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Monsignor mistero. La
vera storia delle morti in Vaticano
Di
Andrea Cinquegrani - "La Voce della Campania" - pubblicato su Nuovi
Mondi Media
Vaticano
in fibrillazione. Santa Sede sotto i riflettori. Torna alla ribalta la
misteriosa - e mai chiarita - morte di papa Luciani dopo appena 33
giorni di pontificato. Ne parla Giovanni Minoli nella nuova serie di
Mixer. Riaffiorano dubbi, incongruenze, versioni contrastanti, una verità
ufficiale poco, pochissimo credibile. Un'autopsia mai fatta, rapide
perizie nel segreto delle stanze vaticane, un cuore normale che
improvvisamente cede; l'incredibile storia delle gocce di cardiotonico
ingurgitate in eccesso dal papa, l'altra - invece - a base di una
digitalina che non lascia traccia. Morto in piedi, oppure a letto?
Mentre leggeva sacre scritture o abbozzava il nuovo organigramma dei
vertici pontifici? Oppure cominciava a mettere nero su bianco le nuove
regole da impartire a uno Ior recalcitrante davanti a ogni ipotesi di
trasparenza, col 'nemico' Marcinkus sempre alacremente all'opera? E poi
il sogno di una suora, ricordato in uno scritto da monsignor Balthazar:
due ombre si introducono furtive nella camera da letto di Luciani e nel
suo bicchiere fanno scorrere il liquido di una misteriosa pozione.
Dall'Inghilterra, intanto, lo scrittore-giornalista David Yallop -
autore per Tullio Pironti di una celebre ricostruzione di quella 'morte'
- continua con pervicacia a sostenere la sua tesi: il papa venne 'suicidato'.
Così
come venne 'suicidato', sotto il ponte dei frati neri lungo il Tamigi a
Londra, il patròn del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi. L'inchiesta è
riaperta, la famiglia dopo tanti anni vuole finalmente giustizia.
"Il rituale dell'esecuzione - scrive l'avvocato investigativo
californiano Jonathan Levy nel volume Tutto quello che sai è falso
edito in Italia da Nuovi Mondi Media - è tipicamente massonico, con
delle grosse pietre nelle tasche". E la matrice? Levy punta dritto
in una direzione: quella dei poteri forti della Chiesa, rappresentati
secondo lui dall'Opus Dei, che - scrive - "ha desiderato
ardentemente la Banca Vaticana e i cui quartieri generali si trovano
casualmente a Londra".
La spiegazione, ricavata dalle conversazioni con un grosso banchiere
internazionale, viene così sintetizzata: "Mi spiegò che la banca
di Calvi era sull'orlo del collasso a causa della sparizione di
centinaia di milioni di dollari passati attraverso i flussi finanziari
dello Ior che erano collegati al riciclaggio di danaro della mafia.
Preso dalla disperazione Calvi si trasferì a Londra per ottenere un
pacchetto finanziario di salvataggio proveniente da un rappresentante
anziano dell'Opus Dei". L'operazione però, secondo la
ricostruzione di Levy, non andò in porto e il corpo di Calvi fu trovato
'appeso' sotto il ponte dei Blackfriars.
L'altra pista porta
direttamente alla mafia, che si sarebbe vendicata dell'affronto subito
da Calvi, il quale non avrebbe restituito un'ingente somma di danaro da
'ripulire' (utilizzato invece per riossigenere le casse
dell'Ambrosiano). Sul fronte dell'esecuzione, comunque, fa ancora
capolino la pista di camorra: "nei giorni in cui Roberto Calvi era
a Londra - ricordano a Scotland Yard - vennero segnalate diverse
presenze interessanti: quella di Flavio Carboni e di alcuni camorristi,
fra cui Vincenzo Casillo". Luogotenente di Raffaele Cutolo,
soprannominato 'o nirone, in contatto con i servizi deviati e in
particolare col faccendiere Francesco Pazienza, Casillo due anni dopo
saltò per aria a Roma in un'auto imbottita di tritolo.
A
fine settembre scorso, poi, due botti. A Londra la polizia decide di
riaprire le indagini su quella morte, a Roma l'inchiesta portata avanti
dai pm Luca Tescaroli (che ha già indagato sulla strage di Capaci) e
Maria Monteleone (casi Mitrokin e "spectre" all'italiana) si
arricchisce di una verbalizzazione esplosiva: un pentito di mafia,
Vincenzo Calcara, per l'omicidio Calvi tira in ballo Giulio Andreotti,
elementi deviati dello Stato e dei Servizi, massoneria e ambienti
vaticani.
