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Le origini dell’antisemitismo
di Carlo Bertani - 4/05/2006

Perché si torna a parlare insistentemente d’antisemitismo? E’ corretto affermare che gli arabi sono antisemiti? Da dove nacque la leggenda dell’ebreo errante e della sua dedizione al commercio? Perché arriviamo ad usare strumentalmente il peggior crimine commesso dall’umanità?

 «Rabbi, perché le persone ricche sono le più indifferenti alle sofferenze altrui?» chiese Simon.
«Vieni alla finestra, Simon, e dimmi cosa vedi» rispose il rabbino.
«Beh…il solito: una mamma che spinge una carrozzella, il garzone del lattaio che torna in bottega, i colombi che beccano le briciole…»
«Ora vai di fronte allo specchio e dimmi cosa vedi.»
«Mah, rabbi, cosa vuoi che veda? Vedo me stesso…»
«Vedi, Simon, il vetro della finestra e quello dello specchio sono costituiti dallo stesso materiale, ma basta un leggero velo d’argento e non riuscirai a vedere altro che te stesso.»
Anonimo triestino d’inizio ‘900

Mentre per ragioni più interne che internazionali sentiamo evocare dal presidente iraniano Ahmadinejad i fantasmi della “conquista di Gerusalemme”, e da quello israeliano Olmert – per le stesse ragioni – quello di Hitler, nessuno si prende la briga d’approfondire un poco il tema: sionismo, ebraismo, antisemitismo, anti-sionismo sono termini che possiamo mescolare nel calderone mediatico senza nessuna precauzione? Le “parole sono pietre” solo quando ci fa comodo, per poi dimenticarcene quando non conviene?
C’è evidentemente chi ha interesse a confonderle per mascherare altri fini, ma chi desidera veramente comprendere questi fenomeni non dovrebbe accontentarsi del solito “tritacarne” dei media di regime: cultura pre-digerita per ridurre i tempi dell’assimilazione; se, poi, quel nutrimento causa un’intossicazione…beh…provate a cambiare canale!

Per avere un quadro più completo del fenomeno dobbiamo spiccare un lungo salto nella Storia, perché le radici dell’antisemitismo nascono in Spagna, e più precisamente nell’ultimo decennio del Quattrocento: protagonista della vicenda – del tutto inconsapevole – fu addirittura Cristoforo Colombo.
La fine del Quattrocento è importantissima poiché s’accavallano in pochi anni una serie d’eventi che plasmeranno la storia dei secoli successivi.
A metà del Quattrocento è protagonista il Portogallo: i navigatori portoghesi scoprono la rotta per giungere alle isole delle spezie (le Indie) circumnavigando l’Africa. Si tratta di un evento epocale, poiché chi può acquistare direttamente dai produttori le preziose spezie non deve più soggiacere al “taglieggio” degli intermediari arabi, e non servono più le Crociate per risolvere il problema mediante una improbabile “via di terra” che conduca alle Indie. Lo stesso Marco Polo – pochi secoli prima – dovette piegare verso nord sulla Via della Seta e giungere in Cina, giacché la via meridionale verso l’India e l’Indonesia era impraticabile per il controllo che ancora esercitavano i califfati arabi.

Il commercio delle spezie aveva all’epoca la stessa importanza che ha oggi quello del petrolio: nelle isole tropicali dell’Oceano Indiano crescevano gli alberi del pepe e della cannella, così come milioni d’anni prima nelle basse lagune i depositi organici di milioni d’anni avevano creato quel liquido scuro, appiccicoso e puzzolente che oggi sta dettando l’agenda geopolitica del pianeta.
L’importanza delle spezie non era però limitata alle poche sostanze che oggi conosciamo: elemi, benzoino, gomma adragante, coppale di Manila ed altre centinaia di spezie costituivano la chimica e la farmacopea del mondo antico. Oggi, ugualmente, dal petrolio ricaviamo la totalità degli intermedi che diventano carburanti, vernici, farmaci, materie plastiche, ecc.
Il piccolo Portogallo, grazie al coraggio dei suoi comandanti – Gil Eanes, Bartolomeu Diaz, Vasco da Gama ed altri – ed all’intraprendenza di Enrico duca di Viseu – detto Enrico il Navigatore – a metà del millennio ha fatto Bingo: si apre per il piccolo regno lusitano la possibilità di diventare potenza, monopolista nel mercato più ricco ed ambito dell’antichità.

