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- Libro di Carlo Bertani
Chi pagherà il conto
della “guerra del gas”?
di Carlo Bertani, autore del libro
"Al Qaeda: chi è, da dove viene
Lo scoppio improvviso della contesa per il gas fra Russia
ed Ucraina ha sorpreso – fra i politici e gli analisti internazionali
– solo chi faceva finta di non sapere: sono anni, oramai, che le
tensioni nelle aree orientali dell’Europa s’accumulano, e la vicenda
del gas russo potrebbe diventare solo un insignificante casus
belli di una contesa dai confini più ampi.
Anzitutto gli attori della vicenda, che non sono soltanto Mosca e Kiev,
bensì almeno quattro: La Russia, l’Ucraina, la Bielorussia (Belarus)
e l’enclave russa di Kaliningrad; ad essi possiamo aggiungere – sul
piano internazionale – L’Unione Europea e gli Stati Uniti. E le
sorprese non terminano qui, giacché entrano a pieno titolo nella
vicenda anche i Balcani ed il Terzo Reich tedesco.
Iniziamo dall’attore protagonista, ovvero la Russia, erede della
potente Unione Sovietica. Le attenzioni degli analisti internazionali
hanno quasi dimenticato – negli ultimi anni – lo sterminato
continente della grande Russia, ben 10 fusi orari in una sola nazione.
All’indomani del crollo dell’URSS, nessuno cercò di
capire cos’era successo; semplicemente, si raccontò che era
“crollato il comunismo”, dimenticando due aspetti essenziali: che
quello di Mosca comunismo non era – bensì capitalismo di stato – e
che nulla crolla da solo, senza che altri ci mettano lo zampino.
Il crollo dell’economia sovietica avvenne principalmente per reggere
la corsa agli armamenti con gli USA: a metà degli anni ’80, gli USA
investivano in armamenti il 6,5% del PIL, mentre l’URSS destinava ai
cannoni il 16,5%. In valori assoluti, però, quel 6,5% voluto da Reagan
per abbattere “l’impero del male” era superiore ai corrispondenti
stanziamenti russi, mentre quel 16,5% del PIL, per l’URSS, era
diventata un’inarrestabile corsa all’indebitamento ed
all’inflazione che – in un paese che non ammetteva deprezzamenti
della moneta circolante – si tramutava immediatamente in una carenza
di beni.
Le condizioni di vita dei sovietici peggiorarono in quegli anni, e la
colpa della situazione fu addossata – a torto od a ragione – sulle
spalle di Mikhail Gorbaciov, alla sua perestroijka
ed alla glasnost, la nuova
politica che riprendeva, in qualche modo, le istanze di rinnovamento di
Kruscev degli anni ’60.
Indebolito dalla sfiducia dei militari e del potente
apparato di polizia (soprattutto il KGB), Gorbaciov fu messo alle
strette: o ritornare alle vecchie abitudini di “nonno Breznev”,
oppure lasciare campo libero.
Gorbaciov – e questa rimarrà per sempre una sua grave responsabilità
storica – tentennò e non seppe scegliere: all’indomani del
grottesco putsch dell’agosto del 1991, un populista Eltsin gli presentò
il conto e l’ultimo zar dell’URSS lasciò Mosca per andare in esilio
nella dacia in campagna in treno, senza scorta, come l’ultimo dei
cittadini sovietici.
La statura politica di Eltsin, però, lasciava alquanto a desiderare:
pur avendo percorso tutti gli scalini dell’apparato di regime,
rimaneva un modesto apparatcik,
un burocrate di regime privo delle capacità politiche necessarie per
governare il difficile momento.
In quegli anni il prestigio internazionale della Russia giunse ai
minimi: una nazione ricchissima d’energia – per qualche tempo –
non ebbe kerosene per far volare la compagnia di bandiera, l’Aeroflot, mentre corruzione ed abbandono spadroneggiavano
nell’immenso paese, che rischiava sempre di più una deriva balcanica
ed uno smembramento della federazione.
Nel 1999 giunse al culmine la tensione nei Balcani, e la
guerra del Kossovo fu – per via indiretta – una guerra contro la
Russia, visto che la Serbia – pur ammettendo le “derive” di Tito
– era l’alleato storico di Mosca, che in quella breve guerra perse
un altro po’ del suo prestigio internazionale.
Nel 1999 qualcuno, a Mosca, decise che la misura era colma e che non si
poteva più perdere tempo: la prima guerra cecena s’era rivelata una
sconfitta, e serviva un vero statista al Cremlino, non un
“ammiratore” della vodka.
