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Di
notte, come i ladri
di Carlo Bertani – 23 luglio 2007
Mio
padre, raccontava spesso una storiella: “la notte, quando la notte è
più fonda, rimangono in giro soltanto due specie d’individui: i ladri
e quelli che scopano le mogli altrui”. Altri tempi e diversa morale,
ma la sostanza non muta.
Nella calda notte romana – appuntamento alle 22 della sera di un 19
luglio, tempo oramai di vacanze – i vertici dei poteri forti si sono
dati convegno a Palazzo Chigi. Come carbonari.
C’erano tutti quelli che dovevano decidere: i banchieri ed i loro
sodali, apparatcik di governo.
Come per un banchetto che si rispetti, erano stati condotti anche
agnelli, tacchini e maiali per la cena. Silenti, i tre segretari
sindacali sono andati al macello – puramente virtuale, per le loro
persone, che troveranno sempre nuove, comode poltrone che li aspettano
– mentre per i lavoratori s’aggiungeva un’altra pagina nera, alle
tante che oramai scrivono da anni.
Già
da giorni gli araldi annunciavano l’evento, tanto sordido e
maleodorante da dover essere consumato alle tre di notte. L’ora dei
ladri, appunto.
I banchieri sono andati all’assalto della diligenza: e ti pareva,
famelici come sono, se si lasciavano scappare anche questo boccone!
Tutti insieme, appassionatamente, nei giorni appena trascorsi avevano
messo in atto una delle operazioni di disinformazione meglio congegnate
degli ultimi anni.
Si va dal Governatore della Banca d’Italia – Draghi – che tuonava:
“non provate a non alzare l’età pensionabile!” Si continuava con
Almunia – Commissario Europeo – che afferma “L’Italia ha già
fatto tanto, ma può fare di più. Ovviamente, per le pensioni.” Poi
arrivò
Un
bel coro di cornacchie, niente da dire, al quale s’univa Emma Bonino,
sempre in prima fila quando si tratta di togliere qualcosa ai
lavoratori. Oh: mancasse una volta! Ma ha letto, la signora, cos’ha
firmato? Da chi prende ordini, da via Nazionale?
Dovevano fare tanto chiasso perché erano stati clamorosamente smentiti,
proprio nei loro allarmismi, dall’INPS stessa.
Soltanto pochi giorni or sono – il 12 luglio 2007, notizia ovviamente
relegata a margine – il presidente dell’INPS, Giampaolo Sassi,
comunicava i conti dell’istituto previdenziale: nei primi cinque mesi
del 2007, l’INPS ha incassato 3,8 miliardi di euro in più, mentre ne
ha spesi soltanto
Sassi
spiega anche il perché dell’ottima performance: con
Insomma, è bastato mettere un po’ mano sulle aliquote – che non
sono un prelievo spaventoso: lo sono, forse, per chi è abituato a non
pagar niente – ed il problema “pensioni” si sgonfia da solo.
Sassi precisa che i conti sono in ordine perché – altra ricorrente
abitudine della politica italiana – non vuole finire con il classico
cerino acceso in mano: oh – fa sapere Sassi – noi siamo a posto, non
pensate d’inventarvi chissà quali storie…che l’INPS è
un’idrovora di risorse, che siamo col sedere a terra o roba del
genere…siamo, addirittura, in attivo!
Il
mondo politico fa finta di non aver sentito e, a fronte di queste
inconfutabili cifre, scatena la bagarre mediatica: dobbiamo salvare le
pensioni dei giovani!
Insomma, se non riescono a dimostrare che le pensioni sono una
“voragine economica”, provano a mettere le generazioni le une contro
le altre. Che brutta gente.
Qui, ci sono un paio di considerazioni da fare.
La prima, riguarda l’immonda gestione del mercato del lavoro promossa
dalle legge 30 (o legge Biagi): se i famosi “CO.CO.CO” non versano
niente (loro e le aziende con le quali stipulano i ridicoli
“contratti” e “progetti”), come potranno ricevere una pensione?
In pratica, è quasi lavoro nero legalizzato! Come si può inventare una
forma di lavoro dove non è previsto l’accantonamento pensionistico?
