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La
porta che non c’è
di Carlo Bertani
“Quanto felice sia ciascun sel vede, chi
nasce sciocco ed ogni cosa crede!”
Nicolò
Machiavelli – Mandragola
Oggi,
27 novembre 2006, sembrerebbe un giorno come tanti altri: il sole si è
alzato intorno alle 7.30 ed è andato a coricarsi verso le 16.30. Usually.
Legioni di autoveicoli hanno assaltato le autostrade e moltitudini
d’allievi hanno atteso la campanella: è lunedì, e migliaia di bovini
sono stati abbattuti nei macelli. Un giorno come un altro
nell’autostrada dell’umanità. Apparentemente.
Il Presidente del Consiglio Prodi ha annunciato che in Iraq rimangono
solo poche decine di militari italiani – quelli che hanno organizzato
l’esodo – e che ben prima di Natale saranno tutti a casa. Lo
sapevamo.
Ciò
che forse non ci aspettavamo era l’annuncio – in contemporanea –
del ritiro del contingente inglese dall’Iraq entro la prossima
primavera e di quello polacco entro il prossimo anno. Per la scelta dei
tempi è meglio fidarsi degli inglesi ed un po’ meno dei polacchi: i
primi
Se Blair (o forse è già Gordon Brown che decide?) parla di un ritiro a
così breve termine significa che la situazione sta precipitando: anche
l’annuncio di un ritiro nel lungo periodo dei polacchi conferma la
tendenza, giacché quando s’accorsero che era iniziata una guerra si
ritrovarono i panzer Mark IV alle porte di Varsavia.
Diverso
è il caso degli USA, i “mecenate” dell’impresa irachena: coloro
che avrebbero dovuto ricevere gloria, ricchezza ed onore
dall’avventura e che oggi non si sa nemmeno se riusciranno a
conservare la liquidazione dopo il licenziamento.
Oggi si parla della “exit-strategy”, ossia del modo d’andarsene:
se non sapete come fare per uscire dal lavoro anzitempo pensateci,
createvi una bella “exit-strategy” anche voi. Situazioni
imbarazzanti, come essere scoperti a far l’amore in un ascensore
oppure a fumare in un ufficio pubblico, possono essere risolte soltanto
con una meditata “exit-strategy”, altrimenti vi beccano con le
mutande abbassate e con il mozzicone fra le dita.
Per
trovare una buona via d’uscita (e basta con questo inglese…) bisogna
raccogliere prima tutte le informazioni necessarie: l’ascensore può
essere sbloccato dall’esterno? C’è un aspiratore che disperde il
fumo accusatore?
Se chiederete consiglio ad un polacco – per come immaginano il futuro
dell’Iraq – vi scopriranno di sicuro in intimo raccoglimento con la
moglie del capo mentre vi fate una canna. E’ senz’altro meglio
raccogliere informazioni da gente del posto.
Ogni tanto, un iracheno di quelli che abitano nella Zona Verde e che
sono sopravvissuti agli attacchi della guerriglia viene ricevuto a
Washington e siede accanto a Bush con il camino acceso nel mezzo. Anche
a Ferragosto. Cosa si diranno?
A
mio parere, prima di farlo passare nello studio ovale gli fanno
l’elettroshock ed un trattamento psicologico “embedded”, così
come si comportano con i giornalisti “amici” per far loro raccontare
che si è ad un passo dalla vittoria. Dopo aver ascoltato parole
rassicuranti – ovvero che nel chilometro centrale della Zona Verde gli
attentati sono diminuiti dello 0,3% nell’ultima settimana – Bush si
consola e scendono insieme per fare la solita conferenza stampa di
fronte a quattro cugini, tre nipoti ed alle amanti dei rispettivi cugini
e nipoti.
Seguendo questo comportamento, il risultato è lo stesso: in un
terrificante secondo che sembra un secolo, la porta dell’ascensore si
apre e mostra al mondo le nudità, vostre e della vostra amante. Nel
1975, improvvisamente, la porta dell’ascensore chiamato “Vietnam”
s’aprì di botto ed osservammo gli elicotteri che venivano precipitati
in mare dalle portaerei per far posto ad altri che giungevano da Saigon
con gli ultimi fuggitivi.