E sotto il Cupolone ci porta anche un'altra esistenza - e un'altra fine
- avvolta nel mistero: quella di Giorgio Rubolino, morto in piena calura
ferragostana, immediata la diagnosi d'infarto che non perdona, niente
autopsia, funerali in pompa magna in Vaticano, poi il silenzio. Fino
alla decisione dei magistrati romani, dopo neanche un mese, di vederci
più chiaro, chiedendo la riesumazione del cadavere per poter effettuare
una normale autopsia. Ma chi era Rubolino?
UNA VITA VORTICOSA
Il
suo nome balza alle cronache nazionali per l'omicidio di Giancarlo Siani,
il giornalista ucciso il 23 settembre 1985 (vedi riquadro). Due anni
dopo il procuratore generale del tribunale di Napoli, Aldo Vessia, avoca
a sé l'inchiesta bollente, fino a quel momento capace solo di
racimolare una serie di flop.
Vessia vola negli Usa, e interroga Josephine Castelli, un'avvenente
bionda al centro di strani giri. Dopo un paio di mesi scattano le
manette per il capoclan di Forcella Ciro Giuliano, per un 'gregario',
Giuseppe Calcavecchia, e per un insospettabile, il ventiseienne Giorgio
Rubolino, intimo di Josephine, una stirpe di magistrati nel pedigree (il
padre è stato pretore a Torre Annunziata), già inserito negli ambienti
che contano (fra le alte prelature soprattutto) e nella Napoli bene.
Per lui inizia il calvario, quattordici mesi nel carcere di Carinola,
fino a quando una delle tante toghe che si sono alternate al capezzale
di un'inchiesta che non riesce a decifrare colpevoli (esecutori e,
soprattutto, mandanti), Guglielmo Palmeri - sorrentino d'origine e in
ottimi rapporti con la famiglia Rubolino - lo rimette in libertà (due
mesi prima erano stati rilasciati anche Giuliano e Calcavecchia). Cade
il teorema Vessia, non regge l'ipotesi di un omicidio eseguito dai
Giuliano su ordine dei Gionta di Torre Annunziata. E, soprattutto,
sparisce la pista di via Palizzi. La pista che portava alla casa
d'appuntamenti, frequentata da giovanissime squillo (tra cui Josephine e
la sorella Pandora), e da vip della Napoli che conta: in primis,
magistrati e politici.
Fra le toghe, spicca il nome di Arcibaldo Miller, per anni pm di punta
alla procura di Napoli (sua la maxi istruttoria per il dopo terremoto
finita in prescrizione per tutti) e oggi 007 di punta del guardasigilli
Castelli. Lo stesso Miller - viene precisato in un documento al vetriolo
elaborato dalla camera degli avvocati penali di Napoli nel 1998 - ha subìto
un procedimento per "trasferimento d'ufficio" a causa di una
serie di fatti, fra cui "l'aver frequentato una casa di
appuntamenti gestita da pregiudicati affiliati alla camorra negli anni
1984-1985 in via Palizzi". Lo stesso Miller seguirà il caso Siani:
collaborerà proprio con Palmeri per cercare di sbrogliare quel
pasticciaccio brutto. Sempre più brutto. E, soprattutto, sempre senza
colpevoli.
DA ROMA A LONDRA
Torniamo
a Rubolino. Riacquistata la libertà, non riesce però a ritrovare
ancora la serenità. Vessia, infatti, ricorre contro la scarcerazione
dei tre. Trascorre un anno e, a dicembre 1989, la Cassazione respinge il
ricorso, confermando l'impostazione assolutoria di Palmeri. Il quale,
però, non riesce ancora a dare un volto, e tanto meno un nome, ai
colpevoli. Né agli esecutori, figurarsi ai mandanti.
Ma come era saltato
fuori il nome di Rubolino per il caso Siani? Non solo dal filone di via
Palazzi, ma anche in seguito alle primissime indagini sulle cooperative
di ex detenuti che, proprio a partire dal 1985, a Napoli stavano
aggregandosi e iniziando a bussare con forza ai portoni di palazzo San
Giacomo.
