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Le
origini dell’antisemitismo
di
Carlo Bertani
Perché
si torna a parlare insistentemente d’antisemitismo? E’ corretto
affermare che gli arabi sono antisemiti? Da dove nacque la leggenda
dell’ebreo errante e della sua dedizione al commercio? Perché
arriviamo ad usare strumentalmente il peggior crimine commesso
dall’umanità?
«Vieni alla finestra, Simon, e dimmi cosa vedi» rispose il rabbino.
«Beh…il solito: una mamma che spinge una carrozzella, il garzone del
lattaio che torna in bottega, i colombi che beccano le briciole…»
«Ora vai di fronte allo specchio e dimmi cosa vedi.»
«Mah, rabbi, cosa vuoi che veda? Vedo me stesso…»
«Vedi, Simon, il vetro della finestra e quello dello specchio sono
costituiti dallo stesso materiale, ma basta un leggero velo d’argento
e non riuscirai a vedere altro che te stesso.»
Anonimo
triestino d’inizio ‘900
Mentre
per ragioni più interne che internazionali sentiamo evocare dal
presidente iraniano Ahmadinejad i fantasmi della “conquista di
Gerusalemme”, e da quello israeliano Olmert – per le stesse ragioni
– quello di Hitler, nessuno si prende la briga d’approfondire un
poco il tema: sionismo, ebraismo, antisemitismo, anti-sionismo sono
termini che possiamo mescolare nel calderone mediatico senza nessuna
precauzione? Le “parole sono pietre” solo quando ci fa comodo, per
poi dimenticarcene quando non conviene?
C’è evidentemente chi ha interesse a confonderle per mascherare altri
fini, ma chi desidera veramente comprendere questi fenomeni non dovrebbe
accontentarsi del solito “tritacarne” dei media di regime: cultura
pre-digerita per ridurre i tempi dell’assimilazione; se, poi, quel
nutrimento causa un’intossicazione…beh…provate a cambiare canale!
Per
avere un quadro più completo del fenomeno dobbiamo spiccare un lungo
salto nella Storia, perché le radici dell’antisemitismo nascono in
Spagna, e più precisamente nell’ultimo decennio del Quattrocento:
protagonista della vicenda – del tutto inconsapevole – fu
addirittura Cristoforo Colombo.
La fine del Quattrocento è importantissima poiché s’accavallano in
pochi anni una serie d’eventi che plasmeranno la storia dei secoli
successivi.
A metà del Quattrocento è protagonista il Portogallo: i navigatori
portoghesi scoprono la rotta per giungere alle isole delle spezie (le
Indie) circumnavigando l’Africa. Si tratta di un evento epocale, poiché
chi può acquistare direttamente dai produttori le preziose spezie non
deve più soggiacere al “taglieggio” degli intermediari arabi, e non
servono più le Crociate per risolvere il problema mediante una
improbabile “via di terra” che conduca alle Indie. Lo stesso Marco
Polo – pochi secoli prima – dovette piegare verso nord sulla Via
della Seta e giungere in Cina, giacché la via meridionale verso
l’India e l’Indonesia era impraticabile per il controllo che ancora
esercitavano i califfati arabi.
Il
commercio delle spezie aveva all’epoca la stessa importanza che ha
oggi quello del petrolio: nelle isole tropicali dell’Oceano Indiano
crescevano gli alberi del pepe e della cannella, così come milioni
d’anni prima nelle basse lagune i depositi organici di milioni
d’anni avevano creato quel liquido scuro, appiccicoso e puzzolente che
oggi sta dettando l’agenda geopolitica del pianeta.
L’importanza
delle spezie non era però limitata alle poche sostanze che oggi
conosciamo: elemi, benzoino, gomma adragante, coppale di Manila ed altre
centinaia di spezie costituivano la chimica e la farmacopea del mondo
antico. Oggi, ugualmente, dal petrolio ricaviamo la totalità degli
intermedi che diventano carburanti, vernici, farmaci, materie plastiche,
ecc.
Il piccolo Portogallo, grazie al coraggio dei suoi comandanti – Gil
Eanes, Bartolomeu Diaz, Vasco da Gama ed altri – ed
all’intraprendenza di Enrico duca di Viseu – detto Enrico il
Navigatore – a metà del millennio ha fatto Bingo: si apre per il
piccolo regno lusitano la possibilità di diventare potenza, monopolista
nel mercato più ricco ed ambito dell’antichità.