Sarebbe
forse meglio lasciar perdere iracheni “embedded” e polacchi per
ascoltare gli uomini dei servizi segreti? No, nel tempo sono stati tutti
“scremati” ed “aggregati” all’establishment.
Deve essere terribilmente difficile mettere un orecchio non
“ufficiale” fuori della Casa Bianca, ma sarebbe l’unico modo per
ascoltare qualche voce che porta consigli attendibili, che racconta
storie vere, mica le solite barzellette da raccontare a Rumsfeld ed a
papà.
A dire il vero qualche “sussurro” s’era già udito: il Presidente
iracheno (ma Presidente di che?) Jalal Talabani, curdo, poche settimane
fa inviò un accorato appello a Bush chiedendogli di mantenere almeno il
controllo d’alcune basi aeree in Iraq. Salvami almeno la pelle con
qualche F-16, George, fammi la grazia. Oggi – sempre lo stesso
sonnacchioso 27 novembre – si rivolge a Teheran per chiedere aiuto e
protezione per “pacificare l’Iraq”. La paura fa veramente 90.
I
persiani sono persone gentili: seppero ritirarsi con onore di fronte ai
greci vittoriosi, e non hanno fatto mancare a Talabani una risposta
gentile. Di cortesia, appunto: magari gli faranno avere anche un valido
documento per l’espatrio, come un passaporto della Jugoslavia di Tito
oppure un salvacondotto emanato dalla sede diplomatica del Regno delle
Due Sicilie a Teheran.
Anni e mesi fa, quando sostenevamo
che la guerra in Iraq non poteva finire che con la “dipartita” (per
non usare il termine “sconfitta”) degli americani – e che non ci
sarebbe stato nessun attacco all’Iran perché Washington non era in
grado di sostenerlo – eravamo soltanto degli scorbutici antiamericani?
Ah,
come non ricordare il lordume che precipitarono addosso a coloro che
paragonavano l’Iraq al Vietnam! Vogliamo fare qualche nome (in ordine
alfabetico)? Magdi Allam? Silvio Berlusconi? Gianfranco Fini? Corrado
Guzzanti? Dalla G in poi continuate voi.
Siamo stati tacciati d’essere una quinta colonna al servizio del
nemico – i Quisling del
terzo millennio – soltanto perché osservavamo la realtà senza le
pelli di salame agli occhi. Non ho mai gioito per la morte dei militari
americani – e nemmeno per quella dei guerriglieri iracheni – tanto
meno per quella dei nostri poveri soldati. Tutte vittime, indistinte,
massacrate come un lunedì qualunque nel macello comunale di una grande
città.
Di
quale peccato saremmo colpevoli – vossignorie – per aver annunciato
per tempo la cronaca di una tragedia annunciata, quando vedevamo giorno
dopo giorno aumentare il numero delle vittime da entrambe le parti?
Siamo colpevoli per non aver creduto nei “chiari segni di vittoria”
che emanavano – dai loro sogni – Bush e la tristissima cricca dei neocon
americani?
Vietnam, scrivemmo, e dal Vietnam si riparte.
Strana nemesi – o forse appena un contrappasso – quello del vertice
ASEAN che si è svolto ad Hanoi nei giorni scorsi, con un Bush obbligato
a tessere le lodi ai “saggi” comunisti vietnamiti per non essere
stato capace di fermare l’atomica coreana.
Strana
comparsata, nella terra ancora
imbevuta dal napalm americano, di un presidente USA azzoppato come non
mai – in Patria ed all’estero – con Putin e Hu-Jin-Tao che si
concedevano qualche lazzo per la scoppola elettorale. I risultati:
deludenti. Appena un accenno anti-europeo per l’eccessiva protezione
degli agricoltori nel Vecchio Continente ed una velata – ma sdentata
– minaccia: più del 50% del commercio mondiale si svolge oramai fra
le sponde del Pacifico, e Bush ricorda d’avere qualche migliaio di
miglia di coste bagnate dalla stessa acqua, più qualche atollo sperduto
in mezzo all’infinità liquida.
Un
Bush oramai senza artigli perché non è lui l’attore protagonista
della rappresentazione – il beneficiario dei frutti di quel 50% –
bensì il cinese che ha come “spalla” il russo dagli occhi di
ghiaccio. Questa è stata l’unica risposta diplomatica di George Bush
II dopo la scoppola elettorale e le ultime news dall’Averno iracheno:
un giocatore che esce dal campo di calcio, sostituito perché
inefficace, che si galvanizza scartando un raccattapalle.