Non facciamo ridere: i pochi euro che versano, significheranno pochi
euro di pensione.
D’altro canto, come si potevano fornire alle imprese dei nuovi schiavi
– praticamente, senza diritti – per aumentare i profitti di lor
signori? Come mai, se la borghesia imprenditoriale è così
“sfiancata” dalle tasse, da anni le vendite dei SUV e delle auto da
50.000 e più euro non fanno che aumentare? Sono proprio così poveri?
La
seconda questione riguarda la famosa previsione, catastrofica, degli
anni a venire: la “gobba” pensionistica…l’evolversi della
situazione…l’invecchiamento della popolazione…di qui al 2050, al
2070…
Se ci fosse qualcuno in grado di raccontarmi con precisione quale sarà
lo scenario economico fra mezzo secolo, quanti saranno gli occupati e i
pensionati, a quanto ammonterà il PIL e tutte le scemenze che si sono
inventate, gli affiderei i pochi soldi che ancora ho in banca, sicuro
come l’oro. Se sanno cosa accadrà fra mezzo secolo…sapranno anche
come investirli!
La realtà è, invece, che fanno previsioni a 12 o 24 mesi e non
“beccano” nemmeno quelle! Prevedono un tasso di sviluppo del 2,5%,
poi lo correggono al 2,3 per scendere all’1,9 a fine anno. In un solo
anno! E vogliono raccontarci che sono in grado di sapere, oggi, cosa
capiterà nel 2050?!? Si rivolgano a Nostradamus.
Come
si può prevedere la composizione sociale dell’Italia fra mezzo
secolo? Come possiamo, oggi, sapere quali saranno i flussi migratori?
Fra mezzo secolo, avremo al lavoro la seconda e la terza generazione
degli immigrati: quanti saranno? Che cosa faranno? Quali saranno le
esigenze del lavoro e della produzione fra 50 anni? Sarebbe mai stato
possibile, per il primo automobilista che percorse l’Autostrada del
Sole, ipotizzare che sarebbero praticamente spariti gli esattori ai
caselli? E la stessa auto sulla quale viaggiava, poteva mai credere che
sarebbe stata costruita, in gran parte, da dei robot?
Siamo seri.
Non sapendo dove attaccarsi per togliere sempre qualcosa a chi lavora,
s’inventano la storia delle pensioni dei futuri giovani: come se, a
loro, importasse qualcosa dei giovani del 2050! Non gliene importa
niente di quelli di oggi (salvo quando devono andare a votare), e
dovremmo credere che combinano tutto questo can can per quelli del
prossimo secolo?
La
realtà è un’altra, ossia che lo stato sociale italiano viene pagato
quasi completamente dai contributi dell’INPS: la cassa pensionistica,
non rappresenta gli accantonamenti degli italiani per la futura
pensione, ma una massa di denaro alla quale attingere per rimediare alle
pessime gestioni industriali.
Qualche esempio?
Il TFR, quando l’azienda fallisce, viene quasi sempre – dopo accordi
sindacali – versato ai lavoratori dall’INPS. Qui non si tratta di
bollare quei lavoratori come “sanguisughe” degli enti previdenziali
– come qualche “furbacchione” tenta di fare – perché, se sono
stati fregati dai loro datori di lavoro, non devono rimanere con il
sedere a terra. Vediamo come si regge la truffa.
Il TFR nacque dalla Costituzione stessa, nel 1947, quando si previde uno
strumento mediante il quale i lavoratori potevano partecipare agli utili
dell’impresa: ecco l’articolo:
Art. 46. Ai fini della
elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze
della produzione
Il
dettato costituzionale prese forma nella capitalizzazione di una quota
del salario da parte dell’azienda: io ti consegno un tanto il mese, tu
lo gestisci e lo fai fruttare, e quando finirò di lavorare mi renderai
i frutti.
Meditiamo con attenzione il concetto espresso dai Costituenti: nel
libero mercato, il lavoratore partecipa agli utili dell’azienda
affidando una parte del suo salario, che gli verrà resa al termine
dell’attività lavorativa. In pratica, diventa quasi una
partecipazione azionaria all’impresa.