Il Delfino di Eltsin pareva essere Viktor Cernomirdyn – potente patron
di Gazprom, il colosso del gas
russo – che invece fu spedito come mediatore nei Balcani
(probabilmente per “bruciarlo” politicamente), e così fu: allo
scadere del mandato di Eltsin (2000) spuntò come un fungo lo
sconosciuto Vladimir Putin, ex colonnello del KGB e, per anni, addetto
d’ambasciata nella ex RDT.
La carriera politica di Putin non nacque dalla sua buona stella, ma dal
potente apparato ex sovietico che – pur presentando all’estero la
facciata della nuova Russia – continuava a reggere le fila del potere
nel paese. Un piccolo particolare: nella nuova Russia, per anni gli
ufficiali hanno continuato a far giurare i cadetti con la formula di
rito, sicché i giovani ufficiali giuravano fedeltà a Sovietskij
Soyuz.
Stupirà sapere che uno degli sponsor di Putin fu lo stesso
Gorbaciov, che lo definì “la nostra ultima speranza”: come ripagò,
il giovane judoka, la fiducia concessagli?
Anzitutto fece una “robusta” cura alla sua immagine, volando per il
paese su un cacciabombardiere militare SU-34 – che si dice pilotasse personalmente – al posto del
consueto Iliuscyn, per
confermare le attese di un “uomo forte” al Cremlino: da sempre, dal
feudalesimo al neo-capitalismo, l’uomo che siede al Cremlino è uno
zar, ed un condottiero deve instillare un’idea di forza e di coraggio.
Politicamente, gli spazi internazionali della Russia erano oramai
ridotti al lumicino, ma il buon Vladimir non si perse d’animo e tornò
a bussare alla porta dei vecchi alleati: Libia, Vietnam, Corea, ma anche
in Cina ed in India, per vendere l’unico bene tecnologico che l’URSS
aveva lasciato in eredità alla Russia, ovvero le armi.
Bisogna ricordare che il crollo del sistema sovietico non intaccò
profondamente l’apparato militare industriale della Russia, l’unica
nazione in grado di produrre tecnologia aerospaziale a livello degli
USA.
Grazie ad alcuni indovinati modelli (la serie dei caccia SU-27,
il semovente antiaereo Tunguska,
ecc) ripresero le forniture d’armi, e Putin non esitò a dirottare le
poche risorse disponibili per mantenere ad alto livello i centri di
ricerca. Non venivano più costruite larghe serie di velivoli, ma pochi
prototipi per non scadere troppo rispetto al livello USA.
“Aiutati che il ciel t’aiuta”, narra un noto proverbio, e dopo il 2000 il cielo iniziò proprio ad aiutare la disastrata Russia, giacché il prezzo del petrolio iniziò a volare, trascinandosi appresso anche gli altri combustibili fossili, ovvero gas e carbone.
Per la Russia, l’aumento dei prezzi dell’energia fu manna dal cielo:
un paese che possiede il 15% del petrolio mondiale, il 40% del gas e
circa il 70% del carbone non poteva attendersi nulla di meglio.
Grazie ai maggiori introiti dell’energia, nel 2003 Putin aumentò del
50% le spese per la ricerca in campo militare: i risultati furono il
missile intercontinentale Topol-M,
che ha vanificato qualsiasi “scudo stellare” americano, gli SS-26
Iskander venduti alla Siria, micidiali missili a medio raggio che
sono difficilmente intercettabili ed i missili antinave Mosquit, con raggio d’azione di 200 Km, venduti all’Iran. Anche
l’elettronica ha compiuto passi in avanti, e gli unici radar in grado
di scovare gli aerei stealth
americani (F-117, B1, B2) sono i russi S-300 ed S-400.
L’Iran fu il nuovo acquisto della rinnovata “scuderia” russa: oggi
Mosca costruisce le centrali nucleari iraniane ed ha ristrutturato
completamente le forze armate di Teheran, che è entrata nel “patto di
Shangai”, un sodalizio fra Russia, Cina e le repubbliche ex sovietiche
dell’Asia centrale.
Oggi Mosca procede con incrementi del PIL pari al 7% annuo,
grazie all’energia ed alle armi, mentre la lotta agli oligarchi
dell’energia ha ricondotto sotto controllo statale il fiume di denaro
che esce dai giacimenti siberiani. Anche la situazione finanziaria è
abbastanza rosea: la Russia ha pressoché estinto l’enorme debito
estero ricevuto in eredità dall’URSS, e nelle casse statali ci sono
riserva in valuta estera per ben 170 miliardi di dollari, più altri 50
che sono immobilizzati in un “fondo di compensazione” per sopperire
alle oscillazioni dei prezzi.
