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Un interessante editoriale di
Henry Kissinger in cui è possibile leggere tra le righe scopi e intrighi
dell'Impero.
Il filo da Osama
all'Irak
di Henry Kissinger, 5
settembre 2002
Gli attacchi all’America dell’11 settembre 2001 hanno scosso dalle
fondamenta il concetto di sovranità che fin dal trattato di Westfalia
del 1648 ha sorretto la legittimità del sistema internazionale. I suoi
principi fondamentali attribuivano alla politica estera il ruolo di
prerogativa di nazioni immaginate come pari fra loro e tenute a non
interferire nelle rispettive politiche nazionali. Con l’11 settembre
il mondo è entrato in una nuova era, nella quale organizzazioni private
ed esterne al sistema statale si sono dimostrate capaci di minacciare la
sicurezza nazionale e internazionale con attacchi a sorpresa. La
polemica in corso sulla necessità della prevenzione è un sintomo
dell’impatto di questo mutamento. Alla base c’è il
conflitto tra la nozione tradizionale di sovranità e l’adattamento
richiesto dalla tecnologia moderna e dalla natura della minaccia
terroristica. La base di Osama bin
Laden era sul territorio di uno Stato sovrano, ma i suoi obiettivi
trascendevano la sfera nazionale. Elementi addestrati e altamente
specializzati erano stati infiltrati in tutto il mondo, alcuni nel
territorio dei più stretti alleati dell’America, altri perfino
all’interno della stessa America. Godevano di supporto finanziario e
logistico da parte di un certo numero di Stati e soprattutto da parte di
privati evidentemente non controllabili dai rispettivi governi di
appartenenza. Le loro basi di
addestramento erano dislocate in diversi paesi, ma solitamente in aree
non controllate o non controllabili dai governi nazionali, come nello
Yemen, in Somalia o magari in Indonesia. Minacciando
direttamente gli Stati Uniti i terroristi si erano garantiti sul fatto
che la battaglia si sarebbe svolta secondo le regole imposte dalla
speciale natura dell’America. Perché l’America non ha mai pensato a
se stessa semplicemente come a una nazione tra le altre. Il suo ethos
nazionale si esprime come una causa universale perché identifica la
chiave di volta della pace nell’espandersi della democrazia. La
politica estera americana trova più facile confrontarsi con le
categorie del bene e del male piuttosto che con i sottili calcoli sulla
convenienza nazionale delle diplomazie dei Consigli dei ministri
europei. In Europa le voci
critiche che si rifanno al pensiero più tradizionale accusano gli
americani di avere reagito in modo eccessivo perché, fondamentalmente,
il terrorismo per loro è un fenomeno nuovo: gli europei negli Anni 70 e
80 lo sconfissero senza bandire crociate planetarie. Ma il terrorismo di
vent’anni fa era di tipo differente. Lo praticavano solo cittadini del
paese in cui avvenivano gli atti di terrorismo (o, nel caso dell’Ira,
in Gran Bretagna, appartenenti a un gruppo che avanzava particolari
rivendicazioni). Benché alcuni gruppi ricevessero aiuti da servizi
segreti stranieri, le loro basi si trovavano nei paesi in cui agivano. Le loro armi per lo più
erano adatte soltanto ad attacchi individuali. Per contro, l’11
settembre i terroristi operano su base mondiale, sono motivati, più che
da una specifica rivendicazione, da un odio generalizzato e hanno
accesso ad armi che possono ben supportare la loro strategia di uccidere
migliaia di persone e anche più. Subito dopo l’11 settembre questa
sostanziale differenza svanì nello choc generale, che fece aprire gli
occhi a molte nazioni sull’importanza degli Stati Uniti come
garanti della stabilità internazionale nel senso tradizionale
del termine. Gli aspetti di polizia
e intelligence internazionale della lotta al terrorismo - cioè quelli
più compatibili con il principio della cooperazione fra Stati sovrani -
ricevettero un appoggio pressoché universale da parte della comunità
internazionale. Poiché l’attacco agli Stati Uniti era stato lanciato
dal territorio di uno Stato sovrano, la guerra contro Al Qaeda e i
taleban in Afghanistan registrò un consenso molto diffuso e ottenne
