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Il
Grande Inganno: l’oro e la guerra
di
Gian Paolo Pucciarelli – tratto da http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=10590
Prima del 1914
un’oncia d’oro valeva 20 dollari in United States Note. Con una
banconota da 20 dollari si comprava, al netto delle spese di cambio, una
moneta d’oro del peso di gr. 31 circa. Oggi occorrono 50 banconote da
20 dollari (Federal Reserve Notes) per comprare la stessa moneta
d’oro, ammesso che sia disponibile.
Il che sembra ovvio o, meglio, “fisiologico”. Tutto si spiegherebbe
con la perdita, nel corso del tempo, del potere d’acquisto della
moneta, ignorando il fatto che chiunque ne faccia uso deve
simultaneamente farsi carico di un debito e assumere l’onere perpetuo
di pagarne gli interessi.
Il che, beninteso, non è evidente, ma grazie alle alchimie politiche e
alla scienza attuariale è economicamente corretto, anche se eticamente
truffaldino.
La moneta a corso
legale, infatti, non è soltanto un mezzo di pagamento, ma può
diventare, con estrema facilità, lo strumento di speculazione del
capitale privato.
Chi non ci crede, potrebbe dare un’occhiata al capitale di Bankitalia
o della BCE in regime Euro (nell’anno Domini 2011). Ma dovrebbe anche
chiedersi perché a Londra esiste il LBMA (London Bullion Market
Association), inaccessibile luogo in cui viene quotidianamente fissato
il prezzo dell’oro sul mercato mondiale.
Che la cosa avvenga dal
1919 (l’anno dei diffusi sospetti) è poco convincente, anche se
rivestita di ufficialità. La pratica infatti risale al 1815, ma il vero
precedente è del 1773. Allora l’idea di Mayer Amschel Bauer diventa
tecnica finanziaria che condizionerà l’economia dell’età
contemporanea.
Costui (Mayer Amschel) ha una piccola bottega a Francoforte sul Meno, ma
non è artigiano, bensì mercante d’oro, come lo chiameranno più
tardi almeno due generazioni di regnanti inglesi, cioè “The
Goldsmith” (che significa anche “gold dealer”). Appellativo che
gli resterà appiccicato anche quando suo figlio, Nathan Mayer, sarà
nominato baronetto da Re Carlo III (dinastia Hanover) e da questi
assunto in via permanente alla corte britannica, in qualità di
consigliere economico di Sua Maestà.
L’idea (sulle prime
assai peregrina) di Mayer Amschel Bauer consiste nel finanziare il Re
(in oro) a patto che questi gli affidi il compito esclusivo di esattore
delle imposte, ferma restando la facoltà del finanziatore di negoziare
i certificati di deposito equivalenti su piazze diverse.
Il progetto è geniale, ma per realizzarlo occorre entrare nel giro
della “Judengasse”, dove l’oro si scambia col denaro liquido in
cospicue quantità e ben oltre la competenza di meno nobili strozzini
che prosperano nei vicoli adiacenti.
Nel salto di qualità è
anche opportuno assumere un nuovo cognome, che (per legge) si deve
cambiare. Lo suggerisce uno scudo rosso (Roth-Schild), simbolo che
troneggia sopra la vecchia bottega del banco dei pegni. Mayer Amschel
diventa Rothschild. Ma è solo il primo passo. Occorre coinvolgere i
grandi “Gold Dealers” di Francoforte, invitandoli a impiegare i loro
sostanziosi capitali in operazioni più redditizie (rispetto a quelle
correnti e limitate alla sola piazza della città sul Meno). Maestro
nell’arte della persuasione e assai dotato di fiuto diplomatico,
Rothschild instaura una sorta di colossale gioco senza frontiere,
puntando l’intera posta sul tallone d’Achille delle grandi potenze,
il bilancio.
Pretese imperialistiche e fermenti sociali non sono per lui che segnali
indicatori del giusto investimento dei crescenti capitali di cui egli può
gradualmente disporre.