Tutte le leggi che prevedono la trasformazione di quei denari in
qualcos’altro – fondi pensione e quant’altro – cozzano
violentemente con quel principio costituzionale. Non sono
anti-costituzionali – sia chiaro, perché
Per
molti anni, il sistema del TFR ha funzionato, sia per le aziende e sia
per i lavoratori: purtroppo, con la deindustrializzazione in atto, è
stato fin troppo facile, per i soli “furbi” – “falliti” con
tanto di dobloni in Svizzera – fare “marameo” ai lavoratori per il
TFR. Sono fallito e mi sono giocato anche i tuoi soldi: che vuoi da me?
Le pene per chi fallisce violando la legge (false fatturazioni, bilanci
“evanescenti”, ecc), tanto, sappiamo che non sono mai state erogate:
basta un buon avvocato (magari pagato con i soldi dei TFR!).
A quel punto, per avere quei soldi ai quali hanno diritto dopo una vita
di lavoro, ai lavoratori non rimane che la protesta: vorrei vedere chi
non protesterebbe dopo essere stato scippato di 50.000 euro!
La
soluzione? Andare ad indagare i termini dei “fallimenti”?
No, troppo scomodo coinvolgere lor signori: paga l’INPS, cioè noi
tutti.
Lo
stesso meccanismo, viene utilizzato per la cassa integrazione:
l’azienda aveva un piano industriale da schifo? Non voleva in nessun
modo discuterlo, e alla fine è andata a carte quarantotto? Le banche
hanno smesso di fornire credito, perché le aree dell’azienda erano
appetite da qualche boss immobiliare?
Pazienza: si paga una miseria ai lavoratori e si chiude un occhio. Chi
lo paga? L’INPS. E lo crediamo bene che, dopo tanti salassi, non ci
siano più i soldi per le pensioni!
Il convitato di pietra di tutto l’andazzo ha un nome, che nessuno –
nell’attuale “maratona” sulle pensioni – si è guardato dal
nominare: si chiama “Separazione della previdenza
dall’assistenza”. Tutti i politici nostrani sanno benissimo che
quello è il nodo del problema – a volte lo hanno ammesso – ma,
quando si devono riformare le pensioni, improvvisamente lo scordano.
Poca memoria, eh…
Chiunque
può comprendere bene il fenomeno, se lo paragona al proprio bilancio
familiare.
Se, per ipotesi, accantono ogni mese 100 euro per destinarli ad una
futura pensione, e non li tocco mai, dopo tot anni troverò tot soldi
per la mia pensione. Se, invece, quando si rompe l’auto oppure un
termosifone vado a prelevare quei soldi per pagare il meccanico e
l’idraulico, ne troverò di meno. Qual è la soluzione adottata dai
politici italiani? Quella di prevedere due distinti fondi per le diverse
esigenze?
No,
pagano tutto con la stessa cassa e poi, semplicemente, concludono:
invece di versare 100 euro ne verserai 110, oppure andrai in pensione un
anno dopo.
Ora, qui non si discute sul singolo anno in più od in meno per accedere
alla pensione, ma l’evidenza dei fatti dimostra che dal 1995 siamo
sempre preda dell’ennesima “riforma”, che si deve fare o che si
farà, che si sta pensando oppure accantonando. Perché?
Poiché, tornando al nostro esempio, se si presentano spese impreviste
– c’è da rifare il tetto, ad esempio – si pagano con quei soldi
e, dopo, bisogna accantonare di più oppure rimandare l’età della
pensione.
Continuando
in questo modo, la cosa non avrà mai fine!
Ci saranno sempre nuove spese impreviste – poiché in Italia non
esiste una gestione del welfare – e, di conseguenza, sempre nuove
“riforme” delle pensioni. Fino a quando ci manderanno in pensione a
70 anni!
Hanno studiato, come ricordavamo, la “previdenza complementare”,
ossia il modo di mettere le mani sul TFR – nato come partecipazione
dei lavoratori ai proventi dell’impresa, e quindi una forma di
re-distribuzione dei profitti – ma ancora non basta.