Il
Comune - allora retto dal socialista Carlo D'Amato - nell'autunno '85
diede disco verde per l'ingresso fra i ranghi di ben 700 detenuti
raggruppati in sei liste ("La carica dei settecento", titolò
la Voce in una cover story del dicembre 1985): nei mesi seguenti un
putiferio, una fortissima polemica a sinistra, con una Lega delle
cooperative alla deriva. "E' in quel contesto che veniva fuori
anche il nome di Rubolino - ricordano a palazzo di giustizia - una
storia intricata, tra minacce, camorra, affari e promesse. Insomma, una
vera giungla". Rubolino, riuscì a cavarsela. "Ma non la
smetteva di ficcarsi sempre in storie pericolose, sbagliate, comunque
tra soldi, salotti e personaggi poco raccomandabili".
Esce con la ossa rotte e il morale a terra, Rubolino, da queste vicende.
Si trasferisce a Roma. "Ha cercato di buttarsi tutto alle spalle e
ricominciare da capo. Ce l'ha messa tutta. Ha fatto anche un sacco di
opere di bene, volontariato, assistenza", racconta un amico.
"Non c'è riuscito a rompere col passato - aggiunge un operatore
finanziario capitolino - aveva perso il pelo ma non il vizio, continuava
a frequentare ambienti dai miliardi facili e spesso inesistenti".
Due versioni contrastanti.
Un perverso destino, comunque, sembra perseguitarlo. Nel 1999 ri-finisce
nelle galere, questa volta londinesi, per una presunta truffa da 100
milioni di sterline ai danni di una vera e propria istituzione
britannica, la Cattedrale di San Paolo. Il classico 'pacco' organizzato
secondo il miglior copione di Totò formato fontana di Trevi: siamo
venuti qui (i Magi sono cinque, due italiani, un finlandese, un canadese
e un americano) per donarvi la bellezza di 50 milioni di sterline. Unica
piccola, microscopica condizione, quella che voi depositiate per dieci
giorni, appena dieci giorni, il doppio, ovvero 100 milioni, su un conto
svizzero. Nessuno li toccherà quei soldi, assicurano.
La truffa non riesce, i cinque finiscono in gattabuia, lui, Rubolino,
viene messo in libertà e prosciolto da ogni accusa. Anche la procura di
Napoli, che si era accodata con un suo filone investigativo, lo
scagiona. E lui avvia un procedimento per ottenere un indennizzo per
quella ingiusta detenzione. "Ne aveva raccolti, comunque, di soldi
per le denunce fatte contro alcuni giornalisti che lo avevano accusato
per Siani - ricorda un amico - soldi che donò in beneficenza".
STANLEY &
PROMAN
Un
anno fa la svolta sembra dietro l'angolo. Decide di cominciare a far sul
serio l'avvocato e, quindi, di iscriversi al consiglio dell'ordine di
Roma. Raccoglie la documentazione, presenta la domanda, altra delusione:
c'è ancora una pendenza con la giustizia, per via di un procedimento
non ancora chiuso, millantato credito. "Non è cosa - raccontano
ancora nel suo entourage - non è cosa, ha pensato. Ed è ripiombato nei
suoi problemi, nella sua tristezza di prima, quando subiva accuse e
attacchi". La voglia di business, comunque, non lo abbandona: per
lui è una seconda pelle, una droga, non può farne a meno.
Ed eccolo entrare nei santuari della finanza, acquisire partecipazioni
azionarie, frequentare il mercato ristretto e la City.
Un bel giorno, diventa il padrone di una misteriosa sigla, Proman. A
quel punto, le voci cominciano a rimbalzare. Perché lui risulta
"intestatario fiduciario". Di chi, di cosa?
Ma vediamo cosa è Proman. A quanto pare si tratta di una società a
responsabilità limitata. Nel suo portafoglio spicca una partecipazione
di lusso, il 25 per cento delle azioni Stayer, una grossa sigla nel
settore elettrico, avamposti a Ferrara e Rovigo, interessi in mezzo
mondo. Un'altra consistente fetta di Stayer - pari al 29 per cento del
pacchetto azionario - fa capo a Efi, ovvero European Financial
Investments, a sua volta controllata da un'altra sigla, Danter.
