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Hezbollah ti riempie il serbatoio, Bush ed Olmert te lo svuotano!
di Carlo Bertani - 7 dicembre 2006

“Quando le nostre azioni non fanno di noi dei traditori, ci rendon tali le nostre paure”
William Shakespeare, Macbeth

Lo so, affermazione eccessiva: perché incolpare due politici di rango se “schiacciamo” un po’ troppo sull’acceleratore? E’ forse colpa d’Israele se i palestinesi non riescono a darsi un governo stabile? Oppure di Capo George Anatra Che Zoppica se in Iraq tutto va storto?
Spicchiamo un salto indietro di qualche mese e torniamo a giugno 2006: bello eh? Sole, caldo, le vacanze che ancora ci aspettavano…e la benzina a quasi 1,40 euro. Maledizione: durante le vacanze ho fatto (come chi di voi si è recato all’estero) lo slalom fra le pompe di benzina di Slovenia, Croazia e Bosnia per “acchiappare” il miglior prezzo…calcolatrice alla mano, fra euro, talleri sloveni, corone croate, marchi bosniaci…

Il minimo che riuscii a spuntare fu uno 0,99 euro in Bosnia, ed al ritorno in Italia la vista di quel “ 1,38” , che voleva essere un richiamo pubblicitario, mi fece sospirare…ah, poter tornare – con una magia – al distributore di Mostar…
Siccome sono centesimi sembra che pesino di meno, ma a fine anno fanno una bella differenza: oggi, la benzina costa circa 1,22 e quasi 20 centesimi in meno sono proprio una bella sommetta.
Percorrete 20.000 Km l’anno con una media cilindrata? Risparmiate circa 235 euro. Con una grossa cilindrata? Sono circa 285 euro. Per 50 euro tanto vale viaggiare in Ferrari: no, in quel caso la differenza sarebbe di circa 650 euro, però è anche vero che chi viaggia in Ferrari non ha tempo da perdere per queste piccolezze.

Ora – per la legge dei vasi comunicanti – se c’è qualcuno che ci guadagna c’è qualcun altro che ci rimette: chi si ritrova – in questo ancor tiepido autunno – coperto di cenci?
Dovremmo fare tutti una bella colletta per il presidente dell’ENI Scaroni: siccome il perfido governo Prodi ha stabilito per editto che i manager pubblici non potranno guadagnare più di 500.000 euro lordi l’anno (sic!), c’è il grave rischio che il poveraccio non riesca ad acquistare i doni di Natale per i pargoli.
Sorvolando sul fatto – del tutto evidente prendendo carta, penna ed una busta paga – che la maggior parte di noi, per guadagnare quella cifra (al netto saranno “solo” 350.000 euro), ci metterebbe “soltanto” 22 anni, c’è da chiedersi come sia avvenuta una simile débacle.

Lo scorso anno – di questi tempi – Tremonti sognava la “tassa sul tubo” per rimpinguare le casse dello Stato: conscio del pericolo che si rischiava una nuova colata di cemento epocale (immaginate legioni di muratori impegnati a nascondere migliaia di chilometri di condotte?), il buon Giulio da Sondrio preferì trasformarla in un prelievo “secco” sui bilanci di ENI ed ENEL. In pratica, una “tangente” governativa: e per quello che manca? Lo metteremo nello “stoppino” a Prodi.
I due colossi dell’energia non protestarono neppure con un flebile lamento: consegnarono le chiavi della cassa al buon Giulio e si voltarono dall’altra parte, intenti a sfogliare le copie di Playboy che il Tremonte aveva portato loro in dono dalla Padania.

Se il petrolio avesse delle “buone annate” come il vino, gli ultimi anni sarebbero da Guinness dei primati: quando mai l’oro nero aveva raggiunto i 75 $/barile?
Il risultato? Per il 2006 è prevista una “bolletta energetica” italiana pari a circa 48 miliardi di euro[1], il valore di due Finanziarie, e l’Italia che fa?
Il Tg1 intervista subito il buon Scaroni per chiedergli lumi: che faremo se i prezzi dovessero continuare a salire?
«Niente paura» è il laconico commento del numero uno dell’ENI: non dovete preoccuparvi di niente, ci pensiamo noi. Anche noi pensiamo a Scaroni quando riempiamo il serbatoio, ma i sentimenti non sono proprio gli stessi.