piena collaborazione. Ma, avviata a conclusione l’operazione afghana,
la fase successiva della campagna contro il terrorismo era destinata a
porre l’accento su come affrontare la minaccia di un evento, piuttosto
che la sua manifestazione. All’epoca del
trattato di Westfalia erano gli spostamenti degli eserciti a far
presagire il pericolo, ma oggi la moderna tecnologia al servizio del
terrore non concede avvisaglie e gli esecutori svaniscono
nell’attuazione stessa dell’attacco. Ne discende che, se si profila
la seria prospettiva di una minaccia terroristica dal territorio di un
paese sovrano, una certa opera di prevenzione - compresa l’azione
militare - è parte integrante dell’allerta. E gli Stati che
ospitano i covi dei terroristi o i loro centri di addestramento non
possono invocare il concetto tradizionale di sovranità, perché la loro
integrità nazionale è stata preventivamente violata dai terroristi. A
questo punto il tema della prevenzione in senso lato contro il
terrorismo si fonde inevitabilmente con il discorso sull’Iraq. Forse
il più importante problema a lungo termine, fra quelli all’ordine del
giorno della comunità internazionale, riguarda la proliferazione delle
armi di distruzione di massa, in special modo negli Stati privi di
controlli interni sulle decisioni dei loro governanti. Se non si vuole
che il mondo vada incontro all’apocalisse bisogna trovare un
modo per impedire la diffusione di queste armi. I principi di deterrenza
della Guerra Fredda non si applicano quando è coinvolta una molteplicità
di Stati, alcuni dei quali ospitano terroristi capaci di causare
distruzioni immense. A quei tempi l’assetto del mondo rifletteva una
certa uniformità di propositi in entrambi gli schieramenti e un
sostanziale equilibrio nella distribuzione del rischio tra ambo le
parti. Ma quando molti Stati si minacciano l’un l’altro per motivi
contrastanti, a chi tocca agire da deterrente e di fronte a quale
provocazione? E ciò che deve essere
neutralizzato non è semplicemente l’uso delle armi di distruzione di
massa, ma la loro minaccia. E’ compito degli Stati Uniti
assumersi questo ruolo, su base planetaria, in ogni contingenza?
E’ imperativo mettere a punto un sistema internazionale di
prevenzione. Per questo l’accumulo di armi di distruzione di massa in
Iraq non può essere ritenuto un problema separato dalla fase
post-afghana della guerra al terrorismo. L’Iraq si trova al
centro di una regione che è stata il focolaio dell’attività
terroristica internazionale cui si deve l’organizzazione
dell’attacco agli Stati Uniti. La minaccia che rappresenta non dipende
esclusivamente dal suo grado di coinvolgimento con Al Qaeda, quantunque
questo Stato abbia usato l’arma del terrorismo contro i suoi vicini,
contro Israele, e anche contro l’Europa. Per gli Stati Uniti tollerare
che si accumulino riserve di armi letali là dove le nuove forme di
terrorismo hanno visto la luce significa essere sconfitti non soltanto
sulla proliferazione delle armi ma anche sull’atteggiamento
psicologico nei confronti del fenomeno. L’accumulo
indisturbato di questi armamenti per più di un decennio dopo la Guerra
del Golfo, a dispetto delle restrizioni imposte dalle Nazioni Unite come
condizione per l'armistizio, non può che rappresentare, agli occhi dei
terroristi e dei loro fiancheggiatori, una mancanza di volontà o di
capacità di proteggersi da parte delle società minacciate. Da
questa prospettiva, l’azione contro l’Iraq non è un ostacolo alla
guerra al terrorismo, ma, al contrario, un suo prerequisito. Alcuni
sostengono che questi depositi non esistono e non esisteranno
nell’immediato futuro. Su questo argomento io accetto la parola
dell’amministrazione Bush. Come nazione più
potente al mondo noi abbiamo gli strumenti per sostenere i nostri punti
di vista. Ma abbiamo anche lo speciale obbligo di basare le nostre
scelte politiche su principi che trascendano l’imposizione del potere
del più forte. Un ruolo di leadership mondiale richiede
l’accettazione di alcuni vincoli anche sulle proprie azioni, per fare
sì che gli altri compiano sforzi analoghi. Non è nel nostro interesse,
né di quello del mondo, aprire la strada a regole che garantiscano a
