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Anche l'Italia in
Paradiso
Dal
libro: «Paradisi fiscali», a cura di ARES 2000 – Malatempora
Al boulevard Prince Henry di Lussembrugo, capitale dell’omonimo
granducato, al nr. 13, tutte nello stesso palazzo si possono trovare le
sedi di Pirelli, Mondadori, Tosi, Merloni Ariston e, 50 metri più in là,
Meccanica Finanziaria, Lucchini, Autogrill, Franzoni, Gazzoni Frascara e
Valentino.
E che cosa ci fa il gruppo
Mediaset a Malta? E l’Istituto Mobiliare Italiano a Madeira?
E perché quasi il 50% (112 su 250) delle società quotate in borsa ed
il 25% (22 su 88) dei gruppi bancari hanno partecipazioni, quasi sempre
di controllo, in società residenti nei paradisi fiscali?
Molti di questi paradisi si sono appunto specializzati nella gestione
dei patrimoni ed hanno sviluppato enormemente secondo le tecniche più
sofisticate, (e spesso truffaldine) l’attività di gestione di fondi
di investimento. Chi, in Italia o in Europa, attraverso il proprio
istituto di credito cittadino, investe i propri risparmi in fondi comuni
e simili, sappia che quei soldi hanno discrete possibilità di entrare
nel giro di investimenti praticato dalle società che hanno sede in un
paradiso fiscale (in Lussemburgo, o alle Bahamas), sappia che quei soldi
entreranno in contatto con altro denaro di dubbia provenienza
facilitando operazioni di candeggio o riciclaggio molto redditizie per
le banche off shore e per le mafie internazionali…
Occorre a questo punto sottolineare come il nostro «rispettabile»
apparato creditizio, l’insieme delle banche italiche di nobili casati
non sia affatto immune dalle tentazioni e dalle lusinghe esercitate
dall’arcipelago off shore. Risulta infatti che molti istituti di
credito italiani, dal San Paolo all’Unicredito, dalla Banca Nazionale
del Lavoro alla Banca di Roma, dalla Comit alla Banca Popolare
dell’Emilia, siano titolari di società off shore con sede in paradisi
fiscali, dove possono tranquillamente operare al di fuori di ogni
controllo del fisco, e al di fuori della legge.
Breve
storia dei paradisi fiscali
I «paradisi fiscali», il cui numero
varia, secondo le stime, da 60 a 90 unità, sono dei microterritori o
degli stati le cui legislazioni fiscali sono volutamente lassiste o
inesistenti. Si può parlare di stati che commercializzano la propria
sovranità offrendo un regime favorevole, una totale deregulation ai
detentori di capitali, indipendentemente dall’origine di questi
ultimi.
Ecco il estrema sintesi la loro
storia:
1800
– all’origine alcuni di questi territori non erano che dei porti
dove potevano trovare rifugio le navi dei grandi imperi europei, al
riparo dalla intemperie e dai pirati. Quest’epoca corrisponde ad una
prima fase di attribuzione della bandiera di nazionalità britannica o
francese alle isole dei Carabi che si trovano al largo dell’America
Latina.
1920-1930 – Incominciano ad apparire dei nuovi territori che si
specializzano nella formulazione di legislazioni destinate a sottrarre i
patrimoni alla imposte: Bahamas, Svizzera, Lussemburgo.
Dopo il 1945 – La Seconda guerra mondiale è decisiva per lo sviluppo
dei paradisi. I territori sotto il dominio europeo non ricevono dopo la
guerra gli aiuti economici sperati e vengono tagliati fuori dal piano
Marshall. Alcuni territori così, invece di continuare a produrre
materie prime che non garantiscono più la stabilità economica, si
specializzano nell’accoglienza di flotte cui forniscono una bandiera
ombra, e nell’offrire ai detentori di capitali un asilo sicuro
istituendo il segreto bancario e l’assenza di tassazione.
1960-1970 – Un nuovo trampolino di lancio per l’attività dei
paradisi fiscali viene fornito dall’emergere del mercato degli
eurodollari negli anni 60 e dei petrodollari negli anni 70. Le grandi
banche, le grandi imprese e la City di Londra, che attira tutte le
grandi società finanziarie, appoggiano lo sviluppo di queste strutture,
avendo tutte da guadagnare nel poter disporre di zone con debolissima
imposizione fiscale. A Bahamas, Svizzera e Lussemburgo si aggiungono, in
questo periodo il Liechtenstein, le Isole del Canale, le Isole Cayman,
Bermuda, Panama.
1980-2000 – Nel corso degli ultimi trent’anni, proprio grazie alla
liberalizzazione finanziaria che ha incoraggiato l’assenza di
controllo sui movimenti di capitale su scala internazionale, il numero
dei paradisi fiscali cresce vertiginosamente. I movimenti di capitale
sia di origine legale trovano nei paradisi un singolare luogo di
convergenza, e questo favorisce soprattutto la criminalità che ha tempo
e modo di ripulire le proprie ricchezze, riacquistando verginità ed
onorabilità.
L’attività dei paradisi fiscali è oggi caratterizzata da un giro di
affari stimato in oltre 1800 miliardi di dollari l’anno. Nei
soli paradisi europei sono registrate più di 680.000 società e un
numero più che doppio di trust.
La vicenda dei paradisi fiscali rivela come le potenze industriali siano
state fin dall’origine implicate nella creazione di queste oasi del
riciclaggio. I paradisi hanno contribuito e contribuiscono alla fortuna
delle potenze finanziarie. Difficilmente dunque le potenze accetteranno
di disfarsene.