Efi, dal canto suo, naviga in acque agitate, trovandosi in
amministrazione controllata, per i problemi finanziari che stanno
passando i fratelli Bergamaschi, suoi soci di riferimento, e un
pignoramento azionario effettuato da un creditore, la Euroforex. E' per
questo motivo che l'assemblea straordinaria di Stayer convocata lo
scorso 27 agosto per deliberare l'aumento di capitale a 10 milioni di
euro, è saltata. Ma non solo per questo. Ecco cosa scrive, proprio quel
giorno, un dispaccio dell'agenzia Reuter: "Il 26 agosto scorso
Stayer ha ricevuto una comunicazione dall'intermediario presso cui sono
depositati i titoli che informava del decesso di Rubolino e affermava
che i diritti sulla partecipazione spettano ai suoi eredi.
Stayer - viene aggiunto nel comunicato - non sa se e come Proman intende
resistere contro questa posizione dell'intermediario".
Resta il mistero Proman. Nei cervelloni Cerved, collegati con tutte le
camere di commercio italiane, non v'è traccia di Proman spa. Né si
segnala alcuna Proman nel cui carniere figuri una qualsiasi
partecipazione azionaria di Stayer. Un bel rebus. Val la pena, comunque,
di scorrere la lista dei soci targati Stayer. A parte due medi azionisti
(Gianfranco Fagnani e Roberto Scabbia), fanno capolino quattro sigle. A
parte un'italiana (BSPEG SGR spa, una società di gestione del risparmio
privato, con 140 mila azioni), le altre tre sono estere. Le quote minori
fanno capo a Electra Investiment Trust Plc (26 mila azioni) e a Power
Tools International (30 mila azioni). A far la parte del leone c'è Ipef
Parters Limited (664 mila azioni), sigla londinese.
Osserva un operatore finanziario milanese: "Potrebbe esserci la
presenza di Ipef nell'azionariato di Proman. Il mistero comunque è
fitto". E resta un mistero, per ora, la destinazione finale delle
azioni Proman: rimarranno nelle mani delle due sorelle di Rubolino, o
che fine faranno? E cosa c'è dietro il reticolo di sigle, incroci
azionari, spesso e volentieri giocati oltremanica? Un gioco forse
pericoloso?
Il 28 luglio scorso, poi, l'infarto. Una vita stroncata a 42 anni, dopo
un'inutile corsa all'Aurelia Hospital, "dove però è giunto privo
di vita", commenta in un dettagliato reportage il Mattino.
L'autopsia - scrive il solerte cronista, Dario Del Porto - "ha
chiarito immediatamente la natura del malore". E a scanso di
equivoci aggiunge: "Del caso pertanto non è stata neppure
interessata la procura di Roma". E ancora, ad abundantiam:
"sulle ultime ore dell'uomo non sembrano esserci misteri. Rubolino
è stato colpito da un arresto cardiocircolatorio manifestatosi durante
la notte nell'abitazione della capitale dove si era trasferito ormai da
anni".
Altri commenti nel racconto della cerimonia funebre - che si è svolta
nella chiesa di Sant'Anna dei Palafrenieri, l'unica parrocchia dello
Stato Vaticano - per la penna di un vaticanista doc, Alceste Santini.
"Si può, quindi, dire che Giorgio Rubolino ha avuto il privilegio
di avere avuto la celebrazione delle esequie, non solo in una chiesa
ambita da molti nei momenti di gioia o di dolore come nel suo caso, ma
in un luogo, qual è lo Stato Città del Vaticano, in cui la penitenza
si intreccia con il perdono come sofferente superamento dei peccati e
degli atti illeciti commessi nella vita".
Equilibrismi logici e sintattici a parte, Santini riesce comunque a
porsi qualche interrogativo. Per celebrare in Sant'Anna ci vuole la
chiave giusta: "occorre una particolare autorizzazione - scrive
Santini - ciò rivela che chi ne ha fatto richiesta aveva ed ha
entrature nel mondo vaticano. I parenti? Gli amici? Non è dato
saperlo". Avvolti nel dubbio amletico, riusciamo però a sapere che
fra le personalità presenti alla cerimonia c'erano "i parenti e
gli amici di Giorgio, fra cui il senatore a vita Emilio Colombo e altri
esponenti della borghesia napoletana".
A officiare la messa funebre il cappellano delle guardie svizzere, Alois
Jehle.
CASO SIANI A SENSO
UNICO
Caso
Siani. Chiuso per sentenza. La Cassazione ha ormai inchiodato i
colpevoli dei clan torresi che - secondo la ricostruzione del pm Armando
D'Alterio - decisero ed eseguirono quell'omicidio. Una volta tanto, la
parola fine. Tutto chiaro, allora? Molti dubbi restano in piedi. Vediamo
quali.