Nessuno però è mai solo ed il Portogallo ha un grande vicino – la Spagna – che negli stessi anni è riuscita a riunire i distinti regni di Castiglia e di Aragona con il matrimonio fra Isabella e Ferdinando. Il primo passo dei regnanti è quello di scacciare gli arabi che ancora occupano le province meridionali, ma la guerra costa e le cose vanno a rilento.
Come se non bastasse, i coraggiosi lusitani si possono dedicare in santa pace a costruire alleanze ed a stipulare contratti con sultani dai nomi impronunciabili che regnano su isole di là del mare, e questo proprio mentre gli hidalgo spagnoli versano il loro sangue ed il loro onore sulla terra d’Andalusia.
Bisogna fare di necessità virtù – questo è il sentimento dominante alla corte spagnola – poiché non ci si può permettere una guerra su due fronti: in questo panorama che tende un po’ alla depressione giunge in visita un mercante genovese che chiede sovvenzioni. Il genovese desidera raggiungere le Indie navigando verso Ovest, poiché la Terra è tonda e secondo i suoi calcoli – rivelatisi poi errati, mentre gli astronomi dell’Inquisizione spagnola avevano centrato le reali dimensioni del pianeta, più grandi di un terzo rispetto ai calcoli di Colombo – si può, percorrendo quella via, giungere alle isole dove i portoghesi stanno intessendo accordi e caricando navi di preziose spezie.

A Genova si dice «Se nu ghe nè, nu ghe né» (Se non ce n’è, non ce n’è) ed alla corta spagnola le casse erano vuote. Quel visionario genovese, però, era l’unica speranza di frantumare il probabile monopolio portoghese sulle spezie: l’importante è che fosse una “speranza” a basso costo.
Detto fatto: vengono confiscate due navi ( la Niňa e la Pinta ) ai fratelli Pinzon accusati di contrabbando e, se non vorranno seguire Colombo nel grande Mare Oceano, potranno accomodarsi nelle accoglienti prigioni del regno, mentre per la Santa Maria provvede un gruppo di banchieri fiorentini, la “Svizzera” dell’epoca.
La corona spagnola partecipa con circa duecentomila maravedì, che sembrano una cifra enorme ma che – tradotti con molta approssimazione in moneta attuale – rappresentano poche migliaia di euro. Insomma, pochi soldi e tante promesse: se tornerai vincitore si vedrà.

Al ritorno di Colombo l’Andalusia è conquistata ed i mori di Granada sono stati scacciati: proprio qui iniziano i guai per gli ebrei, perché Colombo torna con pochissimo oro ma sa incantare la corte spagnola con mirabolanti promesse.
Come dopo la fine d’ogni guerra, bisogna compensare i vincitori ma non ci sono sufficienti terre per concedere feudi a tutti i coraggiosi caballero che hanno gloriosamente combattuto: inoltre, bisogna pensare a colonizzare le terre che l’eccentrico genovese ha condotto sotto la corona di Spagna.
La seconda spedizione di Colombo non può più essere una traballante avventura, giacché schiere di nobili hidalgo senza terra – incantati dai racconti di Colombo – sognano d’installarsi nei feudi del nuovo mondo e, da lì, commerciare in spezie e coprirsi d’oro.