Nessuno
però è mai solo ed il Portogallo ha un grande vicino –
Come se non bastasse, i coraggiosi lusitani si possono dedicare in santa
pace a costruire alleanze ed a stipulare contratti con sultani dai nomi
impronunciabili che regnano su isole di là del mare, e questo proprio
mentre gli hidalgo spagnoli
versano il loro sangue ed il loro onore sulla terra d’Andalusia.
Bisogna fare di necessità virtù – questo è il sentimento dominante
alla corte spagnola – poiché non ci si può permettere una guerra su
due fronti: in questo panorama che tende un po’ alla depressione
giunge in visita un mercante genovese che chiede sovvenzioni. Il
genovese desidera raggiungere le Indie navigando verso Ovest, poiché
A
Genova si dice «Se nu ghe nè, nu ghe né» (Se non ce n’è, non ce n’è) ed
alla corta spagnola le casse erano vuote. Quel visionario genovese, però,
era l’unica speranza di frantumare il probabile monopolio portoghese
sulle spezie: l’importante è che fosse una “speranza” a basso
costo.
Detto fatto: vengono confiscate due navi (
La corona spagnola partecipa con circa duecentomila maravedì, che
sembrano una cifra enorme ma che – tradotti con molta approssimazione
in moneta attuale – rappresentano poche migliaia di euro. Insomma,
pochi soldi e tante promesse: se tornerai vincitore si vedrà.
Al
ritorno di Colombo l’Andalusia è conquistata ed i mori di Granada
sono stati scacciati: proprio qui iniziano i guai per gli ebrei, perché
Colombo torna con pochissimo oro ma sa incantare la corte spagnola con
mirabolanti promesse.
Come dopo la fine d’ogni guerra, bisogna compensare i vincitori ma non
ci sono sufficienti terre per concedere feudi a tutti i coraggiosi caballero
che hanno gloriosamente combattuto: inoltre, bisogna pensare a
colonizzare le terre che l’eccentrico genovese ha condotto sotto la
corona di Spagna.
La seconda spedizione di Colombo non può più essere una traballante
avventura, giacché schiere di nobili hidalgo senza terra – incantati dai racconti di Colombo –
sognano d’installarsi nei feudi del nuovo mondo e, da lì, commerciare
in spezie e coprirsi d’oro.
Servono
navi, molte navi, ma la corona spagnola non sa dove trovare i fondi:
qualcuno ha un’idea, un’intuizione che costerà agli ebrei secoli di
sofferenze.
Siccome sono pur sempre rei di deicidio, non sarebbe sbagliato punirli
scacciandoli dall’Andalusia e confiscare loro terre e beni – sussurrò
probabilmente qualche prelato spagnolo ai regnanti – ed in questo modo
si riempirebbero le casse dello stato, si finanzierebbe la nuova
spedizione, si potrebbe…
Le ventisette navi della seconda spedizione di Colombo furono acquistate
ed approntate grazie ai beni confiscati agli ebrei – i quali avevano
vissuto in pace con i musulmani per secoli – tanto che ancora oggi
l’Andalusia dei califfati di Cordoba e Grenada viene ricordata e
riconosciuta come un miracolo di tolleranza e di convivenza fra etnie
diverse.
Non esistono cronache certe di violenze consumate contro gli ebrei
durante la cacciata: se ci furono non raggiunsero probabilmente mai una
dimensione tale da scomodare un cronista dell’epoca ma l’esilio –
per chi viveva da secoli su quelle terre – non era certo poca cosa.
Dove
migrarono gli ebrei? La gran parte si diresse nelle Fiandre – allora
sottoposte, per complicati diritti di successione, alla corona di Spagna
– ma altri si sparsero nell’Europa centrale, in Francia, in Italia.
Per inserire la “ciliegina” sulla torta fu aggiunta una postilla:
anche nelle nuove terre gli ebrei non avrebbero potuto possedere beni
immobili; niente, case, terre, negozi, magazzini, ecc, ed anche questo
era funzionale alle necessità economiche dell’epoca.
Chi poteva – nel fermento del nascente capitalismo – svolgere
l’importantissima funzione della circolazione del denaro, prestato
ovviamente ad interesse?
Qui
Pur introducendo nella nuova cosmogonia il Purgatorio[1]
(non presente nella Bibbia) i cristiani erano dubbiosi rispetto alla
nuova impostazione mentre agli ebrei – privati del diritto di
possedere beni immobili – non rimaneva altra strada.