ogni Stato un diritto insindacabile di prevenzione contro ciò che
valuta soggettivamente come una minaccia alla propria sicurezza. Di conseguenza, il
tema della prevenzione dovrebbe far parte di un serio sforzo di
consultazione, al fine di stabilire principi generali che le altre
nazioni possano trovare condivisibili. Certo, la E, alla resa dei
conti, gli Stati Uniti si riserveranno il diritto di intervenire da
soli. Ma è molto diverso se l’America agirà da sola come
ultima risorsa, invece che per una preferenza strategica. Soprattutto,
una volta che il Presidente abbia annunciato la sua decisione e fatto sì
che l’Amministrazione si esprima con una sola voce e senza ambiguità
- cosa che non è avvenuta negli ultimi mesi - è difficile credere che
i nostri alleati potranno gettare a mare mezzo secolo di Alleanza
atlantica. Troppo, nei commenti europei in proposito, è pilotato dalle
politiche nazionali. La preoccupazione
dell’amministrazione Bush per la proliferazione degli armamenti in
Medio Oriente coinvolge almeno uno dei pilastri dell’emergente ordine
internazionale. Non dovrebbe essere liquidata con accuse di avventurismo
ed è improbabile che lo sia, una volta che l’orientamento
dell’America sia chiaro e le pressioni elettorali europee si siano
acquietate. La questione al centro delle consultazioni dovrebbe essere
la distruzione delle armi di distruzione di massa, così come prescritto
dalle risoluzioni dell’Onu. Questo dovrebbe
evitare di stabilire come principio di politica internazionale che
spetti a una singola nazione il diritto di favorire un cambio di regime.
Né porre al centro del problema la questione delle armi di distruzione
di massa implica ritornare al precedente e fallimentare sistema delle
ispezioni. Al contrario, l’Amministrazione dovrebbe promuovere la sua
idea di fissare, entro un breve lasso di tempo, un’ispezione a prova
di frode. Questo implica la possibilità di effettuare controlli a
richiesta, l’accesso illimitato, tolleranza zero per ogni
interposizione degli ufficiali iracheni fra gli ispettori e i loro
compiti. Per dare efficacia
operativa all’iniziativa, dovrebbe essere creata una forza militare
internazionale autorizzata a intervenire, con il compito di vigilare in
loco per rimuovere prontamente ogni ostacolo alla trasparenza. Nella
pratica, una soluzione di questo genere porterebbe a un cambio di
regime, perché la dittatura di Saddam Hussein è incompatibile con
queste esigenze di chiarezza. E sarebbe, anche, la strategia adatta per
definire obiettivi politici gestibili in una situazione in continuo
divenire. E’ necessario un
lungo periodo di ricostruzione nazionale dell’Iraq; ma le incognite
politiche del turbolento Medio Oriente si affrontano meglio per gradi.
L’Iraq non è uno Stato-nazione; fu creato alla fine della Prima
guerra mondiale come contrappeso all’Iran e per bilanciare le rivalità
nella regione. Un Iraq unito e
responsabile resta importante, ma non possiamo, a questo punto, sapere
quali misure politiche occorrano per realizzarlo. Dopotutto in Turchia,
l’unica democrazia della regione, il regime pluralista è arrivato
dopo vent’anni di benevolo autoritarismo. Un periodo paragonabile di
governo militare da parte delle potenze occidentali nel cuore del mondo
musulmano sarebbe tuttavia difficile da immaginare. E i paralleli
storici come l’occupazione della Germania servono a ben poco. Non possiamo risolvere
tutti questi problemi in anticipo, e a maggior ragione questi argomenti
non dovrebbero essere usati per evitare di prendere una decisione, ma
dobbiamo cominciare a esaminarli senza indugio, e dobbiamo capire che ci
sono troppi interessi coinvolti perché l’America sia lasciata sola a
gestire l’evoluzione politica nell’Iraq del dopo Saddam. Mentre la necessità
di una scelta si avvicina, i nostri alleati non possono permettersi di
restare semplici spettatori. E, nel momento in cui gli Stati Uniti
assumono l’iniziativa, non dovrebbero esporsi unilateralmente prima di
aver saggiato la possibilità di agire come custodi di un interesse
generale. Copyright
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