L’oro è “moneta”
internazionale, capace di comprare popoli e sovrani e di sostituirsi
alle banconote correnti (lo sanno i monarchi sognatori e i rivoluzionari
che rincorrono utopie). Ma può diventare un vincolo o costituire
viceversa credenziale necessaria (e non sempre, sufficiente) alle
manovre finanziarie che le circostanze politiche possono giustificare.
Tutte cose che Rothschild intuisce, prevedendo possibilità di guadagno
sulla convertibilità della moneta, ma lucrando anche sulla negoziazione
dei certificati di deposito che l’equivalente in oro dovrebbero
rappresentare. Fra controversie mai pienamente definite, nasce così il
gold-standard.
Ma il dubbio sulla
concreta esistenza d’una riserva aurea (corrispondente alla circolante
moneta) è secolare, come del resto quello sulla variabilità del
rapporto oro/moneta.
L’idea del Rothschild diventa comunque, nell’Europa rivoluzionaria e
nei decenni a venire, criterio monetario, in base al quale si crea
moneta e si lucra sul gettito fiscale.
Questo è possibile anche quando dell’oro non si dispone (o se ne è
perso il possesso). Come?
Contrattando i certificati di deposito equivalenti alle Borse di Parigi,
Londra e Francoforte, per farne fra l’altro riserva sostitutiva che
giustifichi l’emissione di altre banconote (nel linguaggio Fed,
“legal tender”), cioè denaro d’uso corrente.
Nella circostanza (al
tempo dell’”illuminato” Mayer Amschel) si prospetta al Re
l’opportunità di tutelare la difesa del Regno, acquistando armamenti.
L’oro, in caso di guerra, è garanzia reale, ma nei mercati finanziari
si trattano i titoli che lo rappresentano. Lo impareranno, a loro spese,
il Bonaparte a Waterloo e, centotrenta anni più tardi, Adolf Hitler.
S’inaugura così l’economia speculativa del libero mercato che mal
sopporta gli equilibri politici e vede, nel conflitto armato, ghiotte
occasioni di guadagno.
Rothschild si garantisce
l’esclusiva competenza sulla negoziabilità dei certificati di
deposito e l’eventuale agganciamento al gold-standard, costituendo
Rothschild Houses, a Londra, Parigi, Vienna e Napoli, alla cui guida il
neo banchiere colloca (Francoforte compresa) i suoi cinque figli.
L’ordine è imperativo: prima di cedere l’oro al Re, gli si fa
sottoscrivere un contratto, in cui egli riconosce il debito (del regno)
e autorizza il finanziatore ad emettere moneta, in quantità
equivalente, attraverso una o più banche. Vale in tal senso il noto
certificato di deposito, sottoscritto dal monarca, che dell’oro ha
bisogno, per fare una guerra o soffocare una rivoluzione (oppure, come
spesso accade, per risanare il bilancio). La convertibilità dell’oro
in moneta corrente è utilissima nel caso in cui il Re diventasse
insolvente o rifiutasse di seguire certi consigli politici. I
cospiratori in tali evenienze si pagano in banconote, così come le
rivoluzioni che, senza soldi, non si possono fare.
Nello stesso modo si
finanziano anche le forze reazionarie, purché il successivo governo,
nato dalla restaurazione, affidi a Casa Rothschild il controllo della
finanza pubblica.
Il Network dello Scudo Rosso funziona alla perfezione, visti i tempi che
corrono in Europa e nel Nuovo Mondo, dove la Corona inglese rischia di
perdere il controllo politico e monetario della sua colonia
nordamericana. Il capostipite dei Rothschild, oltre che astuto mercante,
è attento osservatore di una società in fermento, in cui le tensioni
fra classi s’avvicinano al punto di rottura, mentre si va affermando
nel Vecchio Continente la forza del “Terzo Stato” o Borghesia.
Il Teatro europeo sembra
ideale campo di applicazione della tecnica generatrice del debito
pubblico permanente, per mezzo della quale si può trasformare il
patrimonio nazionale in capitale privato.
