dalla categoria dei
beni a rilevanza economica come se fosse un pasticcino o una cravatta.
Per questo è necessario tornare all'attacco per richiedere ai nostri
comuni di dichiarare l'acqua un bene comune da gestire come diritto. Da
cosa nasce cosa, la storia si può cambiare anche a partire dai piccoli
passi.