Altro
capitolo: i lavoratori immigrati. Quelli che lavorano in regola, pagano
(loro e le imprese) i contributi previdenziali: siamo certi che, quando
verrà l’ora d’andare in pensione, la riceveranno?
Ci sono molti “se” e “ma” riguardo agli immigrati: quelli che,
poniamo il caso, torneranno nei loro paesi d’origine, potranno
ricostruire un solo percorso previdenziale?
Esempi del genere non mancano, anche per i lavoratori italiani. Perché,
una cassa come l’ENASARCO, non è cumulabile con gli altri periodi di
lavoro? Se hai fatto l’agente di commercio per qualche anno – e non
hai versato i contributi volontari INPS – non puoi riscattare quel
periodo di lavoro e, i contributi versati a suo tempo dalle aziende, chi
se li prende? La cassa ENASARCO che, in cambio, non ti dà niente, perché
“manca la legge” per collegarli. Quando si dovrebbe riconoscere un
diritto, guarda a caso, manca la legge.
Le
legge più bieca alla quale devono però sottostare gli italiani è
quella del lavoro nero: chi non ha mai lavorato in nero alzi la mano, e
sono certo che non sarebbero tante. Come potranno mai, gli italiani,
raggiungere i fatidici 37 anni di contributi, quando sono stati
obbligati – sì, obbligati da un potere politico connivente – a
lavorare per anni in nero?
Insomma, vogliamo adottare regole tedesche in uno stato che, in Europa,
non ha paragoni per l’evanescenza del suo dettato legislativo, per la
connivenza fra Stato e potere finanziario, palese od occulto.
Insomma,
tutto l’andazzo mostra un solo progetto: quello di ricavare più soldi
che possono dagli accantonamenti pensionistici, per non dover
riconoscere che l’Italia ha uno stato sociale da terzo mondo, e
continuare a finanziarlo con quei soldi. Rigore tedesco e mercato
marocchino (con tante scuse ai marocchini).
Quando si parla di pensioni, l’Europa viene additata come esempio: là
si va in pensione a 65 anni!
Il che, è vero solo in parte.
Non
so quanti sono a conoscenza che, in Francia – per citare un solo
esempio – gli autotrasportatori vanno in pensione dopo 25 anni di
lavoro. Sì, avete letto bene: 25 anni. Tu guida il camion per 25 anni e
per noi hai dato abbastanza: e lo crediamo bene!
Da noi, invece, si pensa d’affidare quei bestioni da 44 tonnellate
nelle mani dei sessantenni, perché anche la formulazione delle mansioni
usuranti è ambigua (sette degli ultimi dieci anni trascorsi nel
settore, ecc): poi, quando – per un malore o per stanchezza –
ammazzano loro stessi ed una colonna d’automobilisti, è stata una
“fatalità”. Facciamo tante belle Messe ed applaudiamo all’uscita
delle bare.
Non
è, però, l’età della pensione la sola cosa importante, ma come si
ha vissuto prima, quanto lavoravi: visto che l’Europa è citata come
esempio, perché non ci danno i 1.000 euro il mese dell’assegno di
disoccupazione tedesco? Perché non ci danno le loro case popolari?
Perché non ci fanno lavorare, mediamente, il 20% in meno (come monte
ore annuo) come in Francia ed in Germania? Sanno, lor signori, che in
Francia un lavoratore può farsi visitare da un medico, privatamente, e
ricevere un rimborso dallo Stato che supera l’80% della parcella?
E’ vero che, anche là, i banchieri vorrebbero togliere quei diritti
ma, per ora, nessuno c’è riuscito. In Italia, invece, con i sedicenti
partiti comunisti al governo, avviene il miracolo.
A questo punto, rimane un’ultima bugia da sconfessare: non ci sono le
risorse.
Anche qui, citiamo qualche dato. Ogni anno che passa – da molti anni
– la produttività aumenta a fronte della diminuzione della
manodopera.
Un
trend abbastanza consolidato è la diminuzione dell’1% l’anno del
personale delle grandi aziende, a fronte di un simile incremento di
produttività.