Per
capire la differenza fra le due situazioni – il vero Vietnam ed il
nuovo Vietnam iracheno – dovremmo ricordare cosa avvenne quasi in
contemporanea alla rovinosa fuga dal Vietnam: l’ignominia di
Timor-Est.
A quel tempo – davanti o dietro alle quinte – c’era a reggere il
timone della strategia americana un certo Henry Kissinger: la volpe
astuta e sanguinaria del Cile e di tante altre malefatte americane nel
pianeta.
Difatti, anche il vecchio Kissinger si è fatto vivo proprio in questi
giorni per ricordare al rampollo Bush “che non si può scappare alla
chetichella”: evidentemente, il vecchio macellaio conosce bene il
pollastro che abita in Pennsylvania Avenue, è al corrente di quanto sa
apparire forte sui media e tremebondo in politica estera.
La
sconfitta in Vietnam fu l’amaro risveglio di un’America che si
credeva invincibile, ancora cullata dalle glorie della guerra mondiale,
ma Kissinger sapeva che la partita continuava. Perso il Vietnam? Bene:
ci rimangono Taiwan, Okinawa, le Filippine,
Già, il sud: proprio a sud – con la perdita di Saigon – c’è un
fianco scoperto. Oddio, proprio “scoperto” non è – visto che il
generale Suharto indonesiano ci è fedele come un Pluto a Pippo – ma
non possiamo correre inutili rischi.
Così, il Presidente Ford ed il suo scagnozzo Kissinger preparano un bel
regalo natalizio per il generale indonesiano: Timor-est, antica colonia
portoghese.
I
portoghesi, dopo la rivoluzione democratica del 1974 che aveva scacciato
Marcelo Caetano, avevano concesso eguali garanzie democratiche alla ex
colonia: non capiterà – pensarono a Washington – che anche in quel
remoto angolo dell’Oceano Indiano giungano i guerriglieri cubani come
in Angola?
Detto fatto: il 7 dicembre (anniversario di Pearl Harbour?) su Dili si
scatena la rabbia dell’aviazione e dei paracadutisti indonesiani:
60.000 morti, passati sotto silenzio dall’ONU, dalle potenze europee e
da tutti i media.
Per anni continuano i rifornimenti d’armi americani all’Indonesia
per tenerla aggrappata al carro statunitense e non si lesina né in
cannoni né in coperture diplomatiche: perduto un pezzo del domino, non
sia mai che un altro bastione cada.
Tutto
ciò causa decine di migliaia di vittime? E che gliene importa a
Washington? Basta garantirsi la fedeltà dei generali indonesiani.
Il disastro andrà avanti fino al 1999 – quando sarà inviata una
forza multinazionale di protezione – ma non voglio dilungarmi troppo
su una vicenda sulla quale hanno scritto grandi penne internazionali –
Noam Chomsky in primis –
perché si tratta di uno solo dei tanti massacri compiuti dagli USA nel
pianeta. Un assaggio?
Cina 1945-49, Grecia 1947-49, Filippine 1945-53, Corea del Sud 1945-53,
Albania 1949-53, Iran 1953, Guatemala 1953-anni 90, Medio Oriente
1956-58, Indonesia 1957-58, Vietnam 1950-73, Cambogia 1955-1973, Congo/Zaire
1960-65, Brasile 1961-64, Repubblica Dominicana 1963-66, Cuba 1959 fino
ad oggi, Cile 1964-73, Grecia 1964-74, Timor Est 1975, Nicaragua
1978-89, Grenada 1979-84, Libia 1981-89, Panama 1989, Iraq anni 90 ,El
Salvador 1980-82, Haiti 1987-94, Jugoslavia 1999.[1]
Il 29 di novembre cade l’anniversario del Fiume Sand Creek: i Lakota
non hanno mai dimenticato.
Ciò
che colpisce è la differenza fra le due situazioni: sappiamo che la
politica estera è spesso un bagno di sangue innocente, ma testimonia la
capacità reattiva di una nazione che si confronta nello scacchiere
planetario.