Soluzioni al problema? Secondo Scaroni non ne esistono perché «l’Italia è priva di fonti energetiche». Il giornalista incalza. Risposta: «Dovremo diversificare, con fonti diverse dal petrolio».
Non fatevi nessuna illusione: quando Scaroni parla di fonti alternative al petrolio non pensa alle rinnovabili e più volte ha affermato, felice, «che in Italia non c’è sufficiente vento per gli aerogeneratori». Domandate al primo ligure che conoscete come si trascorre l’inverno in Liguria: non fa freddo, ma in quanto a vento…
La “diversificazione” – per Scaroni – si chiama carbone e nucleare, non si va oltre.
Certo, c’è il risparmio energetico, ma nessuno deve immaginare che l’energia possa essere prodotta senza le fonti fossili o l’Uranio, altrimenti i nostri bilanci potrebbero soffrirne. Voi non volete, vero, che i buoni azionisti siano in ansia? Smettete di pensare al sole ed al vento ed ingoiatevi la vostra razione quotidiana di fumi velenosi.

Se le cose sono andate abbastanza bene nel 2006, il timore è che nel prossimo futuro non ci siano più i dividendi stratosferici del passato: il prezzo del petrolio langue, è basso, maledizione…come potrò acquistare l’orsacchiotto di peluche per mia figlia?
Mentre solo qualche mese fa l’oro nero raggiungeva i 75 $/barile, oggi viaggia intorno ai 60[2]: che ribasso!
Eppure – in questi mesi – non sono stati scoperti nuovi giacimenti al punto da variare le previsioni sull’esaurimento del petrolio: sul fronte strettamente petrolifero non è accaduto niente di nuovo. Intorno al petrolio, invece…

A quanto ammonta il mancato guadagno della “filiera” del petrolio, se consideriamo una diminuzione di 20 dollari?
Possiamo soltanto fare un calcolo approssimativo, giacché il mercato dell’energia ha più fonti: carbone, gas, Uranio, idroelettrico…
Il prezzo del petrolio, però, funge da “metro” poiché nessuno è tanto fesso da vendere carbone e gas a prezzi stracciati se sa che il corrispondente costo di produzione di un KW con il petrolio è sensibilmente più alto. Si adeguano: ovvio.
Se consideriamo tutto il mercato mondiale dell’energia come petrolio (ossia usando la TEP , Tonnellata di Petrolio Equivalente), potremmo stimare approssimativamente un decremento di 60 miliardi di dollari per ogni dollaro di valore del barile: se fossero 20 sarebbero 1.200 miliardi di dollari, quasi l’intero PIL italiano. Una bella sommetta, niente da dire: prepariamoci al coro dei lamenti ed a fare una ricca colletta per Scaroni, Moratti, Garrone…

Perché l’oro nero ha deciso di scendere di prezzo così, improvvisamente, senza chiedere il permesso a nessuno?
Il prezzo del greggio varia – a parte gli aspetti puramente speculativi e di breve periodo – sostanzialmente per tre ragioni: la stima degli anni di futura estrazione (riserve stimate/consumo annuale), l’incremento stimato per gli anni futuri dei consumi e le tensioni internazionali. Da ultimo, il valore del dollaro.
Mentre per il primo aspetto sappiamo d’aver estratto circa la metà del greggio esistente nel pianeta – e per il futuro non possiamo che aspettarci forti aumenti dei consumi in Oriente – per spiegare le “tensioni” internazionali del petrolio ci vuole più tempo.