Essa è suggerita dal principio secondo cui il denaro (alias certificato
di deposito in oro, la cui concreta esistenza può anche essere
ipotetica) è mezzo di pagamento liberatorio dai vincoli di un debito,
che pur dipende dal… dove e quando. Cioè dalla diversa valutazione
dell’oro o del certificato che lo rappresenta. Questo spiega, fra
l’altro, perché Edoardo III nel 1345 rifiutò di aderire alle
richieste del banchiere Bardi di Firenze. Infatti, perdurando allora la
Guerra dei Cent’Anni, la quotazione dell’oro era alle stelle nel
Regno Inglese (grazie all’alta richiesta del metallo prezioso,
destinato all’acquisto di armi e alla costituzione di nuovi eserciti)
e costituiva pretesto per non soddisfare le pretese del banchiere
fiorentino (che chiedeva, documenti alla mano, la restituzione della
stessa quantità d’oro a suo tempo prestata al Monarca).
Capitale che, convertito
in fiorini, “valea un Regno” come ci racconta il Villani, perché
riferito al prezzo dell’oro, ma in circostanze e tempi diversi.
Quattrocento anni dopo, grazie al suo intuito, Rothschild può ovviare
all’inconveniente mettendo in gioco i mercati finanziari (Amsterdam,
Londra, Francoforte e più tardi Parigi e New York), nei quali sono
negoziati i certificati di deposito. Di mezzo c’è sempre “Re
Mida”, che ha messo insieme un bel mucchio di questi documenti
rappresentativi e intende investirli dove l’oro vale di più: sulla
piazza in cui c’è maggiore richiesta, perché si prevede una guerra e
un aumento di spesa per gli armamenti, oppure un moto rivoluzionario e
la fornitura d’armi e denaro agli insorti. Il clima teso, originato da
spinte imperialistiche e prospettive d’indipendenza, agevola
l’impiego di capitali (oro o corrispondenti certificati).
Ma, come già osservato,
se il Re deve fare la guerra, il prezzo dell’oro sale. Di conseguenza
uno scaltro investitore, messo nelle condizioni di poterlo fare,
favorisce lo scoppio del conflitto, nascondendo opportunamente i meno
nobili intenti che lo causano.
Il banchiere del Re, che non può ignorare i rapidi sviluppi del
razional-liberalismo, troverà infatti buone occasioni d’investimento
nel finanziare anche quelli che al Re si oppongono, a condizione che
l’”affidamento” (o debito) sia poi pagato sotto forma di tributo
dai cittadini contribuenti. Il ruolo del banchiere prevede dunque
l’eventualità ch’egli possa, all’occorrenza, farsi portavoce di
masse oppresse, se ciò favorisce i suoi obiettivi finanziari, non
escludendo l’ipotesi di un proprio decisivo sostegno al presunto
oppressore, contro cui sarà legittimo finanziare una guerra di
liberazione. Quest’ultima rientra in tal modo nel novero delle guerre
giuste, finanziariamente sostenute, allo scopo di trarne comunque un
profitto.
Casa Rothschild diventa
specialista del settore e opera attraverso una rete di selezionati
agenti, sparsi in Europa, Asia e le due Americhe.
Nella Francia di Luigi XVI si nota l’allarmante aggravarsi del debito
pubblico che sfiora nel 1783 il picco insostenibile di 1.640 milioni di
“livres”, grazie alle incaute manovre del Ministro delle Finanze
Calonne, che già è ricorso al mercato dell’oro gestito dal
Rothschild. Le tasse a carico dei contadini non bastano a pagare gli
interessi. S’impone la famigerata “taglia”, classica goccia che fa
traboccare il vaso. E il resto che segue è noto. I titoli del Regno
francese sono trattati alla Borsa di Francoforte e Londra che ne
determinano un sensibile calo, tanto da indurre Parigi a sospendere le
contrattazioni. Al Re che non paga si taglia la testa e… nasce l’età
contemporanea. A Londra si costituiscono le prime “Accepting Houses”
nei cui forzieri è custodita gran parte del Tesoro della Corona
francese. La regìa della finanza londinese è affidata a Nathan Mayer
Rothschild, il quale propone l’immediato sganciamento della sterlina
dal gold standard quando si forma la Settima Coalizione che a Waterloo
dovrà porre fine all’aggressività e ai sogni utopistici del
Bonaparte, che da anni saccheggia l’oro di mezza Europa, Nord Africa e
Russia. Sono queste le due facce del gold standard, sorta di feticcio
che nasconde da un lato le virtù del Sacro Graal e nel rovescio il
codice della perfetta fregatura.