Quali sono le attuali mosse di Bush II in politica estera?
Urlare
ai quattro venti che l’atomica coreana è una bestemmia e poi stare a
guardare mentre Pyong-Yang la presenta al mondo? Votare le sanzioni
contro
Non
ci sembra che Bush II sia una gran “aquila” della politica
internazionale: non è certo un Cesare né un Metternich, tanto meno un
Churchill od uno Stalin. Qui non basta nemmeno il “Tapiro d’oro”,
qui – per “premiare” i suoi meriti – non basterebbe nemmeno un
premio “Pico della Mirandola” al negativo, una sorta di Ignobel
della politica internazionale. Ma come si è giunti a tanto?
Forse qualcuno immaginava –
“aggiustando” le elezioni del 2000 – che avrebbe regnato Bush I il
Vecchio, e che il rampollo sarebbe stato soltanto fotografato mentre
saliva e scendeva dall’elicottero con il cane in braccio?
Sarebbe
allora interessante indagare il rapporto esistente fra i due monarchi:
Bush I il Vecchio e Bush II il Giovane, per capire quali sotterranee
pulsioni si siano scatenate nel giovane. Emulazione? Presunzione
eccessiva? Un rapporto edipico non risolto?
Terribile vicenda, quando un monarca inetto sale al trono: Giorgi
inglesi e Vittori italiani, e poi Luigi, Filippi, Nicola, russi,
spagnoli, francesi…
Niente da fare: quando un monarca si ritrova con un primogenito
imbecille non ha scelta. Un tempo poteva esistere la scappatoia di una
morte onorevole in battaglia, od il meno decoroso veleno di corte, oggi
– purtroppo – il garantismo assoluto protegge anche i Delfini più
inetti.
La
“chiave” della vicenda personale di George Bush II è più materia
da strizzacervelli che analisti strategici: un deludente Parsifal è
stato chiamato a scrivere l’irriverente necrologio per la casata
dell’Arbusto[2]
che nasce dal pozzo. Di petrolio.
Se il padre – forse non imperatore ma almeno mediocre re – meditò
di fermarsi alle porte di Baghdad quando il truce Saladino era ormai
sconfitto, perché il giovane ha osato?
Forse per mostrarsi migliore agli occhi della madre? Sono io il tuo vero
cavaliere – mamma – non quel vecchio bacucco. Gli psicologi
capiranno di cosa sto parlando.
Sì,
perché il vecchiaccio aveva ricevuto dal cielo tutte le benedizioni: il
Turco era oramai una preda inchiodata alle porte di Samarcanda, mentre
nessun aiuto poteva giungere dal nord, nessun Tamerlano-Gorbaciov
s’appressava all’orizzonte. Altro che il piccolo cosacco dagli occhi
di ghiaccio che io mi sono ritrovato fra i piedi.
Eppure il pavido tentennò: troppo grande il rischio di scatenare le
orde dei Persi contro Atene? Forse.
Il giovane pilota part-time della Guardia Nazionale – mentre
sorseggiava Top-Gun e mangiava
noccioline – non riusciva a comprendere la ragione di tanta codardia:
perché – o padre mio – non mostri al Turco nella polvere tutta la
potenza del tuo braccio, il vorticare della tua spada?
Allora,
sarò io – mamma – a “completare il lavoro”: sarò ricordato
come l’eroe delle Termopili, il braccio d’Achille e l’occhio
d’Ulisse. Non avrò pietà né tentenno di fronte alla prova: peccato
che – mentre lui continuava a mangiare noccioline ed a sorseggiare We
were soldiers – a crepare ci sono andati i figli dei poveracci
dell’America, quelli che il “sogno americano” l’avevano sempre
visto in cartolina.
Che tremenda sciagura quando una grande casata genera un pollone
rigoglioso ma dal gambo fragile, costretto a piegarsi alla prima brezza!
Sarà per questa ragione che i re – oramai – regnano quasi
esclusivamente nel mazzo delle carte?
Carlo
Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it
[1]
A
Brief History of United States Interventions, 1945 to the Present
(Una breve storia degli interventi degli Stati Uniti, dal 1945 al presente)
di William Blum, traduzione di Natascia Berlincioni su http://www.zmag.org/articles/blum.htm
[2]
In inglese, Bush.