Questa è la situazione russa sotto l’aspetto economico: e gli aspetti
strategici? Qui non sono tutte rose e fiori, anzi.
Il grande timore russo è l’accerchiamento: a ben vedere, la stessa
paura dei sovietici e, ancor prima, degli zar. L’accerchiamento ad est
non preoccupa molto, giacché gli USA possono appena resistere in Iraq,
e per nuove avventure di guerra nel pianeta mancano soldi e uomini. Ad
ovest, invece, la situazione è critica: dapprima gli USA finanziarono
circa 300 ONG in Bielorussia, per cercare di piegare l’alleanza con
Mosca di Lukaschenko – il padre-padrone del paese – ma non
riuscirono nell’intento.
La seconda mossa – questa riuscita – è stata la rivoluzione
“arancione” in Ucraina, che ha condotto al potere il
filo-occidentale Yuschenko. La parola meno gradita da pronunciare a
Mosca è “NATO”, e proprio il ventilato ingresso nella NATO
dell’Ucraina (e, forse, nell’UE, ma questo è un obiettivo assai più
lontano) ha fatto scattare l’allarme al Cremlino.
Mosca non vuole e non può permettersi che gli USA
s’installino negli aeroporti ucraini, giacché ne risulterebbe
compromessa la stabilità della regione: perché? Poiché
l’indipendenza della Lituania dall’URSS e l’ingresso della Polonia
e della stessa Lituania nell’UE hanno portato all’accerchiamento
dell’enclave russa di Kaliningrad, un “pezzo” di Russia sul basso
Baltico che non ha più confini con la madrepatria[1].
La questione è seria, tanto che – nel 2005 – lo stesso Putin (con
Chirac e Schroeder al fianco) è intervenuto ai festeggiamenti per un
importante anniversario della città di Kaliningrad (prima, quando era
tedesca, si chiamava Koenisberg), la città dove nacque Immanuel Kant.
Durante i festeggiamenti, Putin ha chiarito che la Russia non accetterà
mai nessuna “ridefinizione” dei confini o qualsiasi accordo che
preveda maggiori difficoltà per le comunicazioni fra l’enclave e la
madrepatria. C’è da capirlo: quel fazzoletto di terra sul Baltico
consente a Mosca d’essere presente in un importante scacchiere, sia
per gli aspetti militari, sia per quelli energetici.
E’ evidente che altri non sono dello stesso parere, a cominciare
proprio dagli USA, che hanno messo a segno un colpo da maestro con
l’insediamento di Yushenko in Ucraina.
E l’Ucraina? Il paese è estremamente povero e diviso:
all’ovest, la regione di Leopoli (L’viv)
è ucraina solo dal 1939 (ma a quel tempo era URSS), giacché la sua
cessione ai sovietici fece parte dello sciagurato patto fra il ministro
degli esteri di Hitler, von Ribbentrop, ed il suo corrispondente
sovietico, Molotov, ai danni della Polonia.
Ad est, invece, verso Kharkov e Donets’k c’è una forte componente
russofona, che ha mal digerito l’ascesa di Yushenko, giacché la
deriva verso occidente viene vista come un salto nel buio per
popolazioni che – pur essendo ucraine – guardano ancora a Mosca come
punto di riferimento.
Noi occidentali incontriamo qualche difficoltà a comprendere
l’intrico geopolitico che, poco oltre la frontiera triestina, giunge
agli Urali: le popolazioni slave sono abituate a salutare mostrando il
numero tre con le dita della mano destra, e questo gesto – di per sé
soltanto simbolico – ha invece profonde implicazioni.
Il “tre” non rappresenta la Trinità, bensì la comune religione
(ortodossa), la lingua (slava) ed il popolo (slavi): in altre parole, lo
slavo avverte un senso d’appartenenza alla “nazione slava” sulla
base di criteri che non considerano in alcun modo la ragione
illuminista, un fenomeno che appartiene anche agli arabi. La stessa
parola Jugo-slavia significa semplicemente “Slavi del sud”.
Questa premessa può chiarire meglio i complessi fenomeni
culturali, razziali, economici e politici che agitano l’est europeo:
molti ucraini – proprio in contrapposizione allo “slavismo” –
entrarono a far parte delle truppe del Terzo Reich, ed un nutrito gruppo
di ucraini con le mostrine tedesche fu preso prigioniero dagli
americani, nel maggio del ’45, nei pressi di Venezia, dov’erano
addetti all’artiglieria costiera. Quegli uomini s’arresero soltanto
dopo aver ricevuto ampie assicurazioni che non sarebbero mai stati
consegnati ai sovietici.