Successivamente
Infine, le Fiandre raggiunsero l’indipendenza ed assunsero il nome di De
Zeven Provincen, Le Province Libere: libere da chi? Dalla Spagna e
da Roma, guarda a caso.
Non
per pura combinazione, le aree del nord Europa vissero in quei secoli un
costante sviluppo economico mentre le aree latine caddero in un lento ma
inesorabile declino, ed ancora oggi ad Amsterdam sorgono le sedi
d’importantissime banche d’affari ebraiche.
Questa però è solo la metà della vicenda, giacché riguarda i
cosiddetti ebrei sefarditi,
popolazioni semite che erano migrate per secoli dopo la distruzione del
Tempio in Nord Africa e, da lì, in Andalusia.
L’altra parte della vicenda coinvolge gli ebrei askenaziti,
che hanno diversa origine, e che furono quelli che pagarono
probabilmente il più alto tributo di vite alla persecuzione nazista.
Sull’appartenenza degli ebrei askenaziti alle tribù originarie
d’Israele c’è qualche dubbio, giacché gli askenaziti sembrano
derivare da popolazioni d’origine caucasica o centro-europea,
convertitesi successivamente all’ebraismo intorno ai secoli VII-VIII
d. C. Sono gli stessi secoli dell’Egira e dell’espansione musulmana,
anche se non vi furono – da parte di Maometto – provvedimenti
punitivi nei confronti degli ebrei.
Alcune
cronache dell’epoca[2]
narrano d’assalti a carovane di mercanti ebrei, ma l’abitudine a
depredare le carovane (ebrei, cristiani o musulmani che fossero) nel
Neghed era consolidata: nemmeno Maometto ebbe il coraggio di
pronunciarsi apertamente contro la consuetudine alla razzia reiterata da
secoli.
Gli ebrei askenaziti popolarono le aree orientali europee e
Prima della Shoà nazista, gli ebrei askenaziti ebbero a subire le
persecuzioni staliniane, ma non si trattò – come alcuni forse
ritengono – di persecuzioni dirette con precisione contro gli ebrei,
bensì di un fenomeno più generale conseguente al disastro nel quale si
trovava l’economia sovietica nel periodo fra le due guerre mondiali.
In
sostanza, la dirigenza comunista avviò il programma di
collettivizzazione forzata delle terre (
Per evitare disastri economici, le autorità centrali concessero alcune
terre in uso privato e la possibilità di svolgere piccoli commerci: la
produttività aumentò, ma si creò immediatamente una classe più
agiata, una sorta di piccola borghesia rurale: i kulak.
Quando il fenomeno era troppo visibile – ossia quando la borghesia
rurale iniziava ad impensierire il potere politico – partivano le
deportazioni verso i campi di lavoro in Siberia oppure negli imponenti
cantieri per deviare fiumi e scavare canali.
Questo
fenomeno si produsse ciclicamente almeno tre volte negli anni fra le due
guerre mondiali, con conseguenti deportazioni dei kulak
verso i campi di lavoro, i cosiddetti gulag,
che non erano però campi di sterminio, ma campi di lavoro coatto con
condizioni di vita durissime, al limite della sopravvivenza[4].
Possiamo immaginare una sorta di Cayenna francese, come quella narrata
nel film Papillon, trasposta
in area siberiana; furono senz’altro campi di sofferenza ma non è
corretto affermare l’uguaglianza lager/gulag perché è storicamente
scorretta: non ci furono mai – nei gulag – camere a gas e forni
crematori.
Gli ebrei, più avvezzi per abitudine (erano più acculturati) al
commercio caddero spesso nelle persecuzioni staliniane, ma con loro
presero la via della Siberia anche russi, ucraini, georgiani, ecc.
In
definitiva, il sospetto sovietico per l’ebreo nasceva da
considerazioni economiche e non razziali: seguirono – in altre parole
– il destino di milioni di cittadini sovietici sottoposti alle
angherie di Stalin con l’accusa d’essere dei controrivoluzionari.
Nondimeno, nella Seconda Guerra Mondiale, due divisioni ebraiche
combatterono nell’Armata Rossa fino alla vittoria.
Ben diversa fu la situazione che iniziò a prefigurarsi per gli ebrei
nelle aree centrali dell’Europa, principalmente in Germania.