Servono navi, molte navi, ma la corona spagnola non sa dove trovare i fondi: qualcuno ha un’idea, un’intuizione che costerà agli ebrei secoli di sofferenze.
Siccome sono pur sempre rei di deicidio, non sarebbe sbagliato punirli scacciandoli dall’Andalusia e confiscare loro terre e beni – sussurrò probabilmente qualche prelato spagnolo ai regnanti – ed in questo modo si riempirebbero le casse dello stato, si finanzierebbe la nuova spedizione, si potrebbe…
Le ventisette navi della seconda spedizione di Colombo furono acquistate ed approntate grazie ai beni confiscati agli ebrei – i quali avevano vissuto in pace con i musulmani per secoli – tanto che ancora oggi l’Andalusia dei califfati di Cordoba e Grenada viene ricordata e riconosciuta come un miracolo di tolleranza e di convivenza fra etnie diverse.
Non esistono cronache certe di violenze consumate contro gli ebrei durante la cacciata: se ci furono non raggiunsero probabilmente mai una dimensione tale da scomodare un cronista dell’epoca ma l’esilio – per chi viveva da secoli su quelle terre – non era certo poca cosa.

Dove migrarono gli ebrei? La gran parte si diresse nelle Fiandre – allora sottoposte, per complicati diritti di successione, alla corona di Spagna – ma altri si sparsero nell’Europa centrale, in Francia, in Italia.
Per inserire la “ciliegina” sulla torta fu aggiunta una postilla: anche nelle nuove terre gli ebrei non avrebbero potuto possedere beni immobili; niente, case, terre, negozi, magazzini, ecc, ed anche questo era funzionale alle necessità economiche dell’epoca.
Chi poteva – nel fermento del nascente capitalismo – svolgere l’importantissima funzione della circolazione del denaro, prestato ovviamente ad interesse?

Qui la Chiesa Cattolica incontrò un imprevisto ostacolo: prestare il denaro ad interesse era codificato come usura – qualunque fosse il tasso d’interesse – e si finiva all’Inferno. Lo stesso problema investe tuttora i musulmani dato che islamici, cristiani ed ebrei bevvero tutti alla medesima fonte, ossia alle antiche scritture.
Pur introducendo nella nuova cosmogonia il Purgatorio[1] (non presente nella Bibbia) i cristiani erano dubbiosi rispetto alla nuova impostazione mentre agli ebrei – privati del diritto di possedere beni immobili – non rimaneva altra strada.
Successivamente la Riforma mescolò ancora le carte, consentendo maggiore libertà agli ebrei nelle terre luterane e maggiori restrizioni in quelle sottoposte al potere della Chiesa di Roma.
Infine, le Fiandre raggiunsero l’indipendenza ed assunsero il nome di De Zeven Provincen, Le Province Libere: libere da chi? Dalla Spagna e da Roma, guarda a caso.

Non per pura combinazione, le aree del nord Europa vissero in quei secoli un costante sviluppo economico mentre le aree latine caddero in un lento ma inesorabile declino, ed ancora oggi ad Amsterdam sorgono le sedi d’importantissime banche d’affari ebraiche.
Questa però è solo la metà della vicenda, giacché riguarda i cosiddetti ebrei sefarditi, popolazioni semite che erano migrate per secoli dopo la distruzione del Tempio in Nord Africa e, da lì, in Andalusia.
L’altra parte della vicenda coinvolge gli ebrei askenaziti, che hanno diversa origine, e che furono quelli che pagarono probabilmente il più alto tributo di vite alla persecuzione nazista.
Sull’appartenenza degli ebrei askenaziti alle tribù originarie d’Israele c’è qualche dubbio, giacché gli askenaziti sembrano derivare da popolazioni d’origine caucasica o centro-europea, convertitesi successivamente all’ebraismo intorno ai secoli VII-VIII d. C. Sono gli stessi secoli dell’Egira e dell’espansione musulmana, anche se non vi furono – da parte di Maometto – provvedimenti punitivi nei confronti degli ebrei.