Il movente. Debole.
Debolissimo. Un articolo scritto mesi prima. "Per punire lo
sgarro", hanno spiegato gli inquirenti. "In quell'articolo
Siani faceva capire che i Nuvoletta avrebbero tradito i Gionta. Per
mettere le cose a posto e recuperare l'onore, la cosa andava lavata col
sangue". Credibile? Possibile che una camorra allora più che mai
rampante avesse deciso di tirarsi addosso riflettori, inquirenti, forze
dell'ordine?
Un articolo non
(ancora) scritto è molto più pericoloso di uno già scritto. Non ci
vuole la maga per intuirlo, solo un minino di fiuto e buon senso. Quello
che non sembra aver smarrito Amato Lamberti, presidente della Provincia
di Napoli e a quel tempo (siamo nel 1985) responsabile dell'Osservatorio
sulla camorra, avamposto, in quegli anni, per scrutare, capire e
radiografare i movimenti, le mutazioni e le infiltrazioni della Camorra
spa. Lamberti fu l'ultima persona a sentire Giancarlo, avevano
appuntamento per la mattina dopo, ma "lontani dal Mattino",
come raccomandava Giancarlo. Un appuntamento andato a vuoto, perché la
sera prima l'abusivo e ormai prossimo praticante giornalista veniva
freddato a bordo della sua Mehari in piazza San Leonardo al Vomero, a un
passo da casa. "Non era particolarmente preoccupato - ricorda
Lamberti - però doveva dirmi una cosa che gli premeva. Ed era urgente.
Stava lavorando ad un'inchiesta per la rivista dell'Osservatorio sugli
intrecci politica-affari-camorra nell'area torrese. Uno dei grossi
affari, allora, era rappresentato da un'area, il quadrilatero delle
carceri. E lui stava mettendo il naso in quei rapporti, sia sui
referenti locali, che su quelli più in su, di imprese e
camorristi".
A
corroborare la tesi di Lamberti, un docente universitario, Alfonso Di
Maio, padre di uno dei pm più in vista, oggi, alla procura di Salerno.
La Voce lo intervistò dieci anni fa. "Avevo incontrato diverse
volte Giancarlo in quegli ultimi mesi - affermava Di Maio - stava
lavorando, mi raccontava, a una grossa inchiesta sugli appalti nell'area
stabiese. In particolare, voleva capire se dietro al paravento di
un'impresa ci fosse lo zampino di qualche politico eccellente e
operazioni di riciclaggio della camorra". Il nome dell'impresa era
Imec (del gruppo Apreda, poi acquirente addirittura della Buontempo
Costruzioni Generali), quello del politico Francesco Patriarca, ras
gavianeo della zona, ex sottosegretario alla marina mercantile. Di Maio
cercò di raccontare quei fatti alla magistratura. Senza riuscirci.
"Mi presentai in procura. Parlai col dottor Arcibaldo Miller. Mi
disse che ne avrebbe riferito al dottor Guglielmo Palmeri che seguiva di
persona l'indagine. Sono andato due volte in procura, dietro
appuntamento, ma non sono stato mai ricevuto. Allora non mi fu data la
possibilità di verbalizzare quel che sapevo sulle ultime settimane di
Siani". Parole dure come pietre. Mentre decine e decine di testi
hanno fatto passerella davanti alla mezza dozzina e passa di toghe che
si sono alternate al capezzale di un processo quasi impossibile.
Del resto, é lo stesso fratello del cronista, Paolo, pediatra, a
rivelare qualche ombra nell'inchiesta, un 'buco nero' rimane ancora oggi
lì a lasciare spazio ai dubbi. "Giancarlo lascia la redazione di
Castellammare - ricorda - va in cronaca di Napoli, scrive sempre meno di
Torre ma si interessa sempre più della ricostruzione post terremoto e
dei rapporti camorra-appalti. Stava preparando un libro e i materiali,
dopo la sua morte, sono spariti". Una ricostruzione che lega
perfettamente con quelle di Lamberti e Di Maio.
Altri, però, ancora oggi in procura storcono il naso. "C'era
un'altra pista, battuta soltanto in fase iniziale. E solo parzialmente.
E' la pista di via Palizzi, la casa di appuntamenti, i suoi segreti
forse inconfessabili. Tanti anni fa ne parlò esplicitamente Corrado
Augias nel suo Telefono GialloŠ poi il silenzio più totale".