Nessuno – alla metà degli anni ’30 – poteva immaginare cosa
sarebbe successo in un decennio: tutto può essere addossato alla
“follia” di Hitler? Ancora oggi non c’è accordo e certezza per
definire se Hitler fu un folle: più che sulla persona in oggetto, il
dibattito dovrebbe riguardare gli attributi della follia.
Uccidere
premeditatamente milioni di persone parrebbe folle, ma se assegniamo tout
court la patente di folle ad Hitler rischiamo di perdere per strada
alcuni aspetti molto importanti, spesso taciuti, mai conclamati con la
dovuta importanza.
Se supponiamo che Hitler fosse sano di mente, dovremmo ammettere che il
suo piano era quello di sterminare scientemente tutti gli ebrei
tedeschi. Ci sono innumerevoli ipotesi e congetture sulla decisione di
sterminare gli ebrei, molte delle quali traggono origine
dall’esoterismo, ma è difficilissimo districarsi fra le mille
sfaccettature dei mille maghi e maghetti dell’epoca. Per giustificare
in qualche modo un approccio “teorico” alla Shoà si tirano in ballo
teosofi e filosofi, società segrete e riti iniziatici, ma nulla rimane
in piedi con sufficiente certezza ad un’analisi serrata.
L’unico
dato certo è che
Nell’economia di guerra non si paga in moneta (con marchi che potevano
dall’oggi al domani diventare carta straccia?): si paga in oro, oro e
basta.
I tedeschi dovevano pagare il petrolio all’alleata Romania e
l’acciaio alla neutrale Svezia: addirittura inviarono sottomarini fino
all’Indonesia per acquistare dai giapponesi la preziosa gomma con la
quale fabbricare le guarnizioni dei boccaporti degli U-Boot.
Sulla popolazione d’origine ebraica che viveva in Germania allo
scoppio delle ostilità ci sono cifre contrastanti, dai 3 ai 4,5 milioni
di persone, ma un dato è certo: gli ebrei facevano parte della
borghesia mercantile tedesca, erano famiglie benestanti.
L’esproprio
dei beni della parte più ricca della borghesia tedesca portò nelle
casse del Reich tonnellate e tonnellate d’oro, soprattutto quando una
parte della grande finanza tedesca si smarcò dal potere nazista[5]:
per questa ragione prima dello sterminio veniva accuratamente accertato
e confiscato il patrimonio.
Per attuare questa illegale confisca l’unico mezzo era la negazione
dei soggetti stessi, che erano privati dei loro beni poiché non veniva
riconosciuto loro il diritto all’esistenza. Non a caso Primo Levi cita
spesso nei suoi libri la “negazione” degli ebrei come esseri umani,
perché l’unica giustificazione (!) per depredarli dei loro averi era
di spogliarli anzitutto della dignità umana: senza dignità umana, non
potevano vantare diritti.
Man mano che le armate di Hitler invadevano l’Europa, il metodo era
trasferito pari pari ai governi d’occupazione, compiacenti od
indifferenti che essi fossero: in Italia ricordiamo il rastrellamento e
la deportazione degli abitanti del ghetto di Roma.
Anche
se moltissimi europei aiutarono gli ebrei a nascondersi ed a fuggire, la
responsabilità europea – e principalmente tedesca – nella Shoà è
evidente, chiara come l’acqua. Perché a guerra ultimata
Queste domande sono state poste con forza da Ahmadinejad agli europei e
non hanno ottenuto risposta. Lo crediamo bene. Cosa avremmo potuto
rispondere noi italiani, dopo che per decenni avevamo negato le
malefatte razziali del fascismo voltando semplicemente l’armadio che
conteneva quegli atti con le ante contro il muro?
Come
avrebbero potuto giustificare i francesi le malefatte di Vichy, che
giunse addirittura a concedere ai tedeschi l’uso delle ferrovie
siriane per trasportare materiale bellico in Iraq e colpire gli inglesi
alle spalle?
E poi: polacchi, croati, ucraini, belgi, ungheresi…che servirono i
tedeschi nella “caccia” all’ebreo?
Hitler siamo noi – verrebbe da dire – anche se ovviamente nessuno di
noi condivide un’unghia di ciò che fece il dittatore nazista, ma
storicamente la responsabilità della Shoà è europea, gli arabi non
c’entrano niente.