Alcune cronache dell’epoca[2] narrano d’assalti a carovane di mercanti ebrei, ma l’abitudine a depredare le carovane (ebrei, cristiani o musulmani che fossero) nel Neghed era consolidata: nemmeno Maometto ebbe il coraggio di pronunciarsi apertamente contro la consuetudine alla razzia reiterata da secoli.
Gli ebrei askenaziti popolarono le aree orientali europee e la Russia : parlavano (e parlano) yiddish, una lingua costituita da una fusione fra il tedesco e l’ebraico antico del Talmud.
Prima della Shoà nazista, gli ebrei askenaziti ebbero a subire le persecuzioni staliniane, ma non si trattò – come alcuni forse ritengono – di persecuzioni dirette con precisione contro gli ebrei, bensì di un fenomeno più generale conseguente al disastro nel quale si trovava l’economia sovietica nel periodo fra le due guerre mondiali.

In sostanza, la dirigenza comunista avviò il programma di collettivizzazione forzata delle terre ( la NEP , ecc) ma si accorse ben presto che la produttività delle terre – mancando l’interesse personale nel produrre – diminuiva anziché aumentare[3].
Per evitare disastri economici, le autorità centrali concessero alcune terre in uso privato e la possibilità di svolgere piccoli commerci: la produttività aumentò, ma si creò immediatamente una classe più agiata, una sorta di piccola borghesia rurale: i kulak.
Quando il fenomeno era troppo visibile – ossia quando la borghesia rurale iniziava ad impensierire il potere politico – partivano le deportazioni verso i campi di lavoro in Siberia oppure negli imponenti cantieri per deviare fiumi e scavare canali.

Questo fenomeno si produsse ciclicamente almeno tre volte negli anni fra le due guerre mondiali, con conseguenti deportazioni dei kulak verso i campi di lavoro, i cosiddetti gulag, che non erano però campi di sterminio, ma campi di lavoro coatto con condizioni di vita durissime, al limite della sopravvivenza[4]. Possiamo immaginare una sorta di Cayenna francese, come quella narrata nel film Papillon, trasposta in area siberiana; furono senz’altro campi di sofferenza ma non è corretto affermare l’uguaglianza lager/gulag perché è storicamente scorretta: non ci furono mai – nei gulag – camere a gas e forni crematori.
Gli ebrei, più avvezzi per abitudine (erano più acculturati) al commercio caddero spesso nelle persecuzioni staliniane, ma con loro presero la via della Siberia anche russi, ucraini, georgiani, ecc.

In definitiva, il sospetto sovietico per l’ebreo nasceva da considerazioni economiche e non razziali: seguirono – in altre parole – il destino di milioni di cittadini sovietici sottoposti alle angherie di Stalin con l’accusa d’essere dei controrivoluzionari. Nondimeno, nella Seconda Guerra Mondiale, due divisioni ebraiche combatterono nell’Armata Rossa fino alla vittoria.
Ben diversa fu la situazione che iniziò a prefigurarsi per gli ebrei nelle aree centrali dell’Europa, principalmente in Germania.
Nessuno – alla metà degli anni ’30 – poteva immaginare cosa sarebbe successo in un decennio: tutto può essere addossato alla “follia” di Hitler? Ancora oggi non c’è accordo e certezza per definire se Hitler fu un folle: più che sulla persona in oggetto, il dibattito dovrebbe riguardare gli attributi della follia.

Uccidere premeditatamente milioni di persone parrebbe folle, ma se assegniamo tout court la patente di folle ad Hitler rischiamo di perdere per strada alcuni aspetti molto importanti, spesso taciuti, mai conclamati con la dovuta importanza.
Se supponiamo che Hitler fosse sano di mente, dovremmo ammettere che il suo piano era quello di sterminare scientemente tutti gli ebrei tedeschi. Ci sono innumerevoli ipotesi e congetture sulla decisione di sterminare gli ebrei, molte delle quali traggono origine dall’esoterismo, ma è difficilissimo districarsi fra le mille sfaccettature dei mille maghi e maghetti dell’epoca. Per giustificare in qualche modo un approccio “teorico” alla Shoà si tirano in ballo teosofi e filosofi, società segrete e riti iniziatici, ma nulla rimane in piedi con sufficiente certezza ad un’analisi serrata.