Ciò significa che, se oggi produco 100 beni con 100 occupati, il
prossimo anno produrrò 101 con 99: fra vent’anni, produrrò 120 con
80 lavoratori.
Ora, su quegli 80 lavoratori, peserà per intero il gravame
dell’accantonamento pensionistico (e dello stato sociale!): è ovvio
che quei poveracci dovranno sgobbare come matti fino al giorno prima del
loro funerale!
Ricordiamo, ai signori che hanno sempre l’Europa sulla bocca quando si
tratta di togliere qualcosa, che, nell’Europa che “conta” (dove
vorrebbe stare l’Italia), non c’è paese che non separi la
previdenza dall’assistenza.
Come
se non bastasse ancora, dalle stesse casse dell’INPS vengono prelevate
le liquidazioni milionarie (in euro) del boiardi di stato, quelli che
riducono l’Alitalia ad un rottame e poi pretendono mucchi di quattrini
per aver combinato lo sconquasso.
Alcune “leve” di lavoratori si troveranno, fra qualche anno, nella
perfida “corsa” fra l’età della pensione che aumenta ogni anno,
così non avranno i requisiti fino a chissà quando: nemmeno una parola,
invece, sulle loro pensioni, che scattano dopo 35 mesi. Mesi, non anni.
Per salvare il loro mondo dorato di privilegiati, non hanno esitato ad
affondare la lama nelle vite degli italiani, sempre più poveri e sempre
più sconfortati.
Il
ministro Damiano rassicura: “anche con la correzione dei coefficienti,
i giovani non avranno pensioni inferiori al 60% dell’ultimo
stipendio”. Sa, Damiano, quanto guadagnano gli italiani? Diciamo fra i
1000 ed i 1500 euro il mese?
Avremo così pensioni “sicure e solide”: dopo una vita di lavoro,
potremo attendere di crepare con un bel reddito, dai 600 ai 900 euro il
mese. Poco di più delle minime. E poi: se ne parlerà nel 2020…se la
sbrigheranno degli altri…
Lui può parlare in quel modo perché non lo sa, o se lo sa l’ha
dimenticato: lui, guadagna “soltanto” 20.000 euro il mese.
Gli ultimi sconfitti di questa sordida vicenda sono il caporal maggiore
Giordano ed il sergente Diliberto – che non vengono nemmeno invitati
agli incontri! – così dopo potranno affermare d’essere
“delusi”. E noi di loro.
Schifati
al punto di dover dare ragione a Maroni, quando afferma che “la nuova
riforma è ancor più punitiva della sua”, ed ha ragione. La nuova
riforma concede qualche vantaggio nel breve periodo – fino al 2010 –
ma dopo il 2010 diventa una vera mannaia: chi “rincorse” la prima
riforma Dini, anno dopo anno, senza riuscire mai a centrare una
“finestra”, ancora lo ricorda.
Come uscirne?
Ora
si sono inventati la nuova “bufala” della riforma dei “costi della
politica”, che dovrebbe ridurre i parlamentari a 400. Qualcuno ci
crede? Oppure eliminare consiglieri comunali? L’ANCI, al riguardo, ha
già chiesto un “incontro urgente”. Eh, mica sono fessi: delle
nostre pensioni non gliene frega un picchio, ma delle loro poltrone sì!
L’unica soluzione è privarli totalmente del consenso, destra e
sinistra, non dare più loro voti e non ascoltare più i loro bugiardi
sproloqui televisivi.
Finché non ci sarà una classe politica che partirà da altri
presupposti – ossia dalla ricchezza effettivamente prodotta da noi,
dalle persone che lavorano, e non vuota carta conteggiata dai banchieri
– non ci saranno soluzioni. I giovani, se possono, almeno una
soluzione l’hanno: andarsene da questo rottame di paese, che non dà
loro niente e che ora lo toglie anche ai loro padri.
Potranno tornare nel Bel Paese per le vacanze, a patto che l’albergo
prenotato esista poi per davvero. Ah, fate anche attenzione che non vi
freghino l’autoradio.
Carlo
Bertani articoli@carlobertani.it
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