Raccontiamo allora due storie, simbiotiche ed antitetiche allo stesso tempo, due vicende per le quali ci siamo preoccupati e che ci hanno svuotato (e, probabilmente, continueranno a farlo) parecchio il portafogli.
La prima è quella di una grande nazione chiamata USA che – con la caduta dell’URSS – eredita il pianeta. Oddio, gestire un pianeta costa e Washington spende parecchio per essere la primadonna della rivista: le sue spese militari sono circa cinque volte rispetto a quelle dei partner europei, mentre la rete consolare, i vari servizi segreti ed i mille programmi “d’assistenza” a stati esteri prosciugano come sanguisughe il bilancio federale.

A fronte di tanto penare, l’economia interna non brilla: mantiene sì un indiscusso primato nei settori delle nuove tecnologie, ma su quelli dei beni di media e bassa tecnologia è una frana. Le automobili americane sopravvivono quasi come se fossero una specie protetta dal WWF, l’agricoltura necessita di (palesi o nascosti) interventi statali, mentre moltissime fabbriche (dai jeans all’elettrotecnica) migrano in Asia ed in Messico per cercare un minore costo del lavoro.
La popolazione, gradualmente, s’impoverisce e non ci sono soldi per incrementare il pallido welfare americano: in questa situazione, che di certo non brilla, s’inseriscono le banche che (un decennio prima rispetto all’Italia) strombazzano ai quattro venti i pagamenti con carte di credito.

Per un popolo come quello americano – abituato a spendere senza risparmiare, ad acquistare al supermercato tutto ciò che viene reclamizzato per poi andare a pranzo al fast food e buttare tutto nella spazzatura – è una sciagura. Per le banche un po’ meno, che si appropriano di beni veri (case, terreni, ecc) a fronte di carta moneta, per giunta elettronica, così non ci sono nemmeno i costi della stampa.
Nel 2000 il bilancio federale americano non franava ancora – ci penserà Bush a portarlo ad un deficit del 5% annuo – ma le famiglie americane sono sempre di più impoverite e zeppe di debiti: alcune stime indicano un indebitamento medio, per famiglia, intorno ai 20.000 dollari.

La necessità di trovare una soluzione viene presentata al nuovo presidente Bush come pressante, ineludibile. Arriva l’11 settembre e si coglie l’occasione al volo.
Se gli USA “non stanno tanto bene”, qualcun altro sta peggio – leggi la Russia – mentre altri ancora stanno cercando di sollevare il capo – Cina ed India – per partecipare al grande banchetto mondiale della ricchezza.
La soluzione “la quadra” – per usare un’espressione cara ai leghisti nostrani – viene trovata con semplicità: due più due fa sempre quattro e non sia mai che in casa USA si sbaglino le addizioni.

Chi sta male – la Russia – potrebbe stare ancora peggio se fosse privata delle sue risorse energetiche, e chi sta cercando di sviluppare il suo apparato produttivo avrà bisogno di un mare d’energia: gli europei? Staranno zitti, perché il petrolio del Mare del Nord sta terminando e dovranno anch’essi genuflettersi di fronte ai pozzi del Golfo Persico.
Possiamo intervenire con le truppe in Georgia, in Siberia, in Cecenia? Lo “zio” Donald – al Pentagono – dice di no: le grandi banche stimano che l’impatto sull’economia sarebbe imprevedibile, inoltre ci sono migliaia di maledette bombe atomiche sovietiche che non si sa che fine faranno qualora la Russia crollasse su sé stessa. Il metodo della rovina totale può essere applicato in Jugoslavia – al massimo troveremo Kalashnikov e lanciarazzi anche dal salumaio sotto casa – ma con le armi atomiche non si scherza: non è forse quella la pietra angolare del nostro dominio militare?