Scorrendo molto rapidamente le pagine della storia, si può capire come
l’affermazione di Yuschenko – e la sua decisa apertura all’Europa
ed alla NATO – sia un elemento di rottura, così come lo fu la
completa “sovietizzazione” dell’Ucraina. “Terre di mezzo”,
verrebbe da dire, e mai appellativo fu più indovinato: regioni che
possono sopravvivere senza troppi scossoni a patto di fare del
compromesso la ragion di stato.
Lo stesso Yushenko – ad appena un anno dalla sua elezione – ha
perduto gran parte dei consensi nella popolazione, giacché la politica
di contrapposizione alla Russia ha provocato una repentina contrazione
dell’economia, mentre gli occidentali – alle prese con
l’allargamento dell’Unione e con l’Iraq – non sono stati certo
prodighi d’aiuti. Per alcuni aspetti, la vicenda populista di Yushenko
assomiglia a quella di Berlusconi: entrambi saliti al potere grazie al
denaro ed all’appoggio (profumatamente pagato) dei media, e presto
rivelatisi un bluff. Tanti proclami: miglioramenti per la parte più
ricca della popolazione e peggioramenti per tutti gli altri.
Il primo gennaio 2006 scatta la trappola di Putin che –
come in un piatto di poker – decide di vedere le carte
dell’avversario. L’indipendenza dal gas russo potrebbe diventare
realtà, con il passaggio al carbone per l’industria energetica
ucraina, ma la conversione richiederebbe molti anni, e Mosca non sembra
disposta a concedere altro tempo a Kiev. L’altra alternativa è il
nucleare, ma lo stato nel quale si trovano le vecchie centrali
sovietiche (Chernobyl…) non consentono certo di guardare ad un futuro
roseo e, soprattutto, sicuro.
La contesa ha sì contenuti economici – giacché il prezzo di 50$ per
1.000 m3 stabilito a suo tempo era un prezzo politico, pari
alla quarta parte di quello pagato in Occidente, ed i russi non hanno
interesse a favorire un ex alleato che ha cambiato campo – ma qui è
l’aspetto strategico a prevalere.
Cosa possiamo attenderci? Nel lungo periodo la soluzione già esiste: un
nuovo gasdotto collegherà la Russia (via Bielorussia, Polonia,
Kaliningrad) alla Germania; addirittura, la società che dovrà
costruire la condotta è russo-tedesca, con Gazprom
a fare la parte del leone e l’ex cancelliere tedesco Schroeder nel
consiglio d’amministrazione. Per l’Ucraina, il nuovo gasdotto
potrebbe rappresentare la fine del gas russo.
E nel medio periodo?
Per gli anni a venire è stato siglato un accordo che ha fatto tirare a
tutti un sospiro di sollievo: finalmente, dopo la guerra, la “pace”
del gas. Gli ucraini pagheranno il gas russo 95$ per 1.000 metri cubi, e
questa sembrerebbe una sconfitta russa, ma per Kiev significherà
raddoppiare il costo dell’energia: non si tratta certo del miglior
viatico per affrontare un anno elettorale, visto che i costi
dell’accordo verranno scaricati sulla popolazione. Ovviamente, Mosca
non “lavora” per Yuschenko.
Ed il minor introito russo? Niente paura, di vera pace si tratta, giacché
il vicepresidente di Gazprom, Medvedev – che è in realtà il vero patron
del gigante russo del gas – verrà presto in Occidente per
“rivedere” i prezzi, gli accordi e le forniture. Da Mosca, però, ha
già precisato che il metano russo subirà un aumento del 10%: ecco chi
pagherà la “pace” del gas, ed ecco perché la presidenza di turno
austriaca dell’Unione ha invitato i paesi membri ad una “profonda
riflessione” sul futuro dell’approvvigionamento energetico. Che, al
primo accenno alle energie rinnovabili, come sempre finirà a tarallucci
e vino.
Carlo Bertani
bertani137@libero.it
www.carlobertani.it
[1]
La querelle sull’enclave russa di Kaliningrad, completamente separata
dalla madrepatria, è forse il peggior ”regalo” che la caduta
dell’URSS fece all’Europa, per alcuni versi paragonabile alla
nota vicenda di Danzica prima della Seconda Guerra Mondiale.
Ricordiamo che, nel 1939, i nazisti invocavano la guerra contro