Chissà se il regista
Marco Risi, arrivato un paio di volte a settembre a Napoli per
completare il copione del film su Giancarlo (ispirato in parte a
"L'abusivo", il libro di Antonio Franchini, sceneggiatura
dell'esperto di misteri Andrea Purgatori, ex Corsera), riuscirà a
vedere oltre i muri di gomma che ancora circondano quella tragica morte.
"Emerge - dice Risi alla Voce - un delitto tuttora carico di
misteri e interrogativi rimasti senza risposta, nonostante i processi e
le sentenze. Questa sarà la chiave del mio film su Giancarlo".
GUARDIE E KILLER
Primavera
vaticana '98. Tre morti avvolte nel mistero. Sono le nove di sera e una
suora - sulla cui identità verrà sempre mantenuto il più stretto
riserbo - entra nell'alloggio di servizio del neo comandante delle
Guardie Svizzere, Alois Estermann. Davanti ai suoi occhi una scena
raccapricciante: tre corpi, in un mare di sangue, massacrati da
revolverate. Quello di Estermann, di sua moglie Gladys Meza Romero e del
vice caporale Cedric Tornay.
Ecco come ricostruisce i primi momenti dopo la scoperta Sandro
Provvisionato, scrittore e giornalista, nel suo sito Misteri d'Italia.
"Tra i primi ad arrivare sul luogo sono il portavoce del papa,
Joaquin Navarro Valls, laico di origine spagnola, membro numerario dell'Opus
Dei; monsignor Giovanni Battista Re, sostituto delle segreteria
vaticana; e monsignor Pedro Lopez Quintana, assessore per gli Affari
generali della Segreteria di Stato vaticana. La scena del delitto non
viene sigillata, anzi già alla 21 e 30 sono decine le persone che si
aggirano tra i cadaveri. Elementi di prova importanti vengono rimossi o
spostati.
A differenza di altri episodi avvenuti all'interno del perimetro
vaticano, come l'attentato al Papa, nessuna richiesta di collaborazione
viene inoltrata alle autorità italiane. Delle indagini si occupa il
Corpo di Vigilanza Vaticana. Prima ancora dell'arrivo del magistrato, il
Giudice Unico Gianluigi Marrone che arriva sul posto un'ora dopo, mani
ignote hanno già provveduto a perquisire non solo l'ufficio, ma anche
l'appartamento di Estermann e l'alloggio di Tornay. Quando i corpi
verranno rimossi, non sarà adottata alcuna precauzione utile alle
indagini. Anche l'autopsia sui tre cadaveri si svolgerà all'interno
delle mura vaticane".
Detto fatto, non
passano nemmeno tre ore - siamo a mezzanotte - e l'infaticabile Navarro
Valls può sentenziare: "I dati finora emersi permettono di
ipotizzare un raptus di follia del vice-caporale Tornay. E' tutto molto
chiaro, non c'è spazio per altre ipotesi". Caso dunque chiuso in
180 minuti, per Valls. Uno 007 perfetto, capace anche di estrarre dal
magico cilindro la prova delle prove: una lettera, nientemeno che una
lettera d'addio, affidata qualche ora prima (le 19 e 30, precisa
Navarro) a un commilitone dal folle vice-caporale con una lacrima e
queste parole: "Se mi succede qualcosa, consegnala ai miei
genitori".
Spiega
il portavoce-detective nella rapidissima conferenza stampa, che risolve
a tempi di Guinness una matassa altrimenti destinata a intrecciarsi
negli anni: la missiva - precisa - è stata consegnata al Giudice
Marrone, il quale la darà ai parenti di Tornay in arrivo a Roma.
"Spetterà ai familiari del vice caporale - aggiunge Valls -
decidere se rendere noto il contenuto della lettera oppure no".
Commenta Provvisionato: "Nella fretta l'astuto portavoce della
Santa Sede non si rende conto di aver commesso un errore macroscopico.
Come si può conciliare un raptus di follia con una lettera scritta
almeno un'ora e mezza prima dello stesso raptus? Spesso la fretta è
cattiva consigliera".
Intanto circola già qualche indiscrezione sull'imminente uscita del
nuovo libro-choc di Ferdinando Imposimato (autore, con Provvisionato,
del volume d'inchiesta sullo scandalo Tav). Al centro, rivelazioni sulla
scomparsa di Emanuela Orlandi, figlia di una guardia vaticana. Che
secondo l'ex magistrato, sarebbe ancora viva.