Gli Stati Uniti hanno
conquistato l’indipendenza politica, ma l’economia americana è
sempre più schiava del “Metodo Rothschild”, grazie ad un meccanismo
funzionale alla pratica del noto Fiat Money, che molti già chiamano
London Connection.
Qualcosa che ricorda il “Trick or trade?” e la tradizione di
Halloween. Si tramanda anch’essa da padre in figlio, come le
generazioni di banchieri internazionali.
Così, le crisi economiche, ricorrenti dal 1837, quasi eguagliano in
frequenza gli scherzetti di fine ottobre, come l’ordine di richiamo,
improvviso e ingiustificato, dei “crediti a breve termine” e simili
stregonerie bancarie. È il trucco che negli States (e non solo) causa
insolvenze a catena, crack finanziari e sindromi da panico collettivo.
Il trade è l’ovvia fase successiva che, tradotta, significa aumento
del tasso di sconto e del gettito fiscale, diminuzione del potere
d’acquisto della moneta e ulteriore indebitamento pubblico.
In questo modo
indipendenza e autonomia (politica ed economica) vanno a farsi benedire.
Nel complesso gioco imperialistico del primo Novecento, si misurano
astuzia finanziaria e la potenza delle armi, perché la posta in palio
è il controllo dei territori ricchi di materie prime e, in particolare
come già ricordato, del petrolio.
L’indebitamento dello Stato precede dunque l’emissione di moneta,
cioè un flusso di liquidità da impiegare con urgenza per non causare
ulteriore inflazione e passivi insostenibili.
I mercati finanziari stimolano così gli investimenti pubblici,
obbligando lo Stato ad aumentare le spese per gli armamenti.
Cosa fa uno Stato
indebitato e ben provvisto di armi? Cerca di usarle, per limitare il
passivo. E poi perché le armi non impiegate sono inutili – servono
come deterrente, ma non migliorano i bilanci – il loro impiego, dietro
i più banali pretesti e le più artefatte provocazioni, può
trasformare un passivo in attivo, fino a quando non interviene un altro
Stato, pieno di debiti, ma armato fino ai denti che è costretto a
proporsi come belligerante. Una sorta di reazione a catena, come quella
ben meditata dai Rothschild, nel periodo che precede la Prima Guerra
Mondiale. Debito, economia instabile, passivi insostenibili, ampia
disponibilità di armamenti, obbligo al loro impiego, guerra.
Ecco lo scenario che si delinea in Europa, all’indomani dell’entrata
in vigore del Federal Reserve Act (gennaio 1914), quando inizia la piena
attività della Federal Reserve Bank of New York, strumento operativo
della Bank of England, che a sua volta è in stretta connessione con la
House of Rothschild.
Woodrow Wilson è ottimo
giurista che non prescrive rimedi, come egli stesso confessa. Lasciando
intendere che corruzione e degrado morale possono serpeggiare al
Congresso e alla Casa Bianca, sotto gli occhi del Presidente, come se
non fosse sua competenza e dovere adottare opportuni provvedimenti per
eliminarli. A Washington però come nell’Atene di Pericle, libertà e
democrazia sono miti dell’Olimpo, che vendono bene. Basta
confezionarli come pregiata merce d’esportazione.
All’uopo viene fondata l’American International Corporation,
secondogenita del Federal Reserve System e gigantesca rete del Corporate
Banking.
La politica americana, che non rinuncia al costante richiamo al suo
breviario mitologico, inaugura così la grande missione di propaganda
fede, secondo un nuovo, perfezionato rituale, capace di nascondere,
all’ombra di un mito, il raggiro e la truffa, pur evidenti, ma tanto
consueti da essere infine ammissibili, perché origine di un
mortificante, colossale e inconfessabile equivoco