Allora s’inizia dal “ventre molle”, come quando per dare l’assalto al Reich hitleriano si sbarcò in Sicilia.
L’Afghanistan e l’Iraq vanno benissimo: il primo ci consentirà di controllare – con le basi dell’USAF – l’Asia Centrale, con il secondo inizieremo a dare il primo “colpo” ai contratti che Lukhoil (la compagnia ex-sovietica del petrolio) conserva in giro per il pianeta. Ci andrà di mezzo anche la Elf-Total -Fina francese? E chi se ne frega dei francesi.
Per il prossimo mezzo secolo staremo stabilmente seduti accanto al rubinetto mondiale del petrolio e ne controlleremo il flusso: non si tratta di negare l’approvvigionamento a nessuno, ma di far pagare una sonora “tangente” a chi desidera mettere in dubbio il nostro predominio sul pianeta. Vogliono produrre automobili e lavatrici per invadere i nostri mercati? Benissimo, ma le produrranno “consegnandoci” 20 dollari di tangente per ogni barile di petrolio che consumeranno e noi continueremo ad incassare senza far nulla.

Oggi sappiamo com’è (o come sta andando) a finire, ma per capire fino in fondo la vicenda bisogna anche raccontare l’altra storia, quella di chi doveva recitare la parte del tacchino del Ringraziamento.
Quando Putin “eredita” la Russia non c’è nemmeno il kerosene per far volare la flotta aerea di Stato: le navi della marina sovietica sono semi-affondate nei porti e la speranza di vita è calata di botto di cinque anni.
I cinesi stanno un po’ meglio, ma hanno armi decrepite e sanno benissimo che un eventuale scontro con Taiwan (con le portaerei USA dietro l’angolo) sarebbe una sonora batosta. Stanno sì affluendo capitali nella grande Cina, ma non si può far funzionare l’apparato produttivo con il pessimo carbone nazionale: ci vuole il petrolio, tanto petrolio, una montagna d’oro nero da trasformare in oro giallo. L’unica alchimia che sappiamo compiere nel terzo millennio, e che ci sta facendo correre filati verso la rovina.

L’India “par che dorma” – per citare un verso del Francesco da Bologna – ma non dorme affatto: già negli anni ’90, nelle software house indiane si lavora a spron battuto. Tutto il software per il passaggio all’euro viene stilato dagli indiani, così come quello per prevenire un eventuale “millenium bag”. Migliaia d’ottimi ingeneri indiani – che costano meno di 10.000 euro l’anno – scrivono programmi per tutti: addirittura, il noto “Windows installer” porta la firma di un ingegnere indiano.
Per anni si va avanti così, ad imparare: molti anni dopo, il software di Hezbollah si rivelerà migliore di quello israeliano (od americano) ed alcune navi israeliane verranno dapprima ingannate elettronicamente e poi colpite. Niente di nuovo sotto il sole: i vecchi artigiani temevano d’insegnare il mestiere agli apprendisti, poiché sapevano che una volta imparata l’arte avrebbero avuto dei concorrenti in più. Vallo a spiegare a Bush che la globalizzazione ha anche delle controindicazioni: chi fa, impara e domani potrà renderti la pariglia.

I primi anni della presidenza Bush sembrano una marcia trionfale, e potremmo indicare anche una data: il 2 maggio 2003, quando dal ponte di una portaerei dichiara vinta la guerra in Iraq. Anche Hitler – conquistata la Francia – stimava che “l’affare” Gran Bretagna sarebbe stato solo una noiosa appendice.
La paura fa 90, e chi si sente “target” inizia a stringere il sederino: anni di diatribe e di scontri – ideologici e militari fra russi e cinesi in Asia (l’Amur e l’Ussuri degli anni ’70) – vengono cacciati in un angolo per far fronte all’emergenza.
Per un ex alleato che si smarca ( la Libia ) c’è n’è uno “di peso” che chiede d’entrare nel “club”: l’Iran degli ayatollah, quello che considerava blasfemi tutti i discendenti di Lenin.

Già, ma entrare dove? In un club poco conosciuto perché non fa comodo ricordarlo: il Patto di Shangai, del quale fanno parte – come soci fondatori od associati – Russia, Cina, Vietnam, Corea del Nord, repubbliche ex sovietiche, India ed ora (un po’ in secondo piano) proprio l’Iran. C’è da stupirsi se non si trova l’accordo per le sanzioni da imporre a Teheran? Con Russia e Cina sempre contrarie?
Ciò che avviene dopo l’apoteosi del maggio 2003, per Bush, sembra un incubo: veramente qualcuno crede che la guerriglia irachena si rifornisca d’armi dai magazzini nascosti di Saddam? Ed i nuovi lanciarazzi RPG – che hanno usato più volte le milizie di Moqtada al Sadr – con puntamento laser? Anche quelli erano di Saddam? Non nascondiamoci dietro ad un dito.