Fino al 1500 gli ebrei non furono “erranti” ma stanziali, così come
le popolazioni Rom non sono girovaghe ovunque: nei Balcani esistono
intere città popolate dai Romane.
Lo stereotipo dell’ebreo errante fu creato ed appioppato ad hoc agli
ebrei per giustificare la confisca dei loro beni in Andalusia e la
successiva, necessaria funzione di fornitori di capitali nell’Europa
del nascente capitalismo.
Non
sappiamo se Hitler conoscesse la vicenda spagnola ma dobbiamo
riconoscere che adottò il medesimo metodo, con in aggiunta una ferocia
senza pari, necessaria però per i suoi criminali piani giacché nella
Germania di quegli anni era improponibile una “cacciata” su base
religiosa, dato che lo stesso regime non era certo sostenitore del
cattolicesimo: il risorgere dei miti celtici e pagani, appoggiato dal
regime, cozzava violentemente contro
Questo è l’antisemitismo, ossia un fenomeno completamente europeo
legato a fattori principalmente economici: chiunque lanci accuse
d’antisemitismo fuori dall’Europa dovrebbe prima fare un bel esame
di coscienza, e domandarsi se il pegno per tanto sangue innocente è
stato veramente pagato.
Può oggi rinascere? Non ne esistono le basi, le ragioni storiche che lo
sorressero. Se escludiamo poche frange estremiste e completamente
isolate dalla realtà sociale – e qualche “storico” negazionista
che cerca un po’ di pubblicità addirittura in un processo – non
esiste antisemitismo in Europa: nessuno ritiene in alcun modo un
cittadino di religione ebraica diverso da un altro, e le maggiori
discriminazioni – ad essere onesti – colpiscono oggi i musulmani.
Può
essere invece pericoloso il coagulo di tensioni nei confronti della
politica israeliana, ma questo non c’entra nulla con l’antisemitismo
poiché sono due diverse categorie: la prima si colloca all’interno
del dibattito politico, la seconda in quello storico e, per molti
aspetti, nell’antropologia criminale.
Chi sa discriminare e compiere una chiara distinzione non può cadere
nella trappola di creare un connubio (inesistente) fra l’essere semiti
o cittadini dello Stato d’Israele: sono due ambiti completamente
distinti.
Ciò che fu la storia degli ebrei nei due millenni che ci separano dalla
distruzione del Tempio, e ciò che invece è avvenuto dalla creazione
dello Stato di Israele nel 1948, sono due vicende completamente separate
e tutti (ebrei compresi) faremmo meglio a mantenere sempre in primo
piano questa distinzione, per mantenere libertà di giudizio e per non
cadere nelle trappole di una storia riletta strumentalmente, solo a
proprio vantaggio. E’ sacrosanto ricordare
Carlo
Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it
[1]
Jaques Le Goff – La
nascita del Purgatorio – Einaudi
[2]
Will Durant
– Arabi ed Ebrei –
Araba fenice
[3]
Il fenomeno
fu molto complesso e richiederebbe una lunga analisi: per chi
desiderasse approfondire l’argomento consiglio la lettura di:
Pierre Sorlin – Breve storia
della società sovietica – Laterza.
[4]
Primo Levi
volle incontrare Solgenitsin (autore di Una giornata di Ivan Denissovic ed ex deportato in Siberia) per
tracciare una mappa delle loro sventure. Dai dati che confrontarono
(e che sono riportati in appendice a Se
questo è un uomo, non però in tutte le edizioni) appurarono
che la mortalità nei lager tedeschi era del 97%, mentre nei gulag
russi era del 3% – esattamente l’opposto – a testimoniare che
la finalità dei campi era completamente diversa.
[5]
Il
banchiere Thyssen – uno dei grandi magnati della finanza e
dell’industria tedesca – nel 1935 fuggì negli USA confessando
d’essersi pentito amaramente per aver sorretto l’affermazione
dei nazisti, che apparvero dapprima alla grande borghesia
industriale come l’unica ancora di salvezza nei confronti
dell’avanzata della Lega dei Comunisti. Giorgio Galli cita
l’episodio ne il suo Hitler ed il nazismo magico e da questa
vicenda sono nate poi altre storie poco chiare, che coinvolgerebbero
John Prescott Bush – nonno dell’attuale presidente USA – per
l’appoggio offerto in America a Thyssen e, soprattutto, al suo
patrimonio.