L’unico dato certo è che la Germania si trovava in guerra contro mezzo mondo e non bastavano le adunate oceaniche per vincere la guerra: ci volevano risorse, un mare di risorse.
Nell’economia di guerra non si paga in moneta (con marchi che potevano dall’oggi al domani diventare carta straccia?): si paga in oro, oro e basta.
I tedeschi dovevano pagare il petrolio all’alleata Romania e l’acciaio alla neutrale Svezia: addirittura inviarono sottomarini fino all’Indonesia per acquistare dai giapponesi la preziosa gomma con la quale fabbricare le guarnizioni dei boccaporti degli U-Boot.
Sulla popolazione d’origine ebraica che viveva in Germania allo scoppio delle ostilità ci sono cifre contrastanti, dai 3 ai 4,5 milioni di persone, ma un dato è certo: gli ebrei facevano parte della borghesia mercantile tedesca, erano famiglie benestanti.

L’esproprio dei beni della parte più ricca della borghesia tedesca portò nelle casse del Reich tonnellate e tonnellate d’oro, soprattutto quando una parte della grande finanza tedesca si smarcò dal potere nazista[5]: per questa ragione prima dello sterminio veniva accuratamente accertato e confiscato il patrimonio.
Per attuare questa illegale confisca l’unico mezzo era la negazione dei soggetti stessi, che erano privati dei loro beni poiché non veniva riconosciuto loro il diritto all’esistenza. Non a caso Primo Levi cita spesso nei suoi libri la “negazione” degli ebrei come esseri umani, perché l’unica giustificazione (!) per depredarli dei loro averi era di spogliarli anzitutto della dignità umana: senza dignità umana, non potevano vantare diritti.
Man mano che le armate di Hitler invadevano l’Europa, il metodo era trasferito pari pari ai governi d’occupazione, compiacenti od indifferenti che essi fossero: in Italia ricordiamo il rastrellamento e la deportazione degli abitanti del ghetto di Roma.

Anche se moltissimi europei aiutarono gli ebrei a nascondersi ed a fuggire, la responsabilità europea – e principalmente tedesca – nella Shoà è evidente, chiara come l’acqua. Perché a guerra ultimata la Germania non fu punita per il crimine commesso, perché non dovette cedere parte del territorio agli ebrei (che vivevano in quelle terre da secoli), perché solo negli ultimi anni del ‘900 è stato possibile aprire (parzialmente) gli archivi delle banche svizzere che si prestarono per i pagamenti internazionali, quando sapevano benissimo che l’oro che i tedeschi depositavano proveniva dallo sterminio degli ebrei?
Queste domande sono state poste con forza da Ahmadinejad agli europei e non hanno ottenuto risposta. Lo crediamo bene. Cosa avremmo potuto rispondere noi italiani, dopo che per decenni avevamo negato le malefatte razziali del fascismo voltando semplicemente l’armadio che conteneva quegli atti con le ante contro il muro?

Come avrebbero potuto giustificare i francesi le malefatte di Vichy, che giunse addirittura a concedere ai tedeschi l’uso delle ferrovie siriane per trasportare materiale bellico in Iraq e colpire gli inglesi alle spalle?
E poi: polacchi, croati, ucraini, belgi, ungheresi…che servirono i tedeschi nella “caccia” all’ebreo?
Hitler siamo noi – verrebbe da dire – anche se ovviamente nessuno di noi condivide un’unghia di ciò che fece il dittatore nazista, ma storicamente la responsabilità della Shoà è europea, gli arabi non c’entrano niente.
Fino al 1500 gli ebrei non furono “erranti” ma stanziali, così come le popolazioni Rom non sono girovaghe ovunque: nei Balcani esistono intere città popolate dai Romane. Lo stereotipo dell’ebreo errante fu creato ed appioppato ad hoc agli ebrei per giustificare la confisca dei loro beni in Andalusia e la successiva, necessaria funzione di fornitori di capitali nell’Europa del nascente capitalismo.