Per anni, in Iraq va in scena una lotta senza quartiere per impedire agli USA il controllo del territorio (e quindi del petrolio iracheno), che da un anno a questa parte è stata esportata anche in Afghanistan.
Cui prodest? Il mancato controllo del Golfo Persico è miele per le orecchie cinesi e russe: i primi vedono allontanarsi lo spettro del controllo USA sulle riserve del Golfo e dell’Iran (dal quale attingono gas e petrolio), i secondi vedono procrastinata nel tempo ogni strategia d’attacco alle proprie riserve, soprattutto al gas della Siberia.
Da buoni e gentili orientali, cinesi ed indiani acquistano i Sukhoi-30 russi, e da pragmatici ex sovietici i russi concedono loro anche di produrli su licenza. La pace è scoppiata in Asia? Magari, fra mezzo secolo si scanneranno di nuovo, ma il miracolo della nuova alleanza russo-cinese-indiana è tutta opera di George la Volpe del Deserto (iracheno).

Qualcuno ha paragonato la guerra in Libano con Stalingrado ma – con tutta l’approssimazione di queste evanescenti metafore storiche – sarebbe più opportuno tracciare un parallelo fra il fronte orientale tedesco e la guerra irachena.
I generali tedeschi chiamavano il fronte orientale “la grande fornace”, giacché tremila chilometri di fronte “ingoiavano” risorse enormi, uomini e materiali. Solo Hitler sembrò non accorgersene.
Una piccola parentesi: i vari “revisionisti” storici assegnano la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale ad USA e Gran Bretagna e “dimenticano” spesso l’URSS. Il fronte orientale durò 47 mesi contro gli 11 di quello occidentale, mentre il fronte italiano fu sempre considerato secondario: i russi ebbero circa 20 milioni di morti e furono loro a “disossare” l’apparato militare tedesco.

La guerra irachena costa (ufficialmente) agli USA almeno 80 miliardi di dollari l’anno, ma sono dati che vanno “presi con le molle”, perché altre consistenti spese sono nascoste nelle “pieghe” dei bilanci.
Ancora più tragico il conto dei morti e dei feriti: 3.000 i primi, ma almeno 30.000 i secondi a fine 2004[3] dei quali solo 1/3 tornava a combattere mentre un altro terzo era mutilato ed i rimanenti debilitati mentalmente dai troppi orrori vissuti. Oggi, una stima attendibile e prudente porta a 60.000 il numero dei feriti: questo è stato il “fronte orientale” degli USA.

E la guerra in Libano? Doveva essere la “spallata finale” mediante la quale sarebbe stato possibile attaccare Siria ed Iran: come El-Alamein doveva essere il prodromo della “cavalcata” sotto le Piramidi di Hitler e Mussolini. Volendo proprio trovare dei paragoni, quello della battaglia decisiva dell’Asse in Africa regge senz’altro meglio.
Dopo El-Alamein non ci furono che vittorie per gli alleati e sconfitte per l’Asse: da ovest ad est, da nord a sud. Cosa succede dopo la guerra in Libano? La Russia paga fino all’ultimo centesimo l’enorme debito ricevuto in eredità dall’URSS, i cinesi hanno le casse statali piene zeppe di dollari e Gazprom diventa il primo colosso mondiale dell’energia, in barba alle “sette sorelle”. Che splendida vittoria per la diplomazia USA.

Appena terminata la guerra in Libano, il prezzo del greggio inizia a scendere perché quella sconfitta indica che non ci sarà nessun attacco all’Iran e tanto meno alla Siria. Privato della sua componente “ansiogena”, l’oro nero mantiene le quotazioni che gli sono assegnate dagli altri fattori che ne determinano il prezzo, le riserve e le stime future sui consumi.
Oggi, possiamo verificare che la componente che metteva in ansia i mercati valeva circa 15 dollari, poco più o poco meno.
Se Israele avesse invaso il Libano e fosse scoppiata una nuova guerra contro Siria ed Iran, quanto pagheremmo oggi la benzina? Standard & Poors aveva stimato che l’economia del pianeta avrebbe retto fino a 105 $/barile. Chissà se – nella “economia del pianeta” – eravamo compresi anche noi, umili e pochi miliardi di paria?

Non dimentichiamo, inoltre, che il rapporto di cambio fra euro e dollaro è salito oltre 1,30 dollari per un euro (per la “gran fiducia” degli investitori nell’economia americana): a rigor di logica, il prezzo del greggio sarebbe dovuto salire (per mantenere un po’ del suo valore), e quindi l’entità della componente “ansiogena” nel prezzo del greggio è ben superiore a quei 15 dollari.

Paradossalmente, chi mantiene stabile oggi l’area libanese (e ci riempie quindi il serbatoio) è proprio Hezbollah – con la sua forza militare – mentre le fazioni filo-americane (non si può dire “filo-israeliane” in Libano) sono perdenti.
Tutto ciò dovrebbero tenere ben a mente il Ministro degli Esteri D’Alema e quello della Difesa Parisi, quando dissertano di Libano ed Iraq: osservare a chi conviene, cosa conviene e come, di conseguenza, occorre comportarsi.
A dire il vero, dovrebbero gettare lo sguardo anche oltre oceano ed osservare cosa sta succedendo a Washington: è un invito retorico, perché non è certo sfuggito ad una persona intelligente come Massimo D’Alema.

Si smobilita: a quando il trasloco dei mobili e dell’argenteria?
Il nuovo Segretario alla Difesa Gates si è presentato – per usare un eufemismo – “senza difese” di fronte alla commissione parlamentare che doveva approvare il suo ingresso al Pentagono. La guerra in Iraq? «Non vinta». Cosa fare? «Aspetto consigli». Guerra alla Siria? «Ipotesi da scartare». All’Iran? «Da considerare solo come extrema ratio».
Un’altra testa “eccellente” rovinata nella polvere in questi giorni è quella di Baffone Che Non Accetta Consigli Bolton – ambasciatore USA all’ONU – l’uomo che doveva, secondo i neocon, sbancare l’ONU e trasformarlo in una succursale del Pentagono.

Inutile nasconderlo: l’umore che si respira è quello del bunker di Hitler a maggio 1945. Non c’è nessuna speranza di vittoria, ma solo una certezza: da queste avventure gli USA usciranno con le ossa rotte.
Il ritorno al multilateralismo – auspicato in Europa – non è quindi una scelta ideologica (così come lo fu l’unilateralismo di Bush) ma un mutamento dettato da un pragmatismo che il Presidente deve accettare.
Qui finisce la metafora; le nostre democrazie – malate, corrotte, e chi più ne ha più ne metta – conservano almeno un vantaggio: Hitler non ascoltò i suoi generali e condusse la Germania “all’anno zero”, mentre Bush è stato costretto ad ascoltare perché non aveva più spazi di manovra.
Non è una gran consolazione per le tante vittime di questi anni – americani, inglesi, italiani, spagnoli, iracheni, afgani, israeliani, libanesi… – ma è pur sempre qualcosa di meglio della battaglia fino “all’ultimo uomo”.

Quando impareremo a fermarci prima del “primo uomo”?

Carlo Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it


[1] Fonte: Televideo, 4/12/2006
[2] Più precisamente 62 dollari il 4/12/2006, ma si è giunti anche a 56. Fonte: Tg5.
[3] Intervista di Lakshmi Chaudhry al dott. Gene Bolles, neurochirurgo al Centro Medico Regionale di Landstuhl (Germania, dove vengono inviati i feriti in Iraq), pubblicata su Alternet il 21/10/2004.

 
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