Non sappiamo se Hitler conoscesse la vicenda spagnola ma dobbiamo riconoscere che adottò il medesimo metodo, con in aggiunta una ferocia senza pari, necessaria però per i suoi criminali piani giacché nella Germania di quegli anni era improponibile una “cacciata” su base religiosa, dato che lo stesso regime non era certo sostenitore del cattolicesimo: il risorgere dei miti celtici e pagani, appoggiato dal regime, cozzava violentemente contro la Chiesa di Roma.
Questo è l’antisemitismo, ossia un fenomeno completamente europeo legato a fattori principalmente economici: chiunque lanci accuse d’antisemitismo fuori dall’Europa dovrebbe prima fare un bel esame di coscienza, e domandarsi se il pegno per tanto sangue innocente è stato veramente pagato.
Può oggi rinascere? Non ne esistono le basi, le ragioni storiche che lo sorressero. Se escludiamo poche frange estremiste e completamente isolate dalla realtà sociale – e qualche “storico” negazionista che cerca un po’ di pubblicità addirittura in un processo – non esiste antisemitismo in Europa: nessuno ritiene in alcun modo un cittadino di religione ebraica diverso da un altro, e le maggiori discriminazioni – ad essere onesti – colpiscono oggi i musulmani.

Può essere invece pericoloso il coagulo di tensioni nei confronti della politica israeliana, ma questo non c’entra nulla con l’antisemitismo poiché sono due diverse categorie: la prima si colloca all’interno del dibattito politico, la seconda in quello storico e, per molti aspetti, nell’antropologia criminale.
Chi sa discriminare e compiere una chiara distinzione non può cadere nella trappola di creare un connubio (inesistente) fra l’essere semiti o cittadini dello Stato d’Israele: sono due ambiti completamente distinti.
Ciò che fu la storia degli ebrei nei due millenni che ci separano dalla distruzione del Tempio, e ciò che invece è avvenuto dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948, sono due vicende completamente separate e tutti (ebrei compresi) faremmo meglio a mantenere sempre in primo piano questa distinzione, per mantenere libertà di giudizio e per non cadere nelle trappole di una storia riletta strumentalmente, solo a proprio vantaggio. E’ sacrosanto ricordare la Shoà , perché è memoria storica europea – orripilante ricordo – ma lasciamo dormire in pace quelle anime innocenti e non mescoliamo il loro dolore con ciò che abbiamo oggi sotto gli occhi: se il sonno della ragione genera i mostri, quello della mistificazione scatena il sangue.

Carlo Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it


[1] Jaques Le Goff – La nascita del Purgatorio – Einaudi
[2] Will Durant – Arabi ed Ebrei – Araba fenice
[3] Il fenomeno fu molto complesso e richiederebbe una lunga analisi: per chi desiderasse approfondire l’argomento consiglio la lettura di: Pierre Sorlin – Breve storia della società sovietica – Laterza.
[4] Primo Levi volle incontrare Solgenitsin (autore di Una giornata di Ivan Denissovic ed ex deportato in Siberia) per tracciare una mappa delle loro sventure. Dai dati che confrontarono (e che sono riportati in appendice a Se questo è un uomo, non però in tutte le edizioni) appurarono che la mortalità nei lager tedeschi era del 97%, mentre nei gulag russi era del 3% – esattamente l’opposto – a testimoniare che la finalità dei campi era completamente diversa.
[5] Il banchiere Thyssen – uno dei grandi magnati della finanza e dell’industria tedesca – nel 1935 fuggì negli USA confessando d’essersi pentito amaramente per aver sorretto l’affermazione dei nazisti, che apparvero dapprima alla grande borghesia industriale come l’unica ancora di salvezza nei confronti dell’avanzata della Lega dei Comunisti. Giorgio Galli cita l’episodio ne il suo Hitler ed il nazismo magico e da questa vicenda sono nate poi altre storie poco chiare, che coinvolgerebbero John Prescott Bush – nonno dell’attuale presidente USA – per l’appoggio offerto in America a Thyssen e, soprattutto, al suo